di Eleonora Piromalli
Una nota di Pierfranco Pellizzetti[1], recentemente pubblicata in questa stessa rubrica, ha il merito di richiamare l’attenzione dei lettori sul nuovo volume di Axel Honneth, autore che rappresenta uno dei nomi di punta dell’odierna ricerca filosofico-politica internazionale. Il diritto della libertà costituisce un testo importante e corposo, che apporta diverse innovazioni alla teoria del riconoscimento elaborata da Honneth a partire dal volume del 1992 Lotta per il riconoscimento. Da quando è stato pubblicato in Germania[2] (e poi, in traduzione, nei principali Paesi europei, negli Stati Uniti, in Canada, in Brasile, in Giappone, in Cina), Il diritto della libertà è stato quindi oggetto di decine e decine di recensioni internazionali.
Nel suo intervento Pellizzetti preferisce non addentrarsi in una esposizione che restituisca con precisione al lettore i contenuti del volume: nell’unica sezione in cui si confronta direttamente con il libro, egli polemizza non senza sarcasmo con lo «stile iniziatico di scrittura» di Honneth, il quale si servirebbe di costruzioni e termini eccessivamente e inutilmente complessi per affermare – almeno nella frase portata ad esempio da Pellizzetti – «qualcosa di tutto sommato ovvio».
Al di là della polemica sullo stile, scarsa luce viene fatta dunque sulle idee fondamentali de Il diritto della libertà, che, di conseguenza, sono tratteggiate con qualche semplificazione di troppo.
Al di là della polemica sullo stile, scarsa luce viene fatta dunque sulle idee fondamentali de Il diritto della libertà, che, di conseguenza, sono tratteggiate con qualche semplificazione di troppo.
Si sa, i filosofi tedeschi tendono a scrivere in modo complicato, ma la fatica richiesta al lettore è spesso ben ripagata. Quello di Honneth, peraltro, è un libro che si presta bene alla divulgazione: la sua architettura è semplice e limpida, e il linguaggio utilizzato, per il pubblico specialistico a cui il testo è primariamente rivolto, risulta tutt’altro che oscuro o involuto. Grazie non da ultimo alla chiara traduzione dal tedesco di Carlo Sandrelli, già traduttore di altre opere di Honneth tra cui Lotta per il riconoscimento, e all’ottima prefazione di Gustavo Zagrebelsky, che ripercorre in maniera lucida e dettagliata gli snodi e i concetti fondamentali del testo, anche chi non abbia grande dimestichezza con l’attuale ricerca filosofico-politica potrà capire il libro di Honneth senza particolari difficoltà, al di là forse di alcuni occasionali passaggi più densi. Al fine di rendere giustizia a un volume dotato di notevoli punti di forza e ricco di idee tutt’altro che banali, in questa sede si proverà a ripercorrere linee e concetti principali del libro in modo chiaro e accessibile, evidenziando anche alcune problematiche che in esso si possono riscontrare[3].
La metodologia della ricostruzione normativa
Il dibattito filosofico da cui il libro ha origine non è tanto quello, ormai sostanzialmente superato, tra comunitaristi e liberali (che nel 1992 costituiva un importante riferimento per Lotta per il riconoscimento), bensì quello, antico e nonostante questo sempre attuale, tra le teorie filosofico-politiche costruttiviste, di derivazione kantiana, e le teorie di un certo idealismo. Entrambi i tipi di teoria dovrebbero analizzare e descrivere la realtà sociale contemporanea, e poi, successivamente, prescrivere princìpi di giustizia che possano rettificare le negazioni della giustizia rilevate mediante l’analisi descrittiva. Le teorie costruttiviste, afferma Honneth, trascurano invece il primo momento, finendo così per proporre princìpi e ideali elaborati in via puramente intellettuale dal teorico, senza considerare a sufficienza quanto questi siano effettivamente applicabili nel contesto concreto delle società in cui viviamo[4]. Alcune forme di teorie idealiste, invece, cadono nell’eccesso opposto: partono giustamente da un’analisi delle forme sociali, ma in esse tendono a ravvisare, sempre e comunque, connotati di razionalità e di necessità, di fatto abbandonando ogni intento prescrittivo e di critica sociale[5].
