di Emanuele Braga
Quale è il futuro della cultura? Facciamo un gioco, scommettiamo su di una ipotesi. Lo scenario più probabile e strategico è fortemente connesso all’integrazione di due componenti principali: partecipazione democratica e innovazione tecnologica, al fine di inventare nuovi modelli produttivi.
Se fosse così, pongo subito qui la questione fondamentale: il capitale prodotto dalla cooperazione sociale può essere economicamente sostenibile trovando forme nuove di organizzazione? e se si che forma assume questo tipo di produzione? Oppure c’è un rischio originario: creatività, innovazione, partecipazione, cooperazione, nuove tecnologie sono più che altro nuove parole d’ordine per riempire di contenuti vecchi modelli di business plan e per gestire nuove governance di centro destra?
Una decina di anni fa ero convinto che fare arte fosse discutere le condizioni di possibilità della produzione stessa. Erano appena finiti gli anni novanta, e il concetto di creativo aveva appena fatto la sua entrata in società!, troppi vernissage, troppa estetizzazione di temi cool, troppa dimensione social e community based, tutti volevano essere artisti, creativi, troppa mercificazione diffusa del desiderio e delle aspettative. Il mercato del lavoro sembrava essersi trasformato in una agenzia di viaggi, ma l’unico viaggio reale che in effetti avresti mai fatto era quello di andare a comprare il biglietto. Nella storia dell’arte ovviamente tutti gli eventi degni di questo nome sono nati da movimenti di sovversione, perché come ovvio la vita nasce dal desiderio. Ma credo che in questo tempo, il punto non sia più sovvertire la forma o il codice, o di rompere i muri dell’istituzione o uscire dal mercato, di sovvertire forme di repressione politica, o di rivendicare diritti sociali. Negli ultimi vent’anni l’arte da una parte ha messo a tema la crisi della rappresentazione con il post moderno, dall’altra – come diceva bene Virno – si è diluita nella società come una aspirina in un bicchier d’acqua. Questo duplice movimento è ciò che a mio parere ci aiuta a comprendere quale sia lo spirito di questo tempo. Elementi propri della produzione artistica si sono trasformati in forme di organizzazione del capitale. Per questo motivo ciò che l’arte in questo momento deve sovvertire è la forma del valore. A che cosa noi diamo valore e come le le cose acquistano valore. Più o meno consciamente è per questo motivo che anni fa da artisti abbiamo cominciato a domandarci in che modo l’arte era un lavoro e anche in che modo la creatività stava trasformando il resto del mercato del lavoro e dei meccanismi di valorizzazione finanziaria. Abbiamo cominciato a spendere il nostro tempo a discutere di questo, un tempo che allora non era capito. Era una forma di brusio e di stonatura. Chi organizzava mostre fiere e spettacoli, non capiva perché questi artisti si mettessero a parlare di economia, forme deliberative, precarietà, proprietà intellettuale… mettersi in cerchio a discutere in forma assembleare, scrivere comunicati, entrare con un megafono in un museo, azzerare le gerarchie, studiare proprietà non convenzionali di Facebook, prendere parola sul rapporto vita lavoro, non erano forme compatibili con il display di una mostra. E ciò che più stonava era il fatto che queste pratiche non producessero ciò che era ritenuto opera d’arte. Niente di facilmente vendibile o collezionabile. Non lo erano allora. Ma il futuro non è più quello di una volta, ora si muove più veloce, tutto è più accelerato. Discorsi incomprensibili dieci anni fa, vengono fagocitati, diluiti, digeriti, rimasticati, vomitati e defecati nel giro di pochi mesi. Nel giro di pochi anni il panorama si è trasformato come in una timelapse. Grandi Musei, teatri, cinema, le università, gruppi editoriali, le vecchie istituzioni chiudono i battenti o vengono decostruite, smontate, trasformate in ristoranti, co-working, corsi on-line, stage formativi, info sfera controllata da social networks, incubatori, hub, piattaforme di discussione, think tank, le città non vengono più gentrificate da le vecchie famiglie di speculatori mafiosi locali, ma ora si fanno le smart cities o le rigenerazioni urbane e le fanno airbnb, i creativi, uber, apple, google, amazon… A questo serve la cultura, a produrre linguaggio e informazioni per questo tipo di riorganizzazione produttiva. E le nuove parole d’ordine sono partecipazione, co produzione, tecnologia, piattaforme, creatività e innovazione. Il futuro della cultura è integrare partecipazione democratica e innovazione tecnologica per inventare nuovi modelli di produzione. E non lo facciamo noi, ma lo fa il capitale.
