di Giovanni Di Benedetto
Ciò che più colpisce chi si accosta al lavoro intellettuale di Charles Bettelheim è il suo disincanto precoce, risalente agli anni ’30 del Novecento, sulla natura politica e sociale del mondo dell’Unione Sovietica, senza che tale punto di vista critico lo abbia mai costretto a rinunciare alle sue idee marxiste e comuniste. In ragione di questa considerazione si capisce perché l’obiettivo di Bettelheim fosse quello di non dimenticare lo scarto che separava la teoria di Marx e Engels dalla realtà del socialismo. Peraltro, questo presupposto metodologico vale a maggior ragione per chi vive nel tempo presente e sconta gli effetti di vera e propria restaurazione della stagione che si è aperta dopo il biennio 1989-91, in un contesto storico molto differente da quello in cui compaiono i lavori teorici più importanti del fondatore, alla Sorbona, del Centre pour l'Étude des Modes d'Industrialisation.
Bettelheim, nel suo lavoro di intellettuale marxista, consulente economico a Cuba, in Algeria, in Egitto e in India, docente universitario irregolare, prende le mosse dalla necessità di mettere in discussione il paradigma dell’economia capitalistica secondo cui solo un mercato autoregolato avrebbe inscritto nel proprio destino uno sviluppo privo di crisi e deragliamenti. Contro Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, e rifacendosi alle argomentazioni di Engels secondo il quale la produzione immediatamente sociale esclude la trasformazione dei prodotti in merci e quindi, in assenza di scambio, in valori, l’economista francese ribadisce la necessità di organizzare la produzione in base ad un piano che tenga conto dell’utilità degli oggetti in uso, considerati in rapporto alla quantità di lavoro necessario alla loro produzione. Il che significa che la pianificazione degli investimenti non deve essere sottomessa a un criterio di redditività monetaria ma a un criterio di efficacia sociale e, quindi, politica. Da qui la differenza tra modo di produzione capitalistico, nel quale valore e prezzi sono finalizzati all’appropriazione di plusvalore, e modo di produzione socialista fondato sulla legge di regolazione sociale dell’economia e implicante il controllo crescente dei produttori immediati sulla produzione in funzione dei loro bisogni presenti e futuri.
E tuttavia, la storia aveva dimostrato, era questa la convinzione di Bettelheim, che nella pianificazione socialista, in particolar modo in URSS, realtà che lo studioso conosceva particolarmente bene per averci vissuto e lavorato in condizioni di insolita libertà ed autonomia, l’adozione del calcolo economico, pur considerando priorità di carattere politico e sociale di altra natura, ricadeva nella categoria di mercato del valore. Quindi, nei paesi del socialismo reale si riproduceva una sorta di dualismo dei calcoli economici che finiva per privilegiare il calcolo monetario rispetto alle esigenze di un più cogente calcolo economico sociale, una valutazione, quest’ultima, finalizzata a istanze di utilità sociale e di soddisfazione di bisogni individuali e collettivi.
In questa rivendicazione del bisogno di formalizzare lo statuto del calcolo economico sociale, ossia nell’esigenza di elaborare uno spazio teorico differente da quello che utilizza le categorie di mercato, risiede, a mio avviso, il grande merito di Bettelheim. È l’idea, attualissima, che nasce dall’urgenza di elaborare una valutazione del vivere collettivo che non si riduca a mero calcolo quantitativo e monetario. Insomma, viene da chiedersi, come può essere misurata l’utilità sociale? Possono essere sufficienti criteri quantitativi? O, invece, solo un orizzonte teorico che utilizzi categorie differenti può permettere di utilizzare criteri di “misurazione” che sappiano rendere giustizia delle quantità di lavoro socialmente necessarie alla produzione e anche degli effetti sociali utili per i diversi soggetti. Quando scrive di come “la misura risulti sempre da un processo di astrazione che elimina totalmente e in partenza le qualità” l’autore di Calcolo economico e forme di proprietà sembra suggerire la necessità di un tentativo di revisione epistemologica dei fondamenti dell’economia politica classica. È vero, tuttavia, che Bettelheim non sembra seguire fino alle più estreme conseguenze la sua stessa istanza di partenza, ricadendo, infine, nella utilizzazione di una misurazione che non è in grado di liberarsi di una pratica che fa astrazione della qualità. Ed in effetti in Bettelheim la pretesa legittima di definire il calcolo economico come calcolo economico sociale che facesse tesoro di priorità differenti da quelle del valore si scontrava con l’ancoraggio ed il richiamo ad un’idea di oggettività che finiva, però, per essere una grandezza interna agli stessi rapporti di produzione capitalistici. Viceversa, gli era ben chiaro come tale grandezza fosse un effetto ideologico dietro al quale si nascondono dinamiche di potere e di sfruttamento funzionali al processo di valorizzazione. Resta il fatto che l’esigenza analitica manifestata dallo studioso francese rimane uno dei più importanti problemi che deve affrontare chi si pone il problema di un ripensamento generale degli attuali rapporti di produzione nell’ambito del mondo capitalistico.
