di Maurizio Sgroi
Sarà pure un caso, come il buon senso suggerisce, ma il Fmi ha rilasciato di recente uno studio molto interessante per testare la sensatezza dell’ipotesi che individua nella svalutazione salariale la panacea dei mali della crisi. E questo potevo pure aspettarmelo, visto che la svalutazione c’è stata in molti paesi e pure massiccia.
Quello che non mi aspettavo invece è la conclusione: tale ipotesi può essere fondata, quella della svalutazione dei salari, ma solo se nel frattempo interviene una qualche forma di allentamento monetario. In caso contrario, e nell’ipotesi che i paesi interessati appartengano a un’unione monetaria, il rimedio funziona poco e male, conducendo di fatto a una diminuzione del prodotto nell’area considerata come un tutto. Dal che deduco che siamo stati davvero fortunati, visto che abbiamo avuto l’uno e l’altra. E se non siete contenti, beh: è un problema vostro.
Scherzi a parte, lo studio è molto ben fatto e pieno di informazioni utili a capire l’aria che tira, e sarebbe ben poco rispettoso liquidarlo con una battuta. Perciò armiamoci di pazienza e scorriamolo insieme. Hai visto mai dopo saremo più contenti.
L’ipotesi alla base del modello sviluppato dal Fmi prevede che i salari vengano deflazionati del 2%. Viene fuori che se è vero che la svalutazione salariale aumenta la competitività, è altresì evidente che il processo deflattivo, finendo con l’avere conseguenze sul livello generale dei prezzi, finisce con l’aumentare il valore reale dei debiti.
Per questo serve l’allentamento monetario. Il grafico elaborato dal Fmi mostra con chiarezza che l’effetto depressivo del calo salariale viene compensato dall’allentamento monetario. Le politiche di QE, infatti, secondo i calcoli del Fmi, abbassano di 50 punti basi i tassi a lungo termine, finendo quindi per controbilanciare l’effetto di aumento dei tassi reali provocato dalle politiche salariali deflattive. E se a questo si accoppiano anche le mitiche riforme strutturali, la crescita del prodotto sarebbe di gran lunga superiore rispetto allo scenario base di partenza.
La lezione secondo il Fmi è chiara: “Le politiche monetarie devono tenere conto dell’impatto deflazionario dei salari e della moderazione dei prezzi. La moderazione salariale può aumentare la competitività esterna e l’export netto. E tuttavia al tempo stesso può aggiungere pressioni deflazionarie che implicano più elevati tassi reale”. La qualcosa in economie indebitate come quelle che hanno subito i tagli salariali può essere molto complicato da gestire.
E poi c’è un’altra considerazione. “L’effetto netto della moderazione salariale in un’economia colpita dalla crisi può essere positiva, ma questo effetto diminuisce se tutte le economie in crisi lo fanno nello stesso momento”. In queste circostanze, infatti, può accadere che “il prodotto dell’euro area cada sotto il livello base previsto”. E non serve essere economisti per capire perché.
Ciò spiega perché “il Fmi ha ripetutamente richiesto politiche monetarie accomodative in risposta alla caduta dei salari e alla pressione sui prezzi” e perché al tempo stesso il Fmi, scrivono, non abbia mai supportato sic et simpliciter politiche deflattive per i paesi in crisi dell’eurozona. Salvo partecipare alla Troika.
Dopo aver letto lo studio mi rimangono solo alcune domande. Il QE ci sarebbe stato comunque senza la precedente svalutazione salariale? Se si fosse fatto prima il QE la deflazione salariale sarebbe avvenuta comunque? In sostanza: viene prima il QE o il calo dei salari. Ma poiché tale dilemma somiglia quello dell’uovo e della gallina ci rinuncio.
Fonte: The Walking Debt
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