La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 10 gennaio 2016

Governismo, neocorporativismo e populismo

di Renato Caputo
I risultati delle elezioni in Francia e poi in Spagna segnano un’ulteriore significativa sconfitta della prospettiva eurocomunista. Nonostante la devastante crisi del modo di produzione capitalistico e delle forze che lo hanno diretto, comprese dunque le socialdemocrazie, i partiti che in Italia, Francia e Spagna hanno seguito tale modello appaiono, a partire dai risultati elettorali degli ultimi anni, sempre più residuali. Il tentativo di conquistare i ceti medi ha avuto un limitatissimo successo, pagato nella maggior parte dei casi con un netto calo di consenso fra i ceti sociali popolari.
Anche l’idea di una via istituzionale al socialismo, ossia la prospettiva di cambiare dall’interno la società civile facendo propria la logica delle istituzioni statuali liberal-democratiche, si è rivelata un’illusione. Le esperienze di governo in Francia, Italia, Spagna, ma anche quelle sperimentate nella stessa logica in Germania e più recentemente in Grecia, sono state generalmente fallimentari.
Nonostante le forze eurocomuniste abbiano fatto parte in questi anni di coalizioni al governo di nazioni, regioni e grandi città, quasi nessuno di questi tentativi è stato in grado di realizzare gli obiettivi che si era dato.
Le esperienze di governo delle istituzioni liberal-democratiche da parte di forze ispirate all’ideologia eurocomunista non ha prodotto né un significativo aumento degli spazi di democrazia, né un rilevante incremento della proprietà pubblica sulla privata, né una redistribuzione delle ricchezze dai profitti e le rendite ai salari, né una riduzione della precarietà e dei ritmi e orari di lavoro, né è stata in grado di contrastare lo sviluppo in senso imperialista dei paesi in cui ha governato.
Non solo gli obiettivi indicati non sono stati praticati, salvo alcune eccezioni che confermano la regola, ma tali politiche non hanno nemmeno favorito la progressiva occupazione delle istituzioni liberal-democratiche. Tolto il caso più recente della Grecia, dove manca ancora un riscontro elettorale significativo, in tutti gli altri paesi sopra citati queste esperienze di governo, nel medio-lungo periodo, non hanno certo favorito uno sviluppo nemmeno sul piano elettorale, quando non sono stati la causa di vere e proprie debacle.
In effetti l’aver frustrato le aspettative dei subalterni, il non aver fatto gli interessi dei lavoratori salariati, ha portato questi settori sociali, la base di massa delle forze comuniste, a perdere la fiducia nella politica come strumento di soluzione dei propri problemi. Si è così assistito a un netto calo non solo degli scioperi, delle lotte sociali, della partecipazione a sindacati e partiti politici di sinistra, ma fra le masse popolari è cresciuto in misura esponenziale l’astensionismo.
L’aver dato credito alle istituzioni liberal-democratiche e a quelle dell’Unione Europea, facendole apparire come il terreno politico più avanzato e favorevole alle conquiste sociali, ha favorito, dinanzi alla costatazione che tali istituzioni, anche quando governate da forze di “sinistra” non facevano gli interessi dei subalterni, l’affermarsi di posizioni antipolitiche.
Così anche all’interno dei movimenti sociali si sono affermate dinamiche corporative, che li ha destinati quasi sempre alla sconfitta, facendo prevalere anche sul piano del conflitto fra capitale e forza lavoro le prospettive tradeunioniste. Anche queste linee concertative a livello sindacale, come le linee politiche socialdemocratiche dominanti a livello politico fra gli eredi dell’eurocomunismo, hanno avuto esiti sostanzialmente fallimentari.