Ma cos’era il socialismo reale? Bettelheim invita a ragionare sul fatto che non è sufficiente volgere lo sguardo alla questione della pianificazione economica ma occorre anche concentrare l’attenzione sull’insieme dei rapporti politici, sociali e ideologici di una formazione sociale. Da qui, per chi scrive, la necessità quanto mai attuale nel tempo della crisi sistemica scaturita nel 2007 dalla scandalosa gestione dei mutui subprime, di tornare, da un lato, a studiare la storia dell’URSS e, dall’altro, di tenere presente che la storia del comunismo non si può ridurre alla narrazione delle vicende del bolscevismo né, tanto meno, della burocrazia e dei gruppi dirigenti sovietici. Il comunismo non è stato partorito da personalità eccezionali, anche se queste indubbiamente non mancarono, ma è stato una grande elaborazione collettiva, che ha dato vita a una storia esaltante e tragica al tempo stesso. Il protagonista di questa esperienza capitale è stato il movimento operaio le cui istanze sociali e politiche si voleva che costituissero i germi di una nuova civiltà.
E non è tutto: veniamo al tema centrale rappresentato dalla difficoltà di realizzare, all’interno del mercato mondiale, un sistema di rapporti di produzione socialisti. La presenza delle categorie di mercato nell’ambito delle formazioni sociali di transizione (socialismo reale) rimanda, infatti, al problema dell’esistenza delle condizioni oggettive che determinano la comparsa e la persistenza della forma valore. All’interno di una particolare formazione sociale di transizione la questione della sopravvivenza della forma valore rinvia, a sua volta, all’insieme dei rapporti di produzione, circolazione e consumo che si esplicitano in una dinamica di sfruttamento e che vengono nascosti e dissimulati proprio dalla forma valore. Da qui il bisogno di risalire ai rapporti di produzione e di sostituire, per ciò che riguarda la loro analisi teorica, uno spazio omogeneo come quello dell’economia politica non marxista con uno spazio strutturato e complesso che non rimuova il problema del rapporto salariale che sottomette la forza lavoro all’esigenza dell’incremento del valore. Del resto, su questo versante Charles Bettelheim partecipava di quel salutare clima di rinnovamento culturale del marxismo critico che lo vedeva, insieme a intellettuali del calibro di Louis Althusser, figurare, come membro del gruppo “Spinoza”, ai seminari presso l’École normale supérieure de la rue d'Ulm di Parigi animati dall’autore di Per Marx e di Leggere il Capitale. Il teorico dell’economia rilanciava per le società socialiste in transizione, e dunque non ancora sviluppate, la celebre analisi marxiana del primo libro de Il Capitale sul feticismo della merce, secondo cui dietro la forma fantasmagorica del rapporto fra cose si cela un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. E tutto questo nonostante il fatto che nei paesi in transizione vi fosse una proprietà da parte dello Stato dei mezzi di produzione, con la conseguente pianificazione, non tradottasi peraltro in proprietà sociale dei produttori immediati.
