La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 6 dicembre 2015

Il vento di Olivetti

di Lelio Demichelis
Comunità. Parola ambigua e concetto assai scivoloso. La comunità è infatti spesso confusa con società (ma sono cose diverse) ed è solitamente pensata, ma anche vissuta, come un’entità olistica e monistica. Idealizzata frequentemente con popolo,terra e sangue, l’idea di comunità ha molte affinità con la teologia cattolica (il gregge come forma di comunità, la comunità dei fedeli), facilmente si veste di sacralità e di assolutezza (Dio, patria e famiglia), certo è qualcosa che tende a trascendere l’individuo annegandolo in un insieme organico e biologico-naturale, nell’unocomunitario che scioglie ogni diversità evitando (e proteggendo da) ogni alterazione dell’ordine. Comunità come rifugio dalla paura, comunità che alza muri per realizzare la comunità degli eguali, comunità come rivendicazione utilitaristica dell’egoismo (padroni a casa nostra). Comunità; e comunitarismo come ideologia.
E Ferdinand Tönnies: che distingueva tra comunità (Gemeinschaft) intesa come prodotto appunto di una volontà organica basata su valori condivisi quanto inconsapevoli (dalla famiglia al rispetto per l’autorità) e società (Gesellschaft), che invece sarebbe l’effetto di una razionalizzazione dello stare insieme degli uomini basata su leggi e contratti. E Max Weber: che distingueva tra accomunamento eassociazione, per cui comunità è quando l’agire sociale si fonda su un comune senso di appartenenza fortemente coinvolgente, mentre si ha società quando questo senso è razionalmente motivato da una identità di interessi.
E ancora: la famiglia come comunità; ma anche l’impresa come comunità di lavoro, trasformando il lavorare in collaborare con e per l’impresa, sciogliendo in essa ogni soggettività; ieri il paternalismo imprenditoriale e i villaggi (comunità) aziendali, oggi le palestre aziendali e il condividere la mission dell’impresa. E ancora: comunità di brand, di media e di social network. Mai l’idea di comunità è stata tanto propagandata come oggi, mai è stata tanto falsa come oggi. Mentre la società muore, crescono illusioni funzionali di comunità spesso prodotte dagli stessi soggetti (mercato, tecnica) che producono de-socializzazione.
E poi e invece: la Comunità di Adriano Olivetti. E dunque – prima di andare alla rilettura olivettiana fatta da Marco Revelli, Aldo Bonomi e Alberto Magnaghi nel loroIl vento di Adriano – risaliamo alla fonte: a quel libro di Olivetti di settant’anni fa che è L’ordine politico delle Comunità, meritoriamente ristampato lo scorso anno dalle rinate Edizioni di Comunità per la cura pregevole di Davide Cadeddu. Comunità, anzi e meglio, comunità concreta. Un’idea di Olivetti per una nuova società «essenzialmente socialista, ma che non dovrà mai ignorare i due fondamenti della società che l’ha preceduta: democrazia politica e libertà individuale», costruendosi tuttavia (e soprattutto) sul concetto di persona (i referenti sono Maritain e Mounier, ma non solo), diverso da quello di individuo. Per creare «un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che svolgono la loro vita sociale ed economica in un conveniente spazio geografico determinato dalla natura o dalla storia». Una comunità volta a «sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato di una determinata zona ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà. Le Comunità – creando un superiore interesse concreto – tendono a comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini».
Che la società fosse in crisi già allora era ben evidente a Olivetti, industriale umanista e imprenditore intellettuale, che elencava tra le cause di tale crisi («e di turbamento dell’ordine sociale»), la dissociazione tra etica e cultura e tra cultura e tecnica, il conflitto tra stato e individuo, la mancanza di educazione politica e di una adeguata classe dirigente, l’obsolescenza dell’amministrazione statale, il disconoscimento dei diritti dell’uomo, la mancanza di strutture giuridiche per proteggere la personacontro il potere diretto e indiretto del denaro.
