di Giusi Greta Di Cristina
Era il 1964. Sul Washington Star comparve un editoriale quanto meno profetico: “Qui si ha una situazione in cui un buon colpo di Stato fatto bene, di vecchio stile, dai leader militari conservatori, può ben servire ai migliori interessi di tutte le Americhe.”. Eduardo Galeano lo ricorderà nel suo imprescindibile “Las venas abiertas de América Latina”, un bibbia per chiunque voglia conoscere la storia del subcontinente americano. Pochi mesi dopo quell’editoriale, la finanza, i latifondisti, gli alti prelati, i conservatori e i militari si uniranno nel colpo di Stato che segnerà l’avvio, in Brasile, di una dittatura lunga vent’anni circa, dal 1964 al 1989, data delle prime elezioni democratiche.
L’ultimo presidente legittimo, João Goulart, aveva tentato una coraggiosa riforma agraria e la nazionalizzazione delle imprese petrolifere: obiettivo era ridare il Brasile ai brasiliani, ridimensionare il potere delle compartecipate statunitensi, non tirare più avanti con le iniezioni di denaro di Washington. Per la prima volta nella storia del Paese, un presidente era riuscito a riunire la base di sinistra ed il sindacato.
Non è difficile immaginare come la classe conservatrice potesse reagire ad un’avanzata socialista e comunista. E allo stesso modo non è difficile comprendere che Washington sarebbe stata ben felice di appoggiare economicamente un’azione di forza che avrebbe sancito il laissez faire delle aziende statunitensi in territorio brasiliano e la politica di prestito di danaro. A testimonianza vi rimando alle parole del telegramma di auguri che il presidente degli Stati Uniti di allora, Lyndon Johnson, mandò ai capi del golpe, congratulandosi, tra le altre cose, per “(…) la risoluta volontà della comunità brasiliana nel risolvere queste difficoltà nel segno della democrazia costituzionale e senza guerra civile” e salutava con favore e sollievo l’avvento del “comitato rivoluzionario”. A riprova del rispetto della democrazia costituzionale di cui parlava Johnson, a seguito del golpe vennero immediatamente soppresse le libertà civili, imprigionati migliaia di dissidenti e venne istituita la censura.
Prima di partire per l’esilio in Uruguay, Goulart lanciò un messaggio al Paese: “ (…) è bastato, in poche parole, che io abbia preso concretamente la difesa dei poveri e che abbia voluto costruire un Brasile veramente indipendente, perché gli agenti dei trusts internazionali si siano lanciati in una campagna contro di me di cui potete vedere i risultati (…)”.
Ha inizio la così chiamata “Rivoluzione redentrice”.
La dittatura che subì il Brasile non ritorna alla memoria così facilmente come avviene con quella del Cile di Pinochet o quella argentina di Videla. Eppure questa fu la prima esperienza, il banco di prova, l’esercitazione diremo per i golpe più famosi che nel giro di poco tempo si realizzeranno in America Latina.
La dottrina della sicurezza nazionale, che elabora una sorta di “guerra totale”, contro i nemici della Patria sia interni che esterni(ravvisati nei comunisti e nei “sovversivi”) viene imbastita su ogni fronte: economico, politico, psicologico. Obiettivi finali erano la salvaguardia della società e dei suoi valori e il perseguimento dello sviluppo economico. Per realizzare quest’ultimo punto, i capi militari approntarono una strategia, detta del “treppiede”, che prevedeva l’alleanza tra intervento pubblico, imprenditori privati locali e capitale estero (attirato, a sua volta, dai bassi costi del lavoro e da agevolazioni di vario genere).
I manovratori del golpe non si preoccuparono per nulla del miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, convinti che la questione era rimandabile ad un secondo momento.
Il Paese si trovò ad essere sempre più palesemente dipendente dal capitale estero: l’internazionalizzazione dell’economia brasiliana determinò un vertiginoso aumento del debito estero e dei tassi di inflazione. Il modello economico perseguito ebbe effetti sociali devastanti, provocando livelli di disuguaglianza di gran lunga superiori a quelli registrabili in paesi dal medesimo sviluppo.
Questo accadeva nel 1964. Nel ’67 un’impennata degli acquisti produsse, per qualche anno, un boom economico in Brasile che, però, quando si assestò produsse effetti ancor peggiori dei precedenti.
Lula uscì fuori da quel ventennio lungo e nero come uno dei più importanti leader sindacali del Paese. Dilma, invece, in quel ventennio era stata una giovane militante dei gruppi di guerriglia socialista che tentarono di attaccare la dittatura.
Poi arrivò il 1989 e le prime elezioni democratiche. E poi arrivò il 2013 con l’elezione di Lula a presidente del Brasile.
Ma la vittoria di Lula, del PT e del socialismo non è stata ben accetta dall’oligarchia finanziaria brasiliana. Essa, anzi, ha influenzato – prima e durante – l’operato del Presidente, e non solo, com’è prevedibile, da un punto di vista economico, ma soprattutto dirigendo l’opinione pubblica attraverso i media. I maggiori media infatti (cosa che, tra l’altro, accade molto spesso in America Latina) sono nelle mani dei potentati oligarchici, e hanno sempre appoggiato i leader della destra conservatrice, omettendo e talvolta alterando fatti e notizie a loro riguardo.