E qui si perviene, così, all’ultimo punto della nostra riflessione sul lavoro teorico di Bettelheim. La pianificazione, modificando, almeno in parte, le modalità del rapporto sociale di produzione e, dunque, le forme dell’interdipendenza tra i diversi lavori del processo sociale di produzione, può innescare realistiche dinamiche di controtendenza rispetto al pericolo di ricaduta all’interno di relazioni a dominanza capitalistica. Ma tutto questo si verifica solo nella misura in cui lo Stato, e le istituzioni politiche, economiche e amministrative che da esso dipendono, coordinano realmente e a priori l’attività produttiva, implementando la cooperazione organizzata su scala sociale, in funzione della partecipazione effettiva delle masse. Di fronte al problema della burocratizzazione e della gerarchizzazione della società sovietica Bettelheim ribadiva la necessità che la realizzazione del piano fosse vincolata all’effettivo controllo, da parte dei produttori immediati, delle condizioni di produzione e di riproduzione. Solo il dominio sociale dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui prodotti avrebbe tendenzialmente portato alla eliminazione della funzione della moneta e alla scomparsa dei rapporti di mercato. Se così non fosse stato, si sarebbero configurate forme di intervento “tipiche del capitalismo di Stato” con una direzione in grado di esercitare un forte controllo dal vertice e, prima o poi, ribadiva profeticamente lo studioso di economia, si sarebbe verificato un ritorno ai rapporti di mercato e ai rapporti di lavoro salariato assicurando, per questa via, un sostanziale dominio al modo di produzione capitalistico.
In sostanza, secondo Bettelheim, la questione del piano non si riduce meramente ad una questione di efficacia tecnica o al conseguimento di determinati obiettivi produttivi. In realtà, il piano è utile nella misura in cui, all’interno di determinate condizioni obiettive del sistema produttivo, sposta gli equilibri indirizzando i rapporti sociali e le forze produttive verso una direzione a dominanza socialista. Questo vuol dire diminuzione del ruolo del mercato e dei suoi strumenti, la moneta e il sistema dei prezzi, revisione della divisione del lavoro e coordinamento, direzione, controllo e socializzazione da parte dei lavoratori.
In fondo i suoi critici dimenticano che, nonostante l’imputazione di capitalismo di Stato, Bettelheim fu un entusiasta sostenitore delle società di transizione, socialiste per quel loro mirare agli ideali di uguaglianza e giustizia sociale qualora si fosse riuscito, attraverso il piano, non solo a procedere verso un’attività di direzione e coordinamento del sistema produttivo, ma soprattutto a modificare a livello politico e ideologico i rapporti sociali e dunque il carattere delle forze produttive che assicurano la riproduzione dei rapporti di produzione dominanti. Solo così il piano diventa uno strumento di trasformazione dei rapporti sociali e di governo sociale sulle condizioni della riproduzione. Da questa particolare prospettiva Il livello dell’analisi elaborato dall’economista francese non sembra abbia perso di smalto e, addirittura, può essere di stringente attualità se messo in relazione alla critica, doverosa, da svolgere nei confronti dello stato attuale delle condizioni economiche e sociali del capitalismo. La questione decisiva rimane quella di liberare il lavoro dal vincolo di sfruttamento dato dal rapporto sociale del capitale. Essa si declina perseguendo l’obiettivo di una democrazia radicale in cui interessi collettivi e emancipazione individuale vengano armonizzati, senza il negativo condizionamento di chi gestisce privatisticamente, attraverso un uso distorto della delega, la politica. Bettelheim insegna che la socializzazione democratica della ricchezza e della finanza pubblica, delle principali strutture bancarie e commerciali, delle infrastrutture strategiche nel campo dell’energia e dei trasporti, di beni primari quali acqua e istruzione, sanità e tutela ambientale, non può non essere accompagnata da una altrettanto importante socializzazione del potere, senza che questa debba ridursi ad una forma asfittica e sclerotizzata di statalizzazione, il cui esercizio monopolistico sia affidato ad una casta di politici di professione e di burocrati della delega.
Fonte: Palermograd
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.