Una Comunità – quella olivettiana – come rimedio a questa crisi e da far coincidere territorialmente con il circondario, la diocesi, il distretto o il collegio elettorale, ma a cui potranno essere poi apportate correzioni atte «a creare unità che abbiano nella natura il loro fondamento e nell’uomo i loro limiti». Comunità per sanare i difetti delle grandi città, «ormai impotenti a conferire un’armonia di vita, un tempo spontanea ai loro abitanti», per cui anche le città dovranno essere trasformate e umanizzate (perfezionate) e grande è il compito che spetta all’urbanistica (vera passione di Olivetti). Di più: «determinate imprese private saranno progressivamente trasformate in enti di diritto pubblico e prenderanno il nome di Industrie sociali autonome o Associazioni agricole autonome». La Comunità dovrà inoltre possedere una parte del capitale azionario delle grandi e medie fabbriche, nominando alcuni dirigenti principali, si dovrà occupare di formazione e di promuovere lo sviluppo dell’artigianato e del turismo, favorendo la partecipazione diretta dei lavoratori «al governo della Comunità». Perché «l’influenza della Comunità su industria e agricoltura è di natura sia sociale che economica» e «la rappresentanza politica si trasforma per se stessa in rappresentanza economica». Perché «la legge superiore della Comunità è l’Evangelo […] e quindi ogni atto della Comunità deve informarsi, in caso di dubbio, a tale legge morale superiore». E perché – ancora – solo «la Comunità, il suo regime politico pluralista, l’organizzazione federativa dell’economia, ridaranno al cittadino una libertà più vera e più alta che non quella assicurata dal regime dei privilegi e delle libertà nominali […] in modo da facilitare concretamente l’affermarsi di sentimenti di solidarietà umana, mentre la società attuale tende piuttosto a frenarli e ad alimentare l’istinto di sopraffazione e di egoismo. […] Solo a queste condizioni una società pluralista e libera è creatrice di un’autentica civiltà, elimina il disordine, le sperequazioni, la rottura tra il sociale e l’economico, tra il bello e l’utile, tra il giusto e l’umano».
Questa era, in sintesi, la Comunità secondo Olivetti. Ma quanto ne rimane oggi e quanto è possibile resuscitarla nella nuova (vecchia) economia di oggi? Non siamo particolarmente ottimisti. Sotto le nuove tecnologie, sotto le retoriche di un nuovofare condiviso e social, vediamo la permanenza del vecchio e mai morto fordismo e anche le nuove imprese e il nuovo lavoro sono comunque slegati – perché crescono i processi di individualizzazione e di astrazione dal reale – dal territorio, e sono quindiir-responsabili verso il territorio. Oggi, piuttosto, la comunità è prevalentemente etnico-egoistica-economicistica; lo stato è in via di privatizzazione-aziendalizzazione; la società (e la comunità) si sta confondendo (nel segno dell’ordoliberalismo e del neoliberismo) sempre più con il mercato o con la rete; l’homo œconomicus ha schiacciato l’homo sapiens; l’urbanistica (quella di Olivetti e quello che ne resta) è un fastidio per il mercato, quindi da eliminare; l’unica innovazione ammessa è quella tecnologica, ma le imprese esternalizzano anche la ricerca (altra differenza fondamentale da Olivetti) affidandola a makers supersfruttati e che non ci sembrano essere il general intellect marxiano ma il nuovo proletariato della conoscenza; la politica (a tutti i livelli) si fa ancella del mercato, lasciandosi da esso governare invece di governarlo, e in più cancellando deliberatamente ogni corpo intermedio e ogni società civile; la frantumazione del lavoro si è fatta esponenziale ma promossa per auto-imprenditorialità, per capitalismo personale o free-lance (fordismo individualizzato); esplode il taylorismo digitale e dilaga l’uberizzazione del lavoro e le uniche comunità/community promosse e sostenute dal sistema sono quelle (funzionali al sistema) di rete, di brand o di lavoro, dove si produce l’unica (falsa) soggettivazione ammessa.
Revelli, Bonomi e Magnaghi cercano Olivetti anche nell’oggi, magari nascosto tra le pieghe di una realtà sicuramente composita e spesso invisibile. Lo fanno in forme diverse. Quasi neo-utopistiche, Magnaghi. Riflessive sul passato, Revelli, che rilegge il modello industriale di Olivetti come un fordismo dolce, o soft o smart «contrapposto a quello hard, duro, militaresco (burocratico-militare), standardizzato e standardizzante, culturalmente inerte e socialmente irresponsabile che prevaleva a Torino» (leggi Fiat). Un modello olivettiano che si distingueva, secondo Revelli, per tre aspetti: le politiche del lavoro e il rapporto coi dipendenti (considerata appunto una comunità di persone); la relazione tra cultura industriale e cultura senza aggettivi; e il rapporto fabbrica-territorio (da impresa responsabile, scriveva Luciano Gallino). E quindi l’idea di Comunità come forma radicalmente altra di partecipazione dal basso, volta a mettere insieme e a far stare in-comune non gliomogenei ma gli eterogenei, «i molteplici e le molteplicità […], in una concezione più da organismo che da meccanismo». Cercando (ancora Revelli) l’armonia come valore, «in una visione combinatoria che portava Olivetti al tentativo di conciliare – o di ri-articolare – tutti gli opposti: Produzione e Cultura, certo. Arte e Industria. Ma anche – e soprattutto – lavoro e vita. E poi, fabbrica e Territorio. Lavoro e Ambiente». Aintegrarli, diceva Olivetti – ma questo è anche concetto secondo noi pericoloso per i rischi di annullamento delle molteplicità che oggettivamente comporta: l’integrazione essendo diversa dall’interazione e l’armonia non essendo sempre un valore ma anche un disvalore se produce omologazione).
