La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 28 dicembre 2015

Dove vola l’avvoltoio?

di Joe Vannelli
Durante il tradizionale corteo del primo maggio, a Torino, nel 1958, fu trasmessa dagli altoparlanti una canzone, con la voce roca di Italo Calvino, che aveva anche scritto il testo per l’amico Sergio Liberovici, anima di un davvero indimenticabile Cantacronache. Il ritornello è rimasto nella memoria collettiva, ancora oggi; comincia con una domanda: dove vola l’avvoltoio?
Recentemente l’avvoltoio creato dalla fantasia di Calvino ha deciso di volare su Parigi, in branco, con il progetto di mettere a frutto la paura, trasformarla in denaro e potere. Le moltitudini, sottoposte ad un clima di terrore, cercano quiete affidandosi ai loro tiranni, visti come male minore. Annotava Thomas Hobbes nel 1651: coloro i quali si sottomettono aiutano il nemico con parte della loro fortuna, mentre quelli che si rifiutano lo aiutano con tutta la loro fortuna…io penso che tollerare un odio professato contro la tirannia significa tollerare un odio contro lo stato in generale….senza altro scopo che di porre davanti agli uomini la mutua relazione fra protezione e obbedienza (Leviatano, trad. M. Vinciguerra, Bari, 1912, volume II, pag. 293-295).
La Grand Paris conta una popolazione di ormai 12 milioni di persone, insediate in circa diciassettemila chilometri quadrati; è inoltre la città più visitata del mondo, con oltre 28 milioni di turisti ogni anno che si mescolano quotidianamente ad una folla di lavoratori provenienti da cento paesi.
La Defense è il più esteso quartiere d’affari (centro direzionale) in Europa; ogni giorno transitano nell’area oltre un milione di addetti (di tutte le etnie e di tutte le religioni), soggetti alla condizione precaria e messi a valore dal potere finanziario che vuole impadronirsi della loro esistenza.
Euronext, con sede a Parigi, già nel 2006 era la quinta borsa del mondo. Si è fusa poi nel 2007 con NYSE; e nel dicembre 2012 la società finanziaria americana Intercontinetal Exchange ha acquistato entrambe e gestisce ora la borsa valori parigina (non solo quella ovviamente).
Nel territorio in cui si crea e scambia la moneta si collocano, contemporaneamente, una rete di rapporti sociali chiamata nazione e l’insieme produttivo del cosiddetto villaggio globale; l’apparato di comando è capace di usare i confini e al tempo stesso di travolgerli, secondo le esigenze del momento. Questa è la scena del crimine.
Nel novembre 2010 il primo numero dei Quaderni di San Precario si apriva dando il benvenuto a tutti i lettori in una giungla della precarietà dove vige un’unica legge, il profitto. Il terrorismo che l’avvoltoio ha portato a Parigi è concepito proprio per questo luogo che esige (scrivevamo) mille espedienti per sopravviverci. Ecco perché lo percepiamo, immediatamente, come eseguito con lo scopo preciso di piegare la resistenza caparbia all’esproprio dell’esistenza; per questo viene gabellato invece come un attacco (guerra) ai diritti e alla libertà dei cittadini, da parte di un nemico misterioso, esotico e barbaro, venuto da oriente per imporre una religione oppressiva con la forza del delitto. La propaganda, come aveva teorizzato Joseph Goebbels, è in grado di determinare i comportamenti mediante la continua ripetizione di notizie o parziali o palesemente false, pianificate e controllate dal governo. Le elaborazioni successive dell’americano Burrhus Skinner (Science and Human Behaviour, New York, 1953) hanno consentito di elaborare una vera scienza della manipolazione, con la gestione di due classi di stimoli, quelli antecedenti (trasmessi allo scopo di promuovere un comportamento) e quelli conseguenti (ovvero quelli rilevabili dopo che il comportamento pianificato viene posto in essere dai soggetti destinatari del trattamento). Il terrorista (suggeriscono i giornalisti di palazzo, con notizie false o parziali) è il frutto dell’immigrazione e, forse (forse: sul punto i propagandisti sono disponibili a tutte le versioni, si tratta di valutare il conto in banca del meticcio), conseguenza del meticciato. Si fonda comunque sul fanatismo religioso, punta a sterminare la popolazione; l’unica salvezza sta dunque nelle istituzioni, cui ci si deve affidare, accettando limitazioni e ingerenze di polizia (meglio se legittimate con idonei decreti da un governo di sinistra).
