di Gabriele Fichera
Mi imbatto, sul «Corriere della Sera» del 15 novembre 2015, in un articolo firmato da tal Claudio Magris, da non confondere, immagino, con l'omonimo noto saggista, autore di opere critiche e narrative di sicuro valore, e padre nobel delle nostre patrie lettere – in spasmodica attesa, mi sussurrano informati amici, di un'imminente benedizione planetaria.
L'articolo fa il punto della situazione dopo le stragi terroristiche di Parigi, e ci indica la strada da seguire. Nel leggerlo si prova la vertiginosa sensazione di trovarsi di fronte all'ennesima testimonianza di una parabola triste e inesorabile: quella dell'odierno sedicente “intellettuale” che ha deciso di abdicare completamente a se stesso, alla propria delicata e gravosa funzione sociale, tra l'altro inglobando in modo furbescamente ingenuo il comodo punto di vista del cosiddetto “uomo della strada”.
Uomo della strada che a sua volta crede di possedere un proprio personale punto di vista, senza neanche sospettare che le sue idee sono invece in gran parte sapientemente manipolate e indotte dall'incessante propaganda mediatica cui è sottoposto. Il risultato di questa duplice mistificazione è che l'intellettuale, e soprattutto se autoproclamatosi “democratico” e “progressista”, si trasforma in cassa di risonanza di frasi fatte e pseudo-concetti cari a chi guida le nostre società. Ecco che allora pigrizia intellettuale, accettazione dell'esistente, tendenza alla banalizzazione – laddove invece ci sarebbe da affinare al massimo gli strumenti di analisi – e semplificazione capziosa vanno a formare la deprimente rosa dei venti di quella che un brillante saggista del primo Ottocento ebbe a definire «ignoranza delle persone colte». E mi riaffiora in mente, come una frustata che attraversa in un istante interi decenni, lo spietato giudizio di Pasolini sulla borghesia italiana come «la più ignorante d'Europa».
Uomo della strada che a sua volta crede di possedere un proprio personale punto di vista, senza neanche sospettare che le sue idee sono invece in gran parte sapientemente manipolate e indotte dall'incessante propaganda mediatica cui è sottoposto. Il risultato di questa duplice mistificazione è che l'intellettuale, e soprattutto se autoproclamatosi “democratico” e “progressista”, si trasforma in cassa di risonanza di frasi fatte e pseudo-concetti cari a chi guida le nostre società. Ecco che allora pigrizia intellettuale, accettazione dell'esistente, tendenza alla banalizzazione – laddove invece ci sarebbe da affinare al massimo gli strumenti di analisi – e semplificazione capziosa vanno a formare la deprimente rosa dei venti di quella che un brillante saggista del primo Ottocento ebbe a definire «ignoranza delle persone colte». E mi riaffiora in mente, come una frustata che attraversa in un istante interi decenni, lo spietato giudizio di Pasolini sulla borghesia italiana come «la più ignorante d'Europa».
Ma torniamo all'articolo dell'omonimo di Magris. L'idolo polemico apparente sembrerebbe il fanatismo islamico dell'Isis, ma a ben guardare c'è dell'altro. Lo si capisce dalla confezione giornalistica del pezzo. Il titolo recita infatti: «Quel complesso di colpa che ispira l'equivoco buonista». Si sa che il titolo è quasi sempre redazionale, ma in questo caso rispecchia comunque molto fedelmente uno dei fili conduttori dell'articolo, nel quale si associa l'inaudita violenza dei terroristi al rapporto sbagliato che l'occidente instaura con gli islamici. Scopriamo così che gli estremi si toccano: gli xenofobi e i buonisti sono infatti, e allo stesso titolo, i veri colpevoli. Lo sguardo acuminato di Magris si concentra, guarda caso, in particolare su quest'ultimi. I buonisti infatti con le loro «timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti» rivelano addirittura «un inconscio pregiudizio razziale». E poco dopo, qualora il concetto non fosse chiaro, si rincara la dose: «Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo». La parola centrale, che occupa il polo negativo dell'argomentazione è «cautele». Ad essa si oppone, virilmente, l'altra parola cruciale dell'articolo: «violenza». Essa campeggia non a caso fin da subito nel sommario. Lo scritto di Magris viene infatti smontato e rimontato, e le considerazioni finali, vengono anticipate e messe graficamente in rilievo. Esse conferiscono il taglio decisivo a tutto ciò che segue. Estrapolato dalla parte conclusiva del pezzo il passo in questione dunque afferma: «La violenza va repressa con la violenza» – ecco l'altra parola-chiave; e poi prosegue «ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l'insegnamento del rispetto reciproco». Tradotta in soldoni, e soprattutto lo sgraziatissimo «e sperabilmente», la frase significa: se possibile insegniamo ai barbari i “nostri valori”. Se non dovessimo riuscirci pazienza, la coscienza è salva: facciamoli fuori e festa finita.