Per trovare una terza via tra questi due esiti problematici Honneth riparte dall’Hegel della Filosofia del diritto, servendosene come ispirazione per elaborare quella che denomina la «metodologia della ricostruzione normativa»[6]: nelle società in cui viviamo vi sono già idee di giustizia vigenti nella quotidianità. Quest’ultima non è dunque un campo normativamente neutro, a cui princìpi normativi elaborati in maniera puramente intellettuale debbano essere applicati dall’alto, in una superficiale riproposizione del dover-essere kantiano; i primi elaboratori di idee e prassi normative sono proprio coloro che vivono nella società e si trovano a subire in prima persona esperienze che percepiscono come ingiuste, contro ogni sedicente hegelismo che voglia identificare il reale, in quanto tale, come razionale. Viene qui in primo piano il tema cardine della ricerca filosofica di Honneth: la lotta per il riconoscimento. Si pensi alle lotte del movimento operaio per orari e standard di lavoro accettabili, o alle battaglie per l’emancipazione delle donne da strutture familiari, politiche e sociali oppressive: si tratta di lotte messe in atto da persone che, all’inizio isolate nel percepire istintivamente l’ingiustizia delle proprie condizioni di vita, si sono unite e organizzate per identificare cosa esattamente vi fosse di ingiusto nella loro situazione e per lottare insieme contro chi, per mantenere posizioni di privilegio, voleva conservare lo status quo. Queste persone si sono riferite nelle loro lotte a princìpi di giustizia e di libertà che esse stesse hanno contribuito a elaborare ed affinare, princìpi che ora sono parte integrante del nostro orizzonte normativo quotidiano.
I princìpi che devono orientare una teoria della giustizia, conclude quindi Honneth, non necessitano di essere elaborati da un filosofo alla sua scrivania e poi calati dall’alto sulla società, né si identificano senza riserve con ciò che è già vigente nel reale: piuttosto, vengono elaborati all’interno del tessuto stesso della società, richiamando sempre quest’ultima a una più completa realizzazione dei suoi aspetti normativi, che, nel presente, trovano un’applicazione tutt’al più manchevole e parziale[7]. L’idea fondamentale alla base di tutte le elaborazioni normative che nella storia della modernità sono state prodotte dai soggetti stessi, afferma Honneth, è la libertà[8]: libertà dagli impedimenti arbitrari alla propria azione, libertà di essere autonomi decisori del proprio agire morale al di là di ogni autorità autoproclamatasi, libertà di creare insieme una società più giusta e soddisfacente. Ecco, per l’appunto, «il diritto della libertà».
La libertà negativa e la libertà riflessiva
La libertà, principio che accomuna le lotte e le idee di giustizia portate avanti dai soggetti nella storia, è un concetto internamente articolato. A livello di sistematizzazione teorica, essa può venire distinta in cinque sfere, le quali compongono la struttura di base del volume di Honneth: la sfera della libertà negativa, quella della libertà morale, e la triade costituita dalla libertà sociale.
La libertà negativa[9] è la prima, storicamente e giuridicamente, ad essere stata elaborata e affermata. Essa trova le sue origini nelle lotte illuministiche per il diritto di pensiero, di parola, di stampa, di integrità personale contro gli abusi dell’autorità, di religione, di attività economica. A livello concettuale, la libertà negativa prescrive la garanzia di un ambito in cui l’individuo va lasciato libero, dalle leggi, dallo Stato, da ogni autorità e anche dagli altri individui, di agire a suo piacimento: nessuno può ordinarmi cosa devo leggere, cosa devo pensare, quale deve essere il mio credo. La garanzia giuridica della libertà negativa, attraverso i cosiddetti diritti liberali, è l’aspetto più basilare attraverso cui una dittatura può essere distinta da uno Stato libero, e pertanto rappresenta una componente fondamentale di ogni teoria della giustizia.