Con un calcolo per eccesso possiamo valutare in un migliaio gli aspiranti suicidi, reclutati o reclutabili, pronti a morire nell’attacco alle città europee; i servizi segreti potrebbero essere più precisi posto che provvedono a quotidiano monitoraggio e dispongono di mezzi tali da poter osservare a distanza perfino le finestre di un appartamento al sesto piano.
Dunque la minaccia di distruggere la vita delle metropoli appare davvero al di fuori delle possibilità concrete di qualsiasi squadra armata islamica, almeno per chi voglia riflettere secondo il cinismo dei numeri (e a maggior ragione laddove si consideri l’effettiva portata delle forze in campo). Eppure tutti noi siamo perfettamente consapevoli del fatto che in quel 13 novembre qualche cosa è cambiato, che si è trattato di un evento che ci obbliga a misurare la nostra capacità di comprendere e di rispondere. Scriveva Hegel: poiché la vita è tanto essenziale quanto la libertà, la lotta termina dapprima come negazione unilaterale con l’ineguaglianza: che cioè l’uno dei combattenti preferisce la vita, si mantiene come singola autocoscienza, ma abbandona la sua pretesa al riconoscimento; l’altro però tien fermo alla sua relazione verso sé stesso e vien riconosciuto dal primo come da un sottoposto. Questa è la relazione della signoria e della servitù (Hegel, Enciclopedia, Bari, 1907, pag. 383, trad. B. Croce). E qui, a ben considerare, sta il nocciolo della questione: l’uso del terrorismo (dell’avvoltoio) per accelerare il processo di estrazione di valore dall’intera esistenza, e per costruire, a tal fine, sottomissione, comando. Nella società della condizione precaria e del capitalismo finanziario l’opzione autoritaria si presenta come l’unica possibile, esige la forma della signoria: senza controllo non si ottiene neppure profitto.
Bisogna accantonare dunque il surreale contrasto fra chi si affanna a spiegare le ragioni (storiche, etniche, religiose) dei terroristi (senza tuttavia mettere mai in discussione che si tratti di un attacco al nostro occidente, dunque accettando una lettura degli eventi completamente subalterna alla strategia del potere finanziario) e chi straparla invece di uno scontro fra civiltà e barbarie (i menestrelli che sognano oggi la guerra contro l’Islam stanno ai rumorosi artisti del mitico futurismo come l’imperatore Napoleone terzo stava al primo, nel celebre opuscolo di Victor Hugo). Sono i governi occidentali quelli che vendono le armi, addestrano le milizie, animano il mercato del petrolio, attizzano il fuoco.
I santuari del potere finanziario hanno promosso, con mezzi divise istruttori, le strane legioni in cui si articola la moderna strategia del terrore (parafrasando Marx, la paura come potenza economica: Capitale, I, III, 24); ora provvedono a trarne beneficio, trasformano il sangue in denaro. A differenza del passato la moneta si è fatta virtuale, astratta; si è smaterializzata, proprio come le merci che nel cuore del sistema caratterizzano i ritmi della ricchezza. Hobbes, nella sua formulazione dei principi dell’assolutismo, lo aveva intuito: quel conio che non ha valore per la materia, ma solo per l’impronta del paese di emissione, non potendo sopportare cambiamento d’aria, ha valore solamente in patria, dove anche è soggetto ai mutamenti delle leggi, e perciò diminuisce di valore,a pregiudizio, molte volte, di quelli che ne posseggono (Leviatano, opera citata, pagina 207).
La moneta smaterializzata è strumento di sottomissione. Nel villaggio globale vigono regole diverse da quelle che sono imposte ai sudditi del singolo territorio (stato, nazione, chiamatelo come più vi piace); le variazioni delle monete nazionali (o territoriali, come lo stesso euro) sono decise da strutture che nessuno ha mai nominato od eletto e che in gran parte sono perfino sconosciute, irraggiungibili. Ed ogni variazione incide, nell’immediatezza, con estrema violenza, sul rapporto fra vita lavorativa e debito; la moneta è non solo il sangue dello stato, è lo strumento di governo e per questo viene elevata al rango di pilastro della fede nelle istituzioni, una religione moderna che non tollera alcuno scisma. La moneta è lo stemma del nostro avvoltoio, il suo emblema; chi si oppone deve essere semplicemente cancellato, altri o diversi valori non sono consentiti.