L’idea che, dopo il crollo del socialismo reale, la guerra sociale fosse ormai finita e che fosse possibile ottenere dei miglioramenti attraverso la concertazione e le istituzioni borghesi, senza organizzare il conflitto di classe dal basso, ha fatto sì che negli ultimi anni la lotta di classe sia stata condotta essenzialmente dall’alto. Inoltre tali illusioni ideologiche hanno portato a far dimenticare che la democrazia reale, in senso etimologico intesa quale potere popolare, non può che passare attraverso la partecipazione delle masse alla vita politica. Tale partecipazione è anestetizzata, per non dire negata dalla logica liberale della delega della sovranità popolare tanto al funzionario sindacale, quanto al funzionario dei partiti o all’intellettuale tradizionale di “sinistra”.
Tale debacle sul piano ideologico, per cui anche nella battaglia culturale l’egemonia è saldamente nelle mani delle forze liberali, ha portato le masse popolari a una progressiva passivizzazione. Ciò non ha potuto che indebolire ulteriormente le capacità dei funzionari politici e sindacali di ottenere qualcosa nelle trattative con la contro parte, tanto più che in diversi casi ci si è illusi che quest’ultima potesse divenire un potenziale alleato.
Tanto più che la logica concertativa e istituzionalista delle forze politiche e sindacali eredi dell’eurocomunismo pecca di idealismo, ossia non tiene conto del legame necessario fra le strutture economiche sociali e le sovrastrutture giuridiche e politiche. Da ciò nasce, ad esempio, l’illusione che basti conquistare le istituzioni borghesi, che sia sufficiente essere convincenti nella concertazione con le parti sociali, che basti mostrare la maggiore razionalità delle politiche socialdemocratiche per invertire la tendenza, far abbandonare le politiche neoliberiste, sviluppare un keynesismo non militare, abbandonare lo sviluppo in senso imperialista dei paesi a capitalismo avanzato.
Secondo tale concezione idealista sarebbe sufficiente riappropriarsi di quelle politiche socialdemocratiche abbandonate dai partiti socialisti, che avrebbero semplicemente tradito i loro ideali soccombendo al pensiero unico liberista, per tornare ai “trenta anni gloriosi” che avrebbero permesso, fra il 1945 e il 1975, lo sviluppo dell’economia e dello stato sociale. Evidentemente non si tiene conto che tali conquiste sociali erano il frutto di una congiuntura economica favorevole e di rapporti di forza sul piano locale e internazionale che vedevano un costante rafforzamento delle forze progressiste.
Ai nostri giorni, all’interno di una crisi economica ormai quarantennale (1975-2015) dei paesi a capitalismo avanzato, i cui tassi di crescita rispetto ai trenta gloriosi sono in media dimezzati – passando da tassi “cinesi” intorno all’8% a tassi medi del 4% – la tendenziale caduta del tasso di profitto riduce al massimo gli spazi redistributivi. Il diabolico meccanismo del debito pubblico fa sì che gli stati meno ricchi siano costretti a finanziare i più alti livelli di vita dei paesi più ricchi e che in generale gli interessi pubblici siano sottomessi ai privati. I detentori del debito e le istituzioni finanziarie internazionali hanno così un vero e proprio potere di veto sulle politiche economiche, riducendo al minimo le possibilità che mediante il suffragio universale possano affermarsi politiche favorevoli agli interessi dei subalterni e, dunque, contrarie a quelle dei creditori.
Tanto più che, anche a livello internazionale e locale, i rapporti di forza sono mutati profondamente e non certo a vantaggio dei subalterni. Il venire meno degli stati “totalitari” del socialismo realizzato e delle “dittature” da essi sostenute nel terzo mondo, con l’affermazione a livello mondiale della liberal democrazia e della Nato – sotto il cui ombrello gli eurocomunisti si sentono più protetti – non ha certo favorito la crescita dei salari e delle lotte sociali. Anzi, da allora, sono aumentate le guerre calde, generalmente condotte dalla Nato, il rovesciamento con colpi di Stato più o meno mascherati dei regimi non proni al domino imperialista a livello internazionale. Senza contare che in paesi come l’Italia il prevalere delle logiche governative e concertative ha portato a uno spaventoso calo delle ore di sciopero, al quale corrisponde una netta diminuzione della percentuale del prodotto interno di cui si appropriano i salari, a fronte dell’aumento delle quote accaparrate da profitti e rendite.