Expo ci ha insegnato proprio questo: la vecchia lobby pubblico privata che governa dall’alto la città, lancia un evento di fatto basato su una vecchia idea di lavoro, ma giocando sui temi della partecipazione e delle nuove tecnologie. I contenuti di Expo sono un laboratorio partecipato sul futuro della sostenibilità del pianeta che dovrebbe avere come esito la redazione della carta di Milano. Dal punto di vista lavorativo fa molto parlare la grande chiamata al lavoro volontario, forma di produzione partecipata non pagata, per la prima volta regolata da un accordo sindacale, cosa che crea un cortocircuito simbolico e antropologico sul valore del lavoro sublimato in partecipazione. Dall’altra parte tutta la comunicazione di Expo gioca sul concetto di innovazione tecnologica, sin dal primo momento i primi video pubblicitari puntano tutto su realtà aumentata e dimensione social, tanti gli schermi lungo il decumano in cui il pubblico può ritrarsi in selfie di massa, e per finire anche il post expo sembra portare ad una cittadella delle nuove tecnologie. Alla fine Expo è un grande successo per il fatto che milioni di persone vanno a fare dei selfie mentre stanno per 8 ore in coda.
Come si può leggere dalla ricerca che Macao e la cooperativa Robin Hood hanno condotto in Expo intervistando centinaia di lavoratori, questi giovani sono coscienti che il valore del loro lavoro sta velocemente dissolvendosi ma senza avere alcuna coscienza di quale possa essere una soluzione al problema.
Quando con Macao abbiamo lavorato sulle forme dell’evento è risultato sempre più evidente quanto la finanziarizzazione del capitale si fondasse sul potere di comunicare, organizzare la visibilità. Nel caso del Fuori Salone di Milano la fortuna dell’evento si basa proprio sull’intuizione di mettere al centro il ruolo del pubblico. Il pubblico fa l’evento, ne produce le informazioni sui social network, è la base su cui si basa l’esposizione finanziaria degli sponsor, deve muoversi ed essere visibile nei flussi di attraversamento della città. Il contenuto da mostrare è sempre più nullo, perché il vero contenuto è la forma del pubblico. Il pubblico produce il valore, coincide sempre più col contenuto da mostrare, il pubblico visitatore non da visibilità allo spettacolo, ma cerca lui stesso visibilià, lui stesso è lo spettacolo. Questo è l’evento, e il capitale sa che la sua funzione non è più tanto quella di mostrare un prodotto ma è quella di mappare, co-produrre, partecipare, e in questo processo il tempo del consumo coincide con il tempo della produzione. Chi ci guadagna? Ovviamente non il pubblico, e nemmeno i lavoratori tradizionali. Analizzando i flussi di capitale, questo assetto produttivo è sempre più estrattivo. La ricchezza e il potere editoriale è sempre più concentrata nelle mani di pochi, mentre la chiamata a partecipare per sostenere l’evento è di massa.
IS THIS WORKING?, titolo della ricerca in EXPO2015 di MACAO e Robin Hood Minor Asset Management, pone proprio questa domanda: si può considerare tutto ciò ancora lavoro? e nel doppio significato inglese: tutto ciò sta funzionando? è davvero sostenibile un futuro del lavoro in cui lavoriamo partecipando gratuitamente, ma dove c’è sempre meno redistribuzione di ricchezza? In un futuro in cui le macchine, l’automazione digitale e fisica della produzione sostituisce gran parte del lavoro una volta svolto dagli umani, come sarà possibile mantenere potere di acquisto? Il modo più classico su cui si è basata lo scorso secolo la redistribuzione della ricchezza è il salario, e non a caso è stato il punto più forte su cui hanno insistito nel passato le lotte dei lavoratori e le negoziazioni sindacali. Ma che succede se nel futuro il salario non è più un modello così centrale? Quali modelli di lotta e di negoziazione possiamo immaginare se l’economia dell’evento non basa il suo meccanismo di valorizzazione sul lavoro salariato?