Il ministro Poletti, l’avvoltoio e la situazione italiana.
Quando ancora non si era trasformato nella caricatura di se stesso Mario Tronti (siamo nel gennaio 1964) scriveva: L’equilibrio del potere sembra solido; il rapporto delle forze è sfavorevole. Eppure, là dove più potente è il dominio del capitale, più profonda si insinua la minaccia operaia. Oggi ci troviamo di fronte ad una nuova retta (fra Barcellona e Parigi) che presenta una quantità infinita di curve, tutte misteriose e ancora invisibili: a volte sembrano passare da Atene, altre volte dalla Val di Susa, con una vecchia talpa al seguito intenta a scavare. Noi abbiamo, pur nell’ambito di un quadro ben poco confortante, la precisa sensazione che conviva nel potere un insieme di forza e di fragilità. L’opzione autoritaria, dentro il meccanismo di generalizzazione ormai consumata del precariato, crea certamente disagio e alienazione, ma al tempo stesso vanifica qualsiasi possibilità di mediazione. La forbice fra ricchezza e povertà si allarga di giorno in giorno, con un costante abbassamento complessivo dei livelli di benessere in precedenza conquistati, mentre si scorgono vistose crepe nell’affresco della speranza in condizioni migliori. Si rovescia oggi uno schema antico, ed è questa, a modo suo, una piccola rivoluzione di costume.
Nel secolo scorso l’attuazione delle riforme aveva lo scopo di disinnescare il processo rivoluzionario; il capitalismo nazionale della manifattura concedeva qualche cosa per evitare di dover rinunziare a tutto. Il riformismo si contrapponeva dunque ad ogni forma organizzata di radicalismo eversivo, politicamente ed ideologicamente. Oggi l’opzione autoritaria, concepita come necessaria all’esercizio del comando e senza alternative, comporta la sepoltura della vecchia socialdemocrazia storica, divenuta anch’essa nelle sue concrete articolazioni (quali i governi di Renzi e Hollande) un nuovo organismo, caratterizzato nel suo concreto agire dal liberismo selvaggio e da uno stato di polizia. Di conseguenza viene percepito e represso qualsiasi tentativo, per quanto tenue o prudente, di ottenere servizi sociali, o di difendere l’ambiente, di accedere al reddito e di averlo almeno in quota minima garantito, e perfino di non essere condannati a morire in fabbriche inquinanti. Ogni rivendicazione ed ogni lotta sociale vengono equiparate al terrorismo; si usa da parte delle istituzioni e della stampa di regime lo stesso termine, sia per l’opposizione delle popolazioni alla linea di alta velocità sia per l’esecuzione a freddo degli spettatori al Bataclan. Tanta arrogante violenza del potere determina, oggettivamente, una coincidenza fra istanze riformiste e aspirazioni sovversive. Nel ventunesimo secolo Mario Tronti si è evoluto in una sorta di Francesco Crispi (pure lui garibaldino in gioventù), mentre l’opzione del dispotismo apre invece la via all’insinuarsi di una minaccia precaria proprio quando il capitale si mostra più forte. E questa speranza deve essere coltivata dai ribelli, con pazienza e con pervicacia, a partire da situazioni specifiche e da sperimentazioni che esaltino cooperazione, solidarietà, comune, nella piena consapevolezza che qualsiasi opposizione viene percepita ormai come rivolta aperta e in quanto tale trattata. Il procedimento di sussunzione, in corso di spietata attuazione, non consente tregua e neppure alcuna forma di dissenso.