Andò così, ad esempio, per le campagne elettorali pre-Lula (Lula si è candidato ben quattro volte prima di vincere) e continua ad essere così. Ugual cosa è avvenuta nei confronti di Dilma Rousseff, prima Ministro del secondo governo Lula e poi Presidente del Brasile. Così è andata anche ieri, quando durante la notizia della destituzione della Presidente del Paese, i maggiori network nazionali mandavano in onda programmi non di informazione, come se nulla stesse accadendo. Non era più necessario, ormai, riempire i palinsesti di dichiarazioni mendaci su Dilma.
Non si vuole in questa sede per nulla santificare l’operato dei due Presidenti. Il PT è un partito socialdemocratico e risente delle medesime contraddizioni tipiche di tutti i partiti socialdemocratici: un’apertura al liberismo, al capitale privato – anche straniero –, qualche morbidezza evitabile, scandali interni al partito. Ma quello che negli ultimi mesi è salito alle cronache mondiali non è la diretta conseguenza di errori politici. Essi sarebbero stati condannati, puniti attraverso le elezioni, ma così non è stato, dato che Dilma è stata riconfermata presidente del Brasile con più del 51% dei consensi (ed anche in quel caso vinse nonostante tutti i media, anche internazionali, fossero schierati contro. Ricondiamoci, infatti, della campagna denigratoria messa in piedi durante i mondiali di calcio del 2014).
Vogliamo condannare, fermamente, quel che appunto è stato l’intero iter parlamentare dell’impeachment creato ad hoc per mettere fuori gioco una presidente che, specie nel perseguire le politiche luliste, tanto ha fatto per il suo popolo.
Abbiamo visto, in questi brutti mesi, un Paese spaccato, coi ricchi in piazza inneggianti al ritorno (addirittura) di un golpe di stampo militare e tutto il resto della popolazione in piazza in difesa della legittimità della presidenza Dilma.
C’era o non c’era il reato per il quale Temer, il “grande manovratore”, accompagnato da 61 uomini (peraltro tutti, chi più chi meno, con la fedina sporca per corruzione) ha deciso la destituzione della legittima presidente Dilma Rousseuff?
No, non c’era, come confermato dal Senato. Dilma non ha commesso il reato per cui è stata posta in essere l’accusa di impeachment.
Ma, a vedere quel che è accaduto nelle ultime ventiquattr’ore, questo non è bastato: troppi gli interessi che la destra finalmente pensa di poter riafferrare, col beneplacito del governo americano. Come accaduto fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, vincere le elezioni non basta per poter governare, e come è accaduto nell’Argentina di Macri, nei mesi successivi alla sua presa di potere, il Brasile di Temer ha già riaperto le frontiere all’invasione delle compartecipate estere, alla privatizzazione delle aziende prima nazionalizzate, alla vendita con prezzi stracciati di quanto era di proprietà del governo – e quindi del popolo – brasiliano.
Trattasi, fin troppo chiaramente, di un’offensiva ai BRICS, anzi, a quel Paese che nei BRICS (fino a una decina di anni fa) non avrebbe manco pensato di poterci entrare. Un Paese che, con le politiche socialiste, con dei programmi economici finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni meno abbienti, era riuscito a fare dei miracoli, e contemporaneamente era divenuto un punto di riferimento essenziale delle politiche subcontinentali, basti ricordare l’Unasur e il Mercosul.
Non è solo un attacco ai BRICS, però, è un vero e proprio attacco alle politiche socialiste, come evidenziato dalla trasformazione repentina dell’Argentina post-Kirchner e i tentativi di colpi di Stato in aria (ma non troppo!) che aleggiano su Ecuador, Bolivia, Nicaragua e, manco a dirlo, Venezuela. Di Cuba, ovviamente, si aspettano un’apertura che la traini verso la capitolazione al mercato statunitense.
È un secondo Plan Condor, un tentativo di ricolonizzazione, talmente chiaro da risultare quasi banale.
Tutti i movimenti, le associazioni, i comitati, i partiti politici (tra cui il Partido Comunista do Brasil), anche quelli che critici sono stati nei confronti dei governi Lula e Rousseff, si sono immediatamente dichiarati dalla parte della loro Presidente; con loro tutte le realtà estere che si sentono offese e allarmate da quest’ondata di illegalità parlamentare e non dilagante in America Latina. I Paesi latinoamericani amici hanno immediatamente ritirato i proprio delegati diplomatici e non stanno riconoscendo il nuovo presidente, che ha già fissato le prossime elezioni per il 2018. Giusto il tempo di assestare un durissimo colpo in chiave ultraliberista al Paese.
Compito di tutti i partiti comunisti del mondo è chiedere al proprio Paese di seguitare con l’esempio di questi Paesi, nostri fratelli: ritirare i propri ambasciatori dal Brasile e chiedere il non riconoscimento del governo dittatoriale imposto da Temer. Il PCI lo chiede al presidente Renzi e al suo governo, in nome del rispetto della legittimità del voto e dell’autodeterminazione dei popoli.
Goulart scriveva di esser stato attaccato dopo aver tentato di creare un Brasile indipendente dagli Stati Uniti: Lula e Dilma ci sono riusciti e per questo sono stati fermati.
In difesa della libertà dei popoli, stiamo con Lula, stiamo con Dilma!
Fora Temer!
Fonte: ilpartitocomunistaitaliano.it
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