Nella parola evento è centrale il concetto di novità, la promessa di uno scatto in avanti, per catalizzare l’attenzione su qualcosa di nuovo. Ma cosa è il nuovo? è davvero l’improvviso, la manifestazione di un nuovo paradigma? O è un dispositivo retorico per mettere a valore questo spazio di attesa? Anni fa citavo David Foster Wallace che scriveva di questa immagine: la sua sensazione di fronte al post-moderno era di essersi risvegliato in una casa lasciata dai genitori per il weekend, in cui si è fatto di tutto, distruggendo tutto, ma con la sensazione che non fosse servito a nulla. Anzi che questo tipo di emancipazione fine a se stessa fosse proprio funzionale alla messa a valore dell’assenza del divenire genitore, l’assenza dell’atto di creazione. Allora se vogliamo parlare di forma dell’evento dobbiamo capire come oltrepassare la forma del possibile. Quali probabilità abbiamo di non rimanere nel recinto del già visto? Il possible è il visibile, le tendenze che si stratificano, le identità che organizzano la leggibilità, il capitalismo è abilissimo a mettere a valore quello che c’è già, è un grande artista readymade. La strategia del parassita si è evoluta: prima la forma era quella della sovrapproduzione, del consumismo, del produrre merce anche inutile a basso costo per tenere stretta la sua preda/consumatore. Ora il capitale si è attaccato più al cuore e al cervello, riusa, ricicla, coincide con gli organi vitali. È spregiudicato, amorale, parassitario, trasforma continuamente la forma del suo nemico nel suo habitat: come ogni bravo parassita trasforma la necrosi del suo ospite in casa propria (gentrification/postfordismo). Se l’intelligenza collettiva è controllata da questa continua profilazione, automazione e messa a valore capitalista, è chiaro che il problema centrale è il problema del corpo, della soggettivazione e del desiderio. L’evento politico, è il posto del desiderio, del soggetto che si istituisce in qualcosa di impossibile, del corpo collettivo che si trasforma in qualcosa di non previsto. Come parassitare il parassita? come trasformare d’improvviso qualcosa che è percepito come nuovo ma che è già del tutto predisposto? Come riappropriarsi dei propri organi?
È per questo motivo che viviamo in un tempo doppio, l’amico e il nemico hanno lo stesso nome. Cooperazione, partecipazione, tecnologia, moneta, sostenibilità, democrazia, innovazione, ecologia, mobilità, hipster, queer, mostro, algoritmo, macchina astratta, evento… sono i nomi sia di ciò che vogliamo incarnare, sia di ciò da cui vogliamo scappare.
Le forme della lotta devono cercare questo scarto, devono fare la differenza. È del tutto chiaro come le forme classiche di antagonismo siano del tutto figure assorbite all’interno del calcolo mediatico, sono del tutto previste e bocconi succulenti per il parassita. Nel rapporto fra primo maggio ed Expo è del tutto evidente come le tessere della forma dell’evento siano andate a comporsi in modo perfetto, a favore del capitale e della governance del partito della nazione. E ancora una volta il parassita si è arricchito attraverso il controllo della narrazione. Tutto è andato al suo posto, è arrivato il cattivo cui contrapporre quelli che invece partecipano, quelli che sperano nella smart city, quelli che vogliono milano più efficiente, pulita e tecnologica. Ecco fatto. E di colpo abbiamo regalato l’evento all’unica narrazione possibile. Nessuna differenza, anzi il grande consolidamento insperato di una narrazione fino a quel momento un poco traballante. Tutto è andato come previsto.
La sfida è integrare partecipazione democratica e innovazione tecnologia per sperimentare nuovi modelli produttivi. Ma a favore nostro non dal capitale. Per fare questo dobbiamo essere più furbi, dobbiamo sfondare l’immaginario del già visto: non siamo le minoranze, marginalizzate e incattivite, non siamo i negativi che si nutrono solo degli errori degli altri, non siamo quelli della decrescita felice, che credono di poter boicottare facendo di meno, non siamo quelli che odiano i soldi per giustificare il fatto di averne sempre di meno, non siamo tutto questo e le mille cose già viste. Io ho voglia di qualcosa di nuovo, di uno spazio nuovo. L’attacco al cielo del mercato finanziario, come uno spazio da deostruire e ricomporre, la ramificazione decentralizzata del blockchain, le mille esperienze collettive, relazionali che aspettano e praticano forme di organizzazione diversa, le carcasse di queste istituzioni decrepite, da attraversare, smontare e innestare. Agiamo il più possibile prendendo spazio, approfittiamo che il nuovo che pratichiamo non sia capito, parliamo la lingua del vecchio solo per generare tensione, e agire la nostra forza.
Il tempo del desiderio non è un tempo previsto. Il tempo dell’evento è il tempo dell’irriducibilità del corpo. Sentire di percorrere tempi differenti, fermarsi per molto tempo su questioni che non hanno valore, e improvvisamente costruire forza e valore a partire da necessità mai state visibili. Questo tempo definito dalla intensità della relazione, da una affezione desiderante è il tempo politico dell’evento.
Intervento presentato al wokshop di Doc(k)s “La forma dell’evento”, Milano 14 novembre 2015, nell’ambito della preparazione della fiera del libro “Bellissima 2016″
Immagine in apertura: logo del progetto Is this working?, Robin Hood M.A.M.e e MACAO, 2015. Grafica Maddalena Fragnito
Pubblicato anche su Macao Rivista
Fonte: Effimera.org
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