Dopo la pubblicazione degli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act il governo Renzi aveva subito riaperto le ostilità; i lavoratori del Colosseo si erano riuniti in assemblea sindacale promossa da USB (riunione già autorizzata e programmata) e contro di loro si è scatenato l’inferno, con il varo di un provvedimento urgente limitativo del diritto ad azioni rivendicative, subito firmato dal presidente Mattarella e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. I dipendenti del Colosseo erano chiamati a prestare lavoro straordinario per supplire ai vuoti d’organico, senza essere stati pagati; per giunta il soprintendente, l’architetto Francesco Prosperetti (percepisce circa duecentomila euro all’anno, lo stipendio complessivo di 120 lavoratori), avvisato per tempo, non ha pensato di organizzare la comunicazione e, diversamente, il servizio. Prosperetti è passato per vittima, chi chiedeva di essere pagato a fronte di un lavoro già fatto è diventato l’aggressore. Non a caso le attività nella capitale era gestite da una comprovata associazione a delinquere e in quel mondo di mezzo i funzionari delle istituzioni si trovavano a loro agio, mentre i precari lavoravano per quattro soldi, costantemente sotto ricatto. Il commensale dei criminali, Poletti, dovrà riferire quel che sa in Tribunale (ma ci sia consentito nutrire qualche dubbio sull’attendibilità).
Il ministro Poletti ha visto l’avvoltoio svolazzare sopra i tetti di Roma e lo ha osservato con attenzione ponderata e con un sorridente compiacimento; era il segnale di prepararsi all’azione.
Pochi giorni dopo la strage di Parigi Poletti ha rilasciato, infatti, una interessante intervista programmatica, aprendo un nuovo fronte che ha per bersaglio esplicito l’orario di lavoro.
Evidentemente l’esecutivo renziano, sollecitato dalla commissione europea, ha valutato che i tempi fossero maturi per un’altra battaglia di rottamazione dei diritti. La provocazione contro il sindacalismo di base e contro i lavoratori del Colosseo non ha sollevato alcuna significativa reazione e le grandi confederazioni si solo limitate a qualche protesta di rito, confermando di essere (dopo mille compromessi e cedimenti) ormai avviati verso un declino inarrestabile, verso la probabile sparizione. L’inizio del Giubileo si è colorito del panico e delle emozioni legate agli eventi del 13 novembre; e con una mossa spregiudicata i neodem renziani hanno commissariato Roma, in un clima di paura, realizzando una amministrazione di polizia ed evitando elezioni che i sondaggi davano quanto meno per incerte. Il sindaco-prefetto Tronca nel 1977 era un commissario di pubblica sicurezza a Varese, dopo essere stato ufficiale della Guardia di Finanza; un gendarme e un militare che oggi, per nomina governativa, si è insediato in municipio e che, insieme al suo collega Franco Gabrielli (già a capo dei servizi segreti nel 2006), provvederà all’ordine pubblico. Affermare che Roma ha un’amministrazione di polizia non è un salace commento critico dell’opposizione, ma la constatazione di una realtà che nessuno può smentire.
La dichiarazione del ministro Poletti in tema di orario non è stata dunque casuale e neppure può essere confinata nell’ambito di una gaffe come ingenuamente ha suggerito Susanna Camusso. Gaffe è un francesismo che qualifica una frase o una parola, detta in modo erroneo o in un contesto sbagliato, comunque in modo involontario. Il ministro Poletti voleva invece, con piena consapevolezza, aprire la discussione circa i provvedimenti già in cantiere, completando l’opera iniziata con il Jobs Act, sotto il segno dell’avvoltoio.
Due sono i nodi sollevati da questo vecchio funzionario stalinista di Imola (fu segretario del PCI nella sua città per sette anni prima di iniziare la marcia fino al vertice dell’Alleanza cooperativa, 140 miliardi di fatturato annuo, mica bruscolini!): riguardano una nuova definizione giuridica della rappresentanza e della legislazione in tema di orario lavorativo. Sottovalutare la questione, come sembrano orientati a fare i dirigenti di tutte le organizzazioni sindacali (confederali e di base) si rivelerà un grave errore. La sottovalutazione è la conseguenza di una acquisita consapevolezza circa la sproporzione dei rapporti di forza attuali, e dunque si tratta di un comportamento simile a quello di uno struzzo (struthio camelus), quando si china con il collo disteso e il corpo appoggiato a terra, cercando di imitare il cespuglio per sfuggire al predatore, e pronto tuttavia alla fuga se questi si avvicina; anche le attuali rappresentanze sindacali, come questi pennuti, hanno dimostrato grande destrezza e velocità nel sottrarsi al pericolo.