Non è però l’unica: essa si riferisce all’individuo considerato come singolo, isolato, in un rapporto quasi autodifensivo rispetto all’esterno, che non esaurisce la forme della nostra vita sociale. Altra fondamentale tipologia di libertà è la libertà morale, o riflessiva[10]: essa, che filosoficamente va ascritta a Kant, pone l’accento sul fatto che ad ogni persona vada attribuita eguale dignità in quanto autonomo soggetto morale, e che quindi ognuno debba essere libero di far valere, paritariamente agli altri, le sue scelte ricavate grazie al libero uso della sua ragione. Essa prescrive quindi l’autodeterminazione dei soggetti: ha dato vita a un concetto di «dignità umana» corrispondente all’idea di trattare ogni soggetto come un fine in sé, a prescindere da differenze di status economico, sociale ecc., e ha costituito il fondamento filosofico della possibilità di mettere in questione, sulla base del criterio della loro giustificabilità morale davanti a ciascuno, norme e aspettative sociali.
La libertà sociale
Sia la libertà negativa che quella riflessiva, per quanto fondamentali, non esauriscono l’ambito della libertà, e anzi, per poter essere davvero applicate, necessitano di un’ulteriore determinazione di quest’ultima: la libertà sociale, o eticità[11]. La teorizzazione originale di questa forma di libertà è il punto centrale del libro di Honneth. Essa è formata dall’insieme di ambiti in cui, agendo insieme secondo libertà, i soggetti creano le forme, le istituzioni e le strutture sociali che sono espressione e campo concreto di applicazione di questa stessa libertà; in altre parole, la libertà sociale si identifica con le relazioni di riconoscimento di cui è intessuta la nostra prassi, trova i suoi presupposti nella libertà negativa e in quella riflessiva e a sua volta le completa.
Honneth, ricalcando la struttura della Filosofia del diritto hegeliana, suddivide la libertà sociale in tre sfere: le relazioni affettive, la sfera del mercato, e lo Stato democratico. Le relazioni affettive[12] (che siano di amicizia, di coppia o di tipo familiare, ossia implicanti una prole) sono quelle relazioni in cui i soggetti coinvolti si riconoscono reciprocamente come necessari l’uno per la vita emotiva dell’altro, e quindi per il proprio benessere più profondo. La libertà sociale è qualcosa che si realizza insieme, gli uni grazie agli altri, e il proprio bene è al contempo il bene dell’altro. Gli ambiti della libertà sociale vanno pertanto salvaguardati a livello sociale, e la loro determinazione interna va portata a sempre più alti livelli di giustizia. Questo è un processo che negli ultimi secoli, scrive Honneth, si è realizzato con particolare efficacia nell’istituzione della famiglia. La lotta per la condizione femminile, il mutamento dei metodi educativi applicati nei confronti dei figli, la perdita di rigidità nei ruoli familiari, il recedere delle idee naturalistiche su di essi, e, nel complesso, una maggiore libertà nell’espressione e nell’articolazione dei sentimenti reciproci e dei bisogni personali sono stati altrettanti passaggi attraverso cui, grazie a diversi tipi di lotte per il riconoscimento, è andato totalmente compiendosi il potenziale normativo di questa sfera[13].
Una diagnosi a nostro parere eccessivamente ottimistica, che risente anche di una descrizione della famiglia come ambito al suo interno perfettamente conciliato, privo di quelle ambivalenze che sempre caratterizzano i rapporti affettivi umani. Questo nulla toglie però alle dettagliate e appassionanti ricostruzioni della storia dei movimenti per l’emancipazione che Honneth, a illustrazione delle sue tesi, svolge per questa sfera come per le altre, e che rappresentano uno dei punti più notevoli del volume.