Posto di fronte a tali originali e raffinati argomenti mi viene da chiedermi innanzitutto cosa si intenda esattamente con «pudibonde cautele». Di chi? Verso cosa? In quale contesto? Il sospetto è che sotto sotto per Magris sia cautela inaccettabile quella di chi non condivide i due assi portanti del suo pensiero. Il primo asse ideologico è che l'attuale dramma sia interamente leggibile all'interno dello scontro fra “loro” e “noi”, tra fanatismo islamico e democrazie occidentali; il secondo elemento è la banalizzazione dell'uso della violenza, qui pienamente accettata e propugnata, con la mente e col cuore. E anche con lo stile, aggiungerei. L'Isis per Magris va raso al suolo. E non sarebbe neanche difficile, perché si tratta di un quasi Stato facilmente localizzabile. Ecco un assaggio che ci restituisce la misura e il tono del discorso: «È inutile – anche inutilmente violento – dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene». No signori, non è Tom Cruise a parlare, in uno di quei tanti filmetti hollywoodiani di quart'ordine, che ci hanno insegnato a interpretare la realtà in modo manicheo – fanatico? – come divisione netta fra bene e male, e a disprezzare coloro che non accettano questi rozzi schemi, etichettandoli, magari, come “buonisti”; no, è proprio Rambo/Magris che ci parla. Egli sembra credere davvero, è qui sta il problema, che bombardando la Siria si possa estirpare il terrorismo islamico. E poco importerebbe obiettargli che coloro che hanno armato e addestrato l'esercito dell'Isis non possono essere gli stessi che lo disarmeranno e distruggeranno. Anche questa osservazione logica sarebbe facilmente rubricata infatti come “cautela” da mammoletta pacifista. Magris sposa e contribuisce a rafforzare il discorso mainstream per cui ci troviamo di fronte a uno scontro fra religioni, quando qualsiasi persona disposta ancora a ragionare pacatamente capisce bene che questo schema è falso e superficiale, oltre che pericoloso. Esso è il velo di Maya, intriso di veleno, che i potenti agitano davanti agli occhi delle popolazioni per impedire loro di comprendere cosa sta succedendo. E per spingerle a sterminarsi a vicenda.
Raggiungiamo poi un livello del discorso che sarebbe improprio qualificare come riflessione, quando l'autore dell'articolo si lancia in un duplice parallelo storico-culturale, che si potrebbe considerare innocuo se fosse solo strampalato e improbabile, ma che purtroppo risulta anche capzioso e subdolo. Il succo del discorso è che bisogna distinguere fra fanatismo dell'Isis e cultura islamica che, cito, «ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto», esattamente come «abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo». Qui davvero ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Magris sente il bisogno di “distinguere” cose che non hanno con tutta evidenza nessun tipo di collegamento. Ma proprio nell'atto di separarle finisce per porle comunque surrettiziamente in rapporto. Ma cosa c'entra la filosofia di Averroè con gli assassini dell'Isis? E cosa hanno a che fare Goethe e Beethoven con il nazionalsocialismo di Hitler e Goebbels? Magris, sempre nello stesso articolo, commentando in modo superficiale un banale fatto di cronaca ingigantito ad arte dai media, pomposamente pontifica a proposito di un dirigente scolastico e degli insegnanti di una scuola di Firenze, rei di aver annullato, forse per motivi religiosi, una gita scolastica a una mostra di arte sacra. L'articolista arriva al punto di affermare che i suddetti andrebbero «licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati». Ma, volendo pure soprassedere sulla volgarità del linguaggio da capetto ringalluzzito dalla fresca approvazione del Jobs Act, e tornando alle peregrine associazioni prima citate, mi chiedo cosa succederebbe al più scalcinato studente di quinta liceale se in sede d'esame collegasse in qualsivoglia maniera, finanche per negarne i rapporti, che so, lo sterminio perpetrato dagli spagnoli in America col Don Chisciotte di Cervantes, o i misfatti dell'Inquisizione romana con gli affreschi di Michelangelo.