Ma non è solo questo. Vi è anche, nella reazione distratta e minimalistica, una profonda incapacità di cogliere appieno la fase politica, di comprendere davvero il ruolo delle componenti istituzionali (non solo dentro il parlamento), di prevedere le mosse avversarie. I dirigenti sindacali contano sulla capacità di contrasto della sinistra socialdemocratica e del mondo cattolico popolare, sperano nella protezione della rete di rapporti creata durante il lungo periodo della cosiddetta concertazione. Non hanno afferrato che i riformisti sono ormai allo sbando, attenti solo a garantirsi la sopravvivenza; e che la pur ancora solida rete di volontariato cristiano sociale non ha alcuna volontà di giocare le proprie carte in difesa di funzionari lontani dalla loro storia e troppo spesso compromessi con il potere. La concertazione era necessaria quando l’opzione delle riforme esigeva una struttura che mantenesse il contatto fra il ceto imprenditoriale manifatturiero e l’operaio massa, smussando il conflitto e aiutando il mantenimento della pace sociale. Non serve più a nulla (ed anzi è spesso dannosa) nell’era del precariato e del dispotismo occidentale; con le nuove moltitudini si usano la repressione e il controllo costante (il panopticon onde sorvegliare e punire), non certo la trattativa e il riformismo.
La rappresentanza.
La nuova forma di rappresentanza sta esclusivamente nelle elezioni, nella comunicazione eterodiretta, nel sondaggio, nei meccanismi di selezione che regolano il passaggio da un gradino all’altro della scala gerarchica. Poiché il lavoro ha perso l’autonomia spazio temporale rispetto al non lavoro anche la rappresentanza deve essere unica, legata all’esistenza complessiva e non certo alla singola attività svolta. I dirigenti confederali non si sono resi conto di avere segato il ramo d’albero su cui stavano seduti; si sono alleati con il capitale per stroncare la concorrenza del sindacalismo di base senza capire che disinnescato quello (l’unico ormai che giustificava la permanenza della mediazione confederale) sarebbe toccato a loro, rimasti senza difesa. Hanno firmato ed imposto gli accordi sulla rappresentanza alle condizioni imposte dai datoriali; si sono divisi firmando intese separate, ognuno pensando di essere l’interlocutore privilegiato. Il governo nazional-democratico ha dapprima tagliato il numero dei delegati in regime di distacco, poi ha ridotto i fondi destinati al sindacato, infine ha d’imperio cancellato la rete di tutele per i rappresentati (pensionati, esodati, dipendenti attivi) utilizzando modifiche della legislazione, dopo una grottesca rappresentazione scenica di una trattativa mai neppure davvero iniziata. E’ così crollato il rapporto di fiducia degli iscritti verso la struttura, è venuto meno l’affidavit. Non a caso, nei giorni scorsi, lo sciopero indetto per il rinnovo del contratto collettivo della grande distribuzione è sostanzialmente fallito, con poche adesioni coperte dall’uso massiccio del precariato; i grandi rivali (Esselunga e Coop) si sono uniti per imporre le loro esigenze ed hanno raggiunto un risultato.
L’obiettivo di questa strategia (mista a tattica) è quello, nei progetti che sono in stato di avanzata stesura, di vietare sostanzialmente ogni sciopero efficace o potenzialmente dannoso, imponendo come necessaria la preventiva approvazione della maggioranza dei lavoratori, secondo procedure macchinose e tali da vanificare in via anticipata l’effetto dell’astensione; con questa dittatura della maggioranza il dissenso viene di fatto incanalato e criminalizzato, secondo il meccanismo di pressione violenta sperimentato a Roma nel caso delle agitazioni al Colosseo. Le premesse teoriche si ritrovano già ora in una recentissima pronunzia della Corte di Cassazione (3 dicembre 2015 n. 24.653) che, annullando una decisione di segno opposto della corte d’appello fiorentina, ha dichiarato l’illegittimità di uno sciopero articolato con il sistema cosiddetto a scacchiera (in quel caso anche individuale) rilevando che un simile sistema di agitazione non lasciava all’impresa destinataria adeguate possibilità di contrasto (la tesi imprenditoriale accolta è il frutto di una elaborazione giuridica di un abile difensore, il senatore Pietro Ichino, che è anche promotore di un progetto relativo appunto alla disciplina dello sciopero e della rappresentanza, sostenuto dalle larghe intese di cui è autorevole esponente).