Infine le logiche governiste, concertative quando non neo-corporative affermatesi a livello internazionale hanno portato al crescere di forze populiste, che hanno preso il posto, agli occhi di molti subalterni privi di coscienza di classe, delle forze tradizionali di sinistra troppo colluse con un sistema economico sociale sempre più escludente. Così le politiche imperialiste, le logiche neoliberiste imposte dagli organismi internazionali e dal pensiero unico dominante, e la collusione, reale o apparente di troppe forze tradizionali con il sistema dominante, ha favorito l’affermarsi nel Terzo Mondo di forze populiste orientate generalmente in senso religioso o etnico. Tali forze oggettivamente più anti-sistemiche, rispetto alle forze governiste e concertative della “sinistra” tradizionale, sono generalmente portatrici di una visione del mondo e di un’economia politica non più progressiste e razionali di quelle capitaliste attualmente dominanti, ma regressive e reazionarie.
Allo stesso modo nei paesi europei dove hanno prevalso nella “sinistra” politica e sindacale le concezioni governiste e concertative, quando non neo-corporative, si sono egualmente affermate forze populiste. In questi paesi, in cui si è maggiormente diffusa la visione del mondo scientifico-filosofica ai danni della concezione tradizionalista mitologico-religiosa, in tali forze la componente fondamentalista ed etnica è meno egemone. Inoltre mentre nei paesi europei più ricchi, dalla Francia, all’Olanda, alla Danimarca, alle regioni più ricche di Italia e Spagna la sinistra di governo ha finito per lasciare spazio fra le classi popolari a un populismo di destra, spesso razzista e con componenti anche se minoritarie fondamentaliste, in regioni non ricche dell’Italia e ancora più della Spagna, le forze populiste hanno assunto orientamenti diversi.
In Italia si è affermato il M5S, che ha sviluppato un populismo in grado di occupare quel grande spazio che si è aperto al centro del mondo politico italiano dopo che la maggioranza degli eredi di Pci, Psi e Dc, assumendo posizioni liberali, si sono spostati a destra. Tanto più che gli esiti fallimentari della logica governista della maggioranza delle forze politiche rimaste a sinistra e la linea concertativa dei sindacati ha fatto apparire una forza che non si definisce né di destra né di sinistra e con tratti xenofobi l’unica credibile alternativa di sistema.
Diverso ancora è il caso della Spagna dove in Podemos, oggi la più forte forza della sinistra iberica, in grado di cannibalizzare il potenziale bacino elettorale degli eurocomunisti spagnoli, si confrontano tendenze diverse e spesso contraddittorie. Podemos è in primo luogo il prodotto di un grande movimento popolare e sociale contro le logiche liberiste imposte dal capitale transnazionale. Tali lotte hanno avuto il grande merito di far emergere la vera natura dei socialisti spagnoli, sempre più conquistati dal pensiero unico liberale. Inoltre hanno imposto agli euro-comunisti spagnoli, che avevano talvolta coperto da sinistra le politiche social-liberiste, una netta scelta di campo.
Allo stesso modo, però, come in tali lotte alle origini di Podemos lo spontaneismo aveva avuto il sopravvento sulla direzione consapevole, così ora che il movimento si è fatto partito si sono sviluppate pericolose tendenze populiste, a partire dal dirigismo mediatico di Iglesias e dal suo definirsi né di destra né di sinistra. Inoltre forte è l’influenza su una parte significativa della dirigenza di Podemos del populismo governista di Laclau, che rischia di far ripercorrere a questo movimento la stessa parabola fallimentare dell’eurocomunismo.
Allo stesso modo non mancano spinte opposte all’interno di Podemos, che si rifanno a un’ottica marxista, principalmente gramsciana e trotskista, quindi anche in questo caso decisiva per il futuro di questo partito, composito al proprio interno, sarà la lotta per l’egemonia.

Fonte: La Città futura 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.