E non mi soffermo sull'altra connessione avanzata dall'articolo fra Isis e nazismo: ennesimo luogo comune, fra i più in voga nei salotti mediatici.
Ritorniamo però al cuore del nostro discorso. Magris, e con lui dobbiamo dirlo tantissimi altri “intellettuali”, impegnato a pasteggiare Beethoven e a sorseggiare Kant, forse non trova il tempo o non sente semplicemente il bisogno di domandarsi, neanche per un attimo, cosa c'è davvero dietro al pestifero paravento dell'Isis, e come mai questo bubbone sia fin qui cresciuto e prosperato senza incontrare significativi ostacoli. Domandiamocelo noi allora. La mia risposta è: non per un “errore”, come si ama ripetere, delle potenze occidentali, ma per un folle calcolo di temibilissime élites. Rischioso calcolo forse, ma preciso, e messo a punto in vista di determinati fini. Ad esempio per giustificare gli interventi militari con cui le stesse potenze si giocano la partita del dominio in Medio Oriente – e non solo in quella regione. Come si fa a non ricordare che il più impellente obiettivo dell'amministrazione Usa, almeno dal 2011 a oggi, è stato quello di abbattere ancora una volta il regime ostile di turno? E che dopo l'Iraq di Saddam Hussein, l'Afghanistan dei Talebani, e la Libia di Gheddafi si era deciso che toccasse alla Siria di Assad? Questo progetto di dominio, sostenuto e alimentato dalle potenze “regionali” dell'Arabia Saudita e della Turchia, ha incontrato l'opposizione di Iran e Russia. Per questi motivi gli Usa e i vari lacché della Nato, e adesso, in reazione a tutto ciò, pure la Russia, intervengono militarmente nell'area. Siamo di fronte a uno spaventoso rovesciamento, per cui non è affatto vero che questi intervengono perché c'è l'Isis, ma semmai al contrario, l'Isis c'è perché loro intervengano. È ridicolo e dannoso invocare pappagallescamente, dal trespolo dorato dei canali televisivi e dei giornali, l'uso catartico della violenza per difendere gli inermi cittadini dell'occidente. Ricordiamocelo. La guerra è sempre servita e sempre servirà a tutelare gli interessi dei potenti e a distruggere le vite di quelli che potenti non sono. Non solo tali élites non ci difendono, ma al contrario ci usano; cinicamente usano le stragi e gli eccidi barbari come quelli di Parigi per giustificare le loro guerre che hanno ben altri obiettivi: controllare immani risorse energetiche, dare nuova forma agli equilibri geopolitici mondiali. Se non si comprende subito come sia proprio il fermo proposito di fare la guerra a creare il terrorismo, e non al contrario lo scatenarsi del terrorismo a costringere i “buoni” occidentali ad imbracciare, “loro malgrado”, le armi, allora ci si condanna davvero a una penosa cecità. Ci si consegna mani e piedi al carnefice, che non è uno stupido e non procede a caso. C'è del metodo nella follia con cui si continua ad aggiungere tasselli di sangue ad un puzzle mortale. È questo puzzle che andrebbe smascherato e scardinato, favorendo in tutti i modi una decisiva presa di coscienza: non solo in generale ogni guerra è sempre esecrabile e odiosa, ma a maggior ragione proprio questa guerra, voluta da gruppi dirigenti mondiali ben individuabili, è da rifiutare, in quanto minaccia letale che già condanna e ancor più condannerà una fetta grandissima dell'umanità a sofferenze indicibili e vergognose. Oggi più che mai il pacifismo non è per nulla astratto; e non è da deridere. Esso è invece assai concreto nella misura in cui, guardando alla «verità effettuale della cosa» piuttosto che «all'immaginazione di essa» chiarisce e denuncia le dinamiche reali degli eventi e addita in un modello di sviluppo semplicemente suicida – quello capitalistico – il quadro complessivo entro cui certi processi distruttivi nascono, si sviluppano e prosperano. Staccare questo quadro orrendo dalla parete della specie umana è compito tanto arduo quanto urgente. Esso passa attraverso la cruna dell'ago della complicazione, del ragionamento collettivo e individuale, dell'esercizio paziente del pensiero critico e della prassi politica. Compiti e doveri questi a cui l'onesto intellettuale di oggi, inteso non come membro di una casta spesso vile e compromessa col potere, ma come uomo di buona volontà che voglia condividere e trasmettere strumenti di analisi e di previsione, non può in nessun modo voltare le spalle.
Fonte: contropiano.org
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.