La riforma della rappresentanza procede di pari passo con quella dell’orario lavorativo, inteso quale misura del pagamento. Il ministro Poletti ritiene che un tale riferimento sia incompatibile con l’attuale organizzazione del lavoro ed ha con notevole disinvoltura sostenuto la necessità di superare i limiti costituzionali adeguando il sistema dei compensi alla condizione precaria che caratterizza l’intera struttura produttiva. L’articolo 36 della Carta (che secondo giurisprudenza consolidata ha una natura precettiva e non soltanto genericamente programmatica) sancisce un diritto (immediato, valido) a percepire una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità di lavoro erogata, con due principi cardine: il limite di una durata massima e il riposo settimanale (il terzo comma dell’art. 36 fa divieto di rinunzia al diritto). L’articolo 36 ha introdotto inoltre il concetto di un salario tale da assicurare esistenza libera e dignitosa; l’articolo 38 impone infine di garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita per vecchi, malati, invalidi, disoccupati. L’architettura di questi diritti costituzionali presuppone dunque un limite orario della prestazione e insieme un compenso che, lasciando l’alea all’impresa, consenta comunque di vivere, in qualche modo svincolandosi dal risultato. Poiché alea e misura del profitto sono per loro natura elementi ambigui (o almeno di dubbia oggettività) il nostro Poletti ha preso di mira l’orario, proponendo per via legislativa di rimuovere qualsiasi ostacolo. Questo significa, di fatto, annunciare l’intenzione di scardinare l’ultimo baluardo e scassinare le fondamenta del titolo terzo della costituzione del 1948, questa volta senza dibattito parlamentare.
Alla giornata lavorativa tradizionale viene contrapposta la prestazione intermittente, su chiamata e la retribuzione sganciata dal tempo e ricondotta invece (non al risultato ma) al profitto. Senza orario lavorativo prefissato cadono anche il riposo e la contrattazione dei ritmi di esecuzione; la riforma che viene predisposta si lega come avevamo anticipato all’esproprio dell’intera esistenza. Viene concepita una sorveglianza continua (quasi una nemesi della antica lotta continua) che invade, senza ferie e riposi, la vita complessiva dei soggetti messi a valore; la convocazione in attività non è più la maledizione biblica, è diventato invece un premio, riservato a chi accetta il comando (Genesi, 3, 17: tra le fatiche ne ricaverai il nutrimento in tutti i giorni della tua vita). Non siamo ancora al lavoro gratuito (questo ha in verità fatto capolino durante Expo), ma la strada pare aperta. Caduta la frontiera fra tempo libero e tempo destinato al profitto il riferimento introdotto dall’ideologia autoritaria delle larghe intese non può che essere l’utile che dalla vita altrui possono ricavare le banche, i governi, le polizie, le imprese del capitalismo finanziario. Nell’era dei prodotti immateriali quale altro risultato del lavoro (in assenza di singoli manufatti autonomamente rilevanti) è possibile concepire (in sostituzione del parametro temporale) se non quello (astratto e politico) di una rappresentazione del denaro? Questo è il messaggio trasmesso dal ministro Poletti; e il mondo che quest’uomo ha in mente è fatto di comando, di sottomissione.
Ecco la ragione per cui viene amplificata ogni singola azione terroristica, esaltando la forza del barbaro nemico della civiltà occidentale: la paura, il desiderio della difesa. La legislazione speciale viene varata per difendere il suddito e al tempo stesso si crea un effetto sinergico che rafforza il potere, accelerando il processo di precarizzazione e consentendo il successo dell’opzione autoritaria. Esiste un nesso indissolubile fra terrorismo e nuova legislazione del lavoro; ed è un nesso costruito lucidamente dal potere. E’ un legame con nodi difficili da sciogliere, in corteccia di corniolo; ma, come è noto anche i nodi gordiani possono essere recisi con un colpo di spada, risolvendo in questa maniera anche i casi più intricati. Questo è il compito storico dei precari, almeno dal punto di vista precario. L’avvoltoio intanto ci vola sopra, con la consueta rapacità.

Fonte: Effimera 

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