di Riccardo Achilli
In questi giorni di grande impegno sul lavoro mi sono dedicato a letture retrospettive, una sorta di tuffo indietro in un passato per certi versi solo apparentemente migliore, in realtà per molti versi foriero del declino successivo del nostro Paese. In particolare, ho riletto il documento fondativo dell’Ulivo di Prodi, del marzo del 1995. La lettura di quel documento spiega molto bene il sostanziale fallimento dell’operazione, che ha visto, a mio avviso, la fase terminale nel dicembre 2013, quando Matteo Renzi diventa segretario del Pd e, in nome di una visione politica di occupazione di tutto l’arco sociale sulla base di una piattaforma leaderistica insindacabile, insita nel Partito della Nazione, straccia i residui e logori resti di una idea di pluralismo di culture politiche progressiste che si incontrano e si mescolano, di cui il Pd avrebbe dovuto essere, e non fu mai, la fase finale di aggregazione e “fusione”.
Il documento del 1995 di Prodi, dentro un appello alla salvezza nazionale dal berlusconismo allora appena nato, chiama sostanzialmente ad un rilancio del martelliano compromesso fra bisogno e merito, sul quale il Psi di Craxi tentò, negli anni Ottanta, una operazione di modernizzazione della sinistra italiana, che ebbe, per colpa dello stesso craxismo, un esito infelice. E questo compromesso viene innestato su una base chiaramente liberale e filoeuropeista. Erano gli anni Novanta, anni in cui un Paese, uscito dalla Prima Repubblica e dalla caduta dei muri, aveva in un certo verso portato a maturazione i semi del riflusso individualistico degli anni Ottanta, e chiedeva alla politica soltanto praterie da percorrere senza lacci e lacciuoli, vedendo ancora nell’Europa non la fonte di un inevitabile declino da carenza di competitività relativa dell’Itali rispetto agli altri partner, come sarebbe stato alla prima crisi economica seria, ma un allargamento degli spazi delle opportunità da cogliere. Rimanendo disposto a concedere, alle ragioni tradizionali della sinistra, solo la costruzione di una rete minima di protezione per chi, nella rincorsa individuale alle opportunità, fosse caduto o rimasto indietro. Qualcosa di profondamente diverso dalle ragioni profonde dell’egualitarismo della sinistra, più vicino, ideologicamente, ad una versione compassionevole dell’individualismo liberale.
Detto documento è inoltre imbevuto, nella retorica antipartitica e anglosassone che percorre il Paese dopo Tangentopoli, di un leaderismo maggioritaristico che pervade, inquinandola, persino la visione del federalismo regionale e della sussidiarietà municipale, vedendo in tale processo non tanto la governance migliore per valorizzare le tante diversità che percorrono l’Italia, e che sono una ricchezza, in termini di creatività, ma semplicemente il modo per costruire leaderismi “in vitro” sui territori (è la stagione dei Sindaci e del Manifesto di Bonomi) e per esaltare un concetto di civismo territoriale orizzontale, che trova la sua sintesi nel leader unto dal popolo, da anteporre alla tradizionale analisi di classe della sinistra.
In questo quadro, si lancia l’appello ad un incontro fra le culture politiche socialdemocratiche-laburiste, cristiano-sociali e liberaldemocratiche, al fine di dare corpo propositivo al vecchio slogan di connubio fra merito e bisogno dentro un framework generale di tipo liberale e moderato, con una consapevolezza preoccupata, che infatti sarà esattamente la questione dove, per così dire, verranno al pettine le contraddizioni del progetto: “Questo spazio bisogna costruirlo e costruirlo con saggezza”. Ecco: lo spazio non nascerà mai. Sappiamo bene come sono andate le cose. La fusione non vi è mai stata, le diverse componenti politiche dell’Ulivo hanno dato vita ad una composizione per additività di spezzoni autonomi e non per costruzione di una visione comune, con una continua rissosità interna alla coalizione ed una chiara assenza di direttrici strategiche sulle quali portare il Paese,. Di fatto la fusione delle culture avverrà solamente con Renzi, su una piattaforma ben più liberista del pur chiaro moderatismo con cui era nato il progetto, ma svuotandolo dei suo significato di pluralismo e dialogo culturale interno, sostituendolo con un approccio padronale ed intollerante.
Inoltre, il leaderismo ed ossessione per l’aggancio al centro dello schieramento sociale hanno prodotto uno svuotamento della cultura politica e quindi della capacità propositiva della sinistra, spinto Rifondazione Comunista verso una radicalizzazione inutile e distruttiva, imbarcato, dando loro un ruolo superiore al loro peso elettorale, pezzi della peggiore destra clericale italiana, contribuendo segretamente con il berlusconismo nel costruire una politica senza anima, basata sul supermarket delle micro-proposte per specifici interessi. L’europeismo acritico ci ha consegnati all’inizio di un lungo e progressivo processo di spoliazione della sovranità nazionale, per realizzare un progetto sociale di tipo neoliberista già inscritto in Maastricht, senza peraltro poter salvare il Paese dal declino competitivo inevitabile nella costruzione di un’area monetaria comune fra stati con parametri macroeconomici troppo diversi fra loro e scarsa mobilità del fattore lavoro. Il federalismo della Bassanini, le sussidiarietà dei sindaci e del civismo sono sprofondate in un conflitto istituzionale permanente ed in duplicazioni di funzioni, oltre a generare un caudillismo localistico di sindaci-cacicchi dal quale emergerà la figura di Renzi.