Ma allora: Olivetti è ancora attuale/attualizzabile? Sì, forse. Secondo Revelli, nell’idea – giustissima – di una fabbrica/impresa re-incorporata nel sociale, ri-embedded. Perché l’esigenza di incorporazione «dell’economia (ma anche della Tecnica) nel Sociale era fortemente presente nella visione olivettiana. Era quella che spingeva Adriano Olivetti a definire addirittura l’impresa come un bene comune e a invocare un di più di Politica (nel senso di mano pubblica). Oggi che l’economico si mostra nella forma più distruttiva del sociale (e del vitale: del bios) nella sua piena metamorfosi dell’astrattezza della forma denaro […] si può immaginare l’attualissima inattualità di un tale approccio». Come nell’idea che le democrazie odierne possano essere salvate solo dall’azione dei corpi intermedi, di quelle che Bonomi definisce le «società di mezzo», dove ri-aggregare e condensare le persone, per cercare di contrastare i processi di individualizzazione e di atomizzazione, «fattisi oggi sempre più devastanti».
Un antidoto necessario, la comunità territoriale – scrive Revelli. Ma sufficiente? Anche Olivetti secondo noi sbagliava quando scriveva che «la crisi della società contemporanea non nasce dalla macchina, ma dal persistere di strutture politiche inadeguate»; perché sono invece proprio le macchine (la tecnica e il capitalismo e le loro forme tecniche e capitalistiche che diventano sempre più forme sociali – ocomunitarie) a rendere inadeguate (se non inutili) le forme e le strutture della politica e della democrazia.
Da Revelli a Bonomi. Un contributo al volume lungo e denso, ricchissimo di spunti. Ne richiamiamo alcuni. Il primo è l’obiettivo di ricostruire – in un sistema ormai post-democratico – «trama sociale, fare società dentro la transizione, ricostruire i tessuti connettivi tra società e politica». L’idea olivettiana di comunità e di impresa responsabile verso il territorio si scontra infatti, oggi, con il capovolgimento del rapporto, per cui il territorio è per l’impresa solo un bacino di risorse utili da cui estrarre valore e competenze. Può allora la comunità mediare tra le dinamiche della globalizzazione e i sistemi locali? Possono farlo (pur utilissime e necessarie) le nuove comunità delle smart cities o della smart land? Di più: come declinare la comunità, che presuppone tempi lungi con i tempi attuali fatti di istantaneità, velocità e simultaneità? Ma soprattutto – è ancora il nostro dubbio – davvero oggi esistono forme di soft economy composte da makers, fab lab, imprese sociali, community e co-working da intendere come il proseguimento di antiche forme di comunità e di prossimità, capaci di coagulare «gruppi sociali e frammenti di società futura» e una nuova comunità concreta?
Bonomi è ottimista. A noi, la soft economy, la sharing economy, i makers, il modelloUber/Amazon sembrano soprattutto una forma nuova del vecchio fordismo, uscito dalle grandi fabbriche, diffusosi prima sul territorio e che sta oggi incorporando biopoliticamente ogni individuo (o persona): non più individuo (e non più persona) ma puro (s)oggetto economico, puro capitale umano o pura merce. Con una alienazione (nel senso di Marx) sempre presente, semmai accresciuta ma ben mascherata dallo storytelling affascinante e coinvolgente dell’innovazione tecnologica, dell’essere boss di se stessi. Olivetti sembra sempre più inattuale.
Eppure, oltre a esercitare un doveroso pessimismo della ragione, vogliamo praticare con ostinazione anche l’ottimismo della volontà. E allora l’augurio è che abbiano ragione, Bonomi e Magnaghi; e torto noi.

Fonte: Alfabeta2

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