di Piero Schiavazzi
Da centro geografico del continente a centro geopolitico del pianeta. Dal trono di diamanti a quello mediatico, che brilla di più e ingombra di meno. La Cenerentola Centrafricana quarant’anni dopo ha rinnovato il proprio appuntamento con la storia. Inopinatamente quanto insperatamente, se pensiamo alla rapidità con cui Papa Francesco ha deciso in meno di un mese – annunciandolo il 1° e attuandolo il 29 – di anticipare e dislocare a Bangui l’apertura della Porta Santa, trasmettendo una scossa di autostima. Sentimento certificato nel discorso di benvenuto del Presidente ad Interim: “In questo giorno siamo il cuore dell’Africa, l’orgoglio di una regione”.
Jean-Bédel Bokassa avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di ricevere Bergoglio a corte e sentirgli affermare, solennemente, che Bangui era la “capitale spirituale del mondo”. Il sergente delle truppe coloniali e sospetto cannibale, che a metà degli anni Settanta si proclamò imperatore di un paese in miseria - seicentomila chilometri quadri di superficie e seicento dollari di PIL pro capite - imbastendo una pacchiana cerimonia d’incoronazione su scranni dorati e bianchi cavalli normanni, magari avrebbe chiesto al Pontefice, en passant, perché mai la sera del conclave, al momento di assumere il nome, avesse rinunciato al numero dinastico, che fa tanto status.
Vuoi mettere “Bokassa I e Francesco I”, in luogo di un mero e ordinario “Bokassa e Francesco”? Ça va sans dire.
Vuoi mettere “Bokassa I e Francesco I”, in luogo di un mero e ordinario “Bokassa e Francesco”? Ça va sans dire.
Regione sui generis e laboratorio etnico, annotiamo, dove i rapporti si ribaltano e sono le minoranze islamiche a rischiare l’estinzione a opera delle milizie cristiane, fra decimazioni e fosse comuni, a colpi di pala e di machete. Motivo che nonostante le controindicazioni d’intelligence ha indotto Francesco a un gesto audace d’intelligenza e fratellanza. Recandosi di persona nella moschea di Koudoukou, tra i duri e puri del quartiere mussulmano, e offrendosi scudo ai fedeli dell’Islam. Spedendo alla comunità della Umma un messaggio emblematico.
“Aprite le porte della giustizia”: nella guerra dei simboli che un pontefice pacifista e nondimeno pugnace, in guisa di angelo dell’Apocalisse, ha dichiarato ai mostri del nostro tempo ed è attualmente impegnato a combattere su più fronti, dai terrorismi alle mafie, dai fabbricanti d’armi ai signori della Borsa, il Giubileo diventa pertanto un’arma formidabile e una piattaforma mobile.
All’indomani del fatidico venerdì 13 non è salpata soltanto la portaerei De Gaulle e la flotta del Mar Nero, ma pure la barca Pietro. Le prime facendo rotta sul Medio Oriente, la seconda verso l’Equatore. Al pari degli esploratori che risalivano i fiumi africani alla ricerca delle sorgenti, Francesco non si è limitato ad attraversare la geografia, bensì la coscienza di un continente, uscendo dai luogo comune del tribalismo e attingendo a un valore più profondo, sintetizzato nello stemma della nazione: “Zo qwe zo”, che in lingua sango significa “Ogni persona è una persona”.
Dai grandi laghi alle pozzanghere degli slum, dai tramonti vermigli al sangue di martiri antichi e nuovi, fino alla soglia della Porta Santa e della moschea, il Papa è stato protagonista di una moderna epopea televisiva, sfuggendo alle zanzare ma contraendo in compenso il mal d’Africa e lasciando all’orizzonte una scia, e nostalgia, di sequenze indimenticabili.
Di fronte allo splendore di quest’anteprima neorealista, l’evento vaticano dell’8 dicembre sta ormai come il remake hollywoodiano di un film artigianale a basso costo, che ha sbancato tuttavia i botteghini ed è assurto con merito a fenomeno cinematografico della stagione. Regia e produzione stellari non basteranno a bissare la magia e l’emozione dell’originale. Bokassa imperatore stenterebbe a crederci, eppure Bangui ha vinto la gara con la città dei Cesari.
“Passiamo all’altra riva”: dal Tevere all’Ubangi, mutuando lo slogan del viaggio, Francesco ha traghettato l’Anno Santo sull’altra sponda del pianeta. In modo irreversibile, cambiandone per sempre il domicilio e il DNA. La mutazione genetica rimanda indietro addirittura di sette secoli, al paragone con il primo Giubileo del Trecento, indetto da Bonificio VIII, papa temporalista, e perde rispetto ad esso il tratto romano-centrico, ma ne conserva e aggiorna intatto l’intento geopolitico, in uno scenario che rispetto ad allora si presenta esattamente rovesciato.
Dall’alba degli stati nazionali a quella del loro disfacimento. Dal crepuscolo del feudalesimo al suo rigurgito brutale e tribale. Dalla contestazione del primato papale alla sua consacrazione istituzionale. Non era mai accaduto che un presidente, sebbene dimezzato come Catherine Samba -Panza, giurista e “capo di stato della transizione”, si appellasse pubblicamente alla misericordia, eletta d’emblée fattispecie del diritto internazionale. Bonifacio VIII, stratega volitivo e guerriero, sconfitto e sconfessato dagli eventi, riceve l’onore delle armi nel nome, anch’esso medievale, di Francesco, profeta disarmato e vincente, fautore di una tattica opposta.
Mentre il mondo paventa che la guerra venga e visiti la casa del Papa, Bergoglio ha giocato d’anticipo, andando lui a visitare la guerra in casa. Vittoria in trasferta, che inventa e collauda sulle strade da rally del centro d’Africa un prototipo alternativo di Giubileo, meno trionfale ma non meno spettacolare. Dal Medio Evo che fu a quello che viene, barbaro e tecnologico alla stregua di una saga fantasy, registrando il fallimento della modernità e ripartendo alla scoperta delle sorgenti umanistiche. In salita e controcorrente tra le rapide del Millennio.
Fonte: Huffington post
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