Se l’esperienza è stata fallimentare, non di meno occorre osservare che il nostro è un Paese in cui la sinistra ha la possibilità di incidere soltanto se riesce a trovare un accordo di governo con le componenti politiche che rappresentano il centro cattolico, e la componente piccolo borghese e moderata dell’elettorato, perché, peraltro, questo centro è oggi in un dilemma in termini di rappresentanza, stretto fra astensionismo della disperazione, la proposta grillina che può risultare attraente per il crescente esercito del proletariato cognitivo, e quella renziana che, svanita l’illusione della palingenesi riformista, si rivela nociva per la tenuta socio—economica di quello stesso centro.
Evidentemente, nel fare ciò occorre evitare gli errori del vecchio ulivismo. Il primo errore è stato evitato, nel senso che il documento fondativo del percorso di Sinistra Italiana rifugge dalle tentazioni liberali e “moderatrici” del vecchio Ulivo, riconoscendo che gli effetti sociali della lunga crisi economica, aggravati dai rimedi neoliberisti adottati, hanno prodotto una enorme divaricazione delle diseguaglianze, che polarizza la società italiana, e che quindi la fase va affrontata con la dovuta dose di radicalismo. Identificando gli interlocutori sociali sui quali far convergere la proposta.
Adesso si tratta di evitare gli altri errori. La proposta in grado di unificare le culture politiche cui si guarda, da quella cattolico-sociale, a quella socialdemocratica, richiedono di evitare il procedere per addizioni progressive, come fatto nel vecchio Ulivo. Serve una sintesi reale, un confronto culturale vero, che costruisca la piattaforma di un progetto sentito realmente come comune. E per realizzare ciò, non bastano i pur fondamentali incontri con i territori, dai quali si può estrarre l’umore del Paese reale. Serve un confronto culturale e programmatico approfondito, che si sedimenta dentro una organizzazione politica, attraverso il lavoro continuo dei territori e dei vertici, dei militanti di base e della dirigenza, che sappia usare cum grano salis l’apporto degli intellettuali, sapendolo trasformare in una intellettualità collettiva, anche tramite momenti e strutture di formazione politica, rivolti anche agli elettori, che vent’anni e più di berlusconismo e leaderismo ulivista hanno trasformato in analfabeti della politica. E che sappia sedimentare la cultura politica prodotta, senza disperderla, dentro il suo corpo organizzativo.
E serve un processo collettivo, che almeno inizialmente non sia leaderistico, ma che si basi su una leadership condivisa, anche guardando ad esperienze di altri partiti della sinistra in Europa (penso, ad esempio, al Bloco de Esquerda portoghese). In breve, serve la costruzione, prima organizzativa e poi culturale, di un partito “solido”, che non segua le suggestioni suicide di una liquidità post moderna pericolosa, perché mette in pericolo il vincolo di coesione sociale fondamentale. Va tutto bene, come dice il documento: “strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico”. Tutto buono, però occorre che tali strumenti di partecipazione diretta si innestino dentro un quadro chiaro, dentro una direzione di marcia generale ben precisa, coinvolgente, ben riconoscibile, in grado cioè di indicare un percorso, una indicazione ideale, e non equivoca, di una strada di lungo periodo da percorrere. Dentro questa strada generale il confronto democratico può svolgersi nel modo più libero, la partecipazione dal basso può essere valorizzata al massimo.
Ma vi sono nodi generali che vanno risolti a monte, che vanno indicati rapidamente, e che costituiscono, per l’appunto, le pietre miliari della strada generale da percorrere di cui parlavo poc’anzi. Nodi che non possono essere affrontati in modo estemporaneo, con fughe in avanti, dichiarazioni unilaterali, magari sull’onda della notizia giornalistica, da parte di questo o quel leader. Vanno risolti dentro un modello generale di riferimento, da costruire ex-ante. I nodi generali da risolvere previamente, e che rappresentano le milestone di questo modello generale di riferimento, sono almeno i seguenti: come procedere in Europa, cioè sul piano A e sul piano B, quale posizione tenere rispetto ai temi del lavoro e delle sue tutele, sulle riforme istituzionali, quale legge elettorale si vuole e quale pensiero si sviluppa sul rapporto istituzionale fra Centro e periferia, quale politica economica mettere in campo, fra visione settoriale e programmatica, quale welfare si vuole (e dentro questo quesito si inseriscono ragionamenti sul futuro del lavoro nella rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, così come il tema anagrafico, che incide sulla sanità e le politiche sociali, ed è per molti versi legato al ruolo dei migranti nella nostra società, ed agli strumenti di integrazione e governo dell’immigrazione). E quale politica estera, in una fase in cui siamo stati lanciati dentro una guerra, ed occorre scegliere fra un pacifismo legato a un protagonismo politico attivo, che sappia difendere le nostre società con i dovuti strumenti di sicurezza associati a soluzioni politiche delle tensioni, e proiezione belligerante “sic et simpliciter”, proposta anche da settori della sinistra. Sapendo che in entrambi i casi occorre offrire un piano complessivo che tenga dentro sicurezza interna, tutela dei diritti democratici e di quelli dei migranti, iniziative internazionali e un chiaro quadro di quali alleanze si intendono realizzare nello scacchiere geopolitico.
Ed infine, questo lavoro culturale di indicazione di una strada generale, di un percorso da seguire, di una organizzazione partitica e culturale solida, servirà per evitare l’ulteriore, grande errore, dell’Ulivismo, ovvero il collante fornito esclusivamente dalla comune avversione per la controparte. Ieri era Berlusconi, oggi è Renzi. Non si può costruire una unità sull’anti-qualcosa. Si deve costruire su un progetto. Il che significa che non si può agire per sommatoria progressiva di tutti gli antirenziani, ma per amalgama ed adesione su un progetto.
Solo così si avrà una sinistra protagonista dentro un progetto in grado di attivare un consenso sociale ampio, e quindi una opportunità di governo. diversamente, si rischia di fare una copia del Pd, magari un po’ più progressista.
Fonte: nuovatlantide.org
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