Su tutti altri toni, rispetto alla sfera delle relazioni affettive, si pone la diagnosi di Honneth relativamente all’attuale situazione dell’ambito del mercato[14], seconda sfera di libertà sociale: esso è classicamente identificato come un ambito in cui ognuno, mediante la sua azione, non solo realizza le proprie finalità, ma anche quelle del suo interlocutore, all’interno di un contesto di regole formali e informali. A partire dagli albori del capitalismo, le lotte per il riconoscimento in ambito lavorativo e industriale hanno permesso uno straordinario avanzamento dei diritti sul lavoro e delle tutele di welfare per i cittadini, rendendo possibile una sempre più completa realizzazione della libertà intrinseca a questa sfera (libertà che può dirsi tale se, per l’appunto, ogni soggetto contribuisce con la sua azione al bene dell’altro). Oggi tuttavia, scrive Honneth, non solo gli ultimi sviluppi del capitalismo hanno tragicamente ridotto le tutele giuridiche dei soggetti, ma, per effetto del prevalere di una mentalità individualistica, non è nemmeno ravvisabile una reale lotta collettiva contro la deregolamentazione e la recrudescenza dello sfruttamento[15] (il quale in verità, secondo la lettura marxiana – che Honneth però non segue - è parte integrante di questa sfera fin dal principio).
È chiaro che questa diagnosi, che probabilmente nella sua sana indignazione è fin troppo pessimistica nel negare l’assenza di ogni contrapposizione collettiva, comporta problemi anche per la stessa intenzione di Honneth di ricavare una teoria della giustizia a partire dalla normatività presente nella realtà sociale: se ormai questa sfera ha davvero perso le sue connotazioni normative e perfino (dato su cui non concordiamo) ogni traccia di lotte collettive per il riconoscimento radicate sui territori, come giustificare la sua immutata permanenza tra le sfere della libertà sociale? E come argomentare in modo stringente che, al di là degli sviluppi storico-sociali presenti, questa sfera dovrebbe comunque essere intesa, a livello normativo (e non di semplice descrizione della realtà), come sfera di libertà sociale? La ricostruzione storica che Honneth utilizza per dimostrare l’intrinseca normatività «sociale» della sfera dell’economia in riferimento ad epoche passate, e motivarne quindi l’appartenenza di diritto all’eticità, è la stessa che, contro le intenzioni dell’autore, finisce per smentire questa appartenenza per quanto riguarda il presente.
L’ultima sfera in cui si articola la libertà sociale è quella dello Stato democratico. Anch’essa, naturalmente, è andata incontro, nei secoli, a una notevole evoluzione normativa, con l’estensione progressiva dei diritti politici, la maggiore informazione e coinvolgimento dei cittadini nelle vicende della politica, e la formazione della società civile, tutti passaggi magistralmente ricostruiti da Honneth nelle sezioni descrittive. L’analisi critica compiuta da Honneth circa gli attuali problemi della sfera pubblica è in gran parte focalizzata sul ruolo dei media nelle nostre società, e in particolare sulla questione dell’uso ideologico di essi: la costruzione mediatica della realtà, la spettacolarizzazione di temi scelti non in base a considerazioni normative ma alla loro capacità di impatto sull’audience, la collusione dei media con poteri politici ed economici, l’uso strumentale dell’informazione, la carenza di approfondimento e la sottrazione di spazi alle voci critiche.
Un cauto ottimismo trapela però dalle considerazioni rivolte al ruolo di internet in quanto strumento di organizzazione politica e come risorsa di informazione alternativa alle fonti centralizzate rappresentate dai media tradizionali[16]. Viene inoltre in primo piano il problema della disaffezione dei cittadini rispetto alla politica, per la sfiducia risultante dalla percezione che le decisioni prese nelle sfere della politica formalmente istituzionalizzate si orientino spesso a garantire gli interessi, ormai scatenati per effetto di una carenza di regolazione giuridico-normativa, di una ristretta élite dominante e di lobbies economiche. A differenza che per la sfera economica, qui una via d’uscita viene però da Honneth trovata «nelle associazioni, nei movimenti sociali e nelle organizzazioni civili»[17], operanti a livello non solo sovranazionale, i quali dovrebbero unire le proprie forze per esercitare pressione sugli organi legislativi al fine di una più stringente regolamentazione degli interessi che minano la libertà sociale, in prima istanza quelli del capitale. La preoccupazione che in modo più evidente contraddistingue Il diritto della libertà è quella relativa alla difficoltà di arginare il capitalismo neoliberistico che, impostosi a livello globale ed europeo, sfugge alla regolazione da parte dei tradizionali dispositivi democratici degli Stati nazionali.
Nell’insieme, Il diritto della libertà è un testo che si pone obiettivi vari e difficili - di analisi sociale, elaborazione normativa e diagnosi del tempo. L’impresa che Honneth si proponeva, quella di ricavare una teoria della giustizia a partire da un’analisi della società, risulta sostanzialmente compiuta; la metodologia della ricostruzione normativa si rivela quindi, complessivamente, un dispositivo valido. Quanto all’elaborazione teorica, quella di Honneth rappresenta, al di là di alcuni aspetti problematici[18], una concezione articolata e sistematica oltre che chiara nella sua struttura, sostenuta da un argomentare attento e mai banale come anche dal ricorso a un’ampissima documentazione storico-sociologica. Una teoria che conduce a incisive diagnosi del presente, e che, nel suo appello alla salvaguardia della libertà negativa, riflessiva e soprattutto sociale, porta in primo piano concetti e ideali che, al giorno d’oggi, necessitano più che mai di essere richiamati e difesi.
Eleonora Piromalli è autrice della prima monografia in italiano sull'opera di Honneth (Axel Honneth: giustizia sociale come riconoscimento, Mimesis 2012) e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia di “Sapienza” - Università di Roma.
[1] P. Pellizzetti, Istituzioni e libertà. Su “Il diritto della libertà” di Axel Honneth, http://ilrasoiodioccam-micromega.blogaut...
[2] Ad esso è seguito il libro del 2015 Die Idee des Sozialismus (Suhrkamp, Frankfurt a. M.), in corso di traduzione in italiano per Feltrinelli.
[3] Una trattazione più estesa e dettagliata del volume ho svolto nel mio articoloLa contrastata promessa di libertà del moderno, in «La Cultura», L (2012), n. 1, pp. 133-156. Cfr. anche R. Claassen, Social Freedom and the Demands of Justice, in «Constellations», XXI (2014), n. 1, pp. 67-82; L. Siep, Wir sind dreifach frei, recensione a Das Recht der Freiheit, in «Die Zeit»,18.08.2011; e il numero monografico di «Critical Horizons», XVI (2015), n. 2.
[4] Cfr. A. Honneth, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, trad. it. Codice Edizioni, Torino 2015, p. XXXIX.
[5] Ivi, p. XLIII.
[6] Ivi, p. XL.
[7] Cfr. N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, trad. it. Meltemi, Roma 2003, p. 182.
[8] A. Honneth, Il diritto della libertà, cit., p. 5.
[9] Cfr. ivi, pp. 13-24 e pp. 85-118.
[10] Cfr. ivi, pp. 25-43 e 119-154.
[11] Ivi, pp. 45-74 e 155-481.
[12] Ivi, pp. 168-233.
[13] Ivi, pp. 232-233.
[14] Ivi, pp. 234-358.
[15] Ivi. pp. 355-361.
[16] Cfr. ivi, pp. 432-434.
[17] Ivi, p. 469, trad. leggermente modificata.
[18] Per una disamina che vada oltre quelli qui rilevati, rimando ancora
Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam
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