La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 5 settembre 2016

La propaganda dell’Isis e la vera guerra da combattere

di Alberto Negri 
Proviamo a immaginare, dopo l’uccisione ad Aleppo del portavoce del Califfato Al Adnani, che venga aperto un Ufficio propaganda anti-Isis. Perché sarebbe pericolosamente illusorio pensare che la morte di uno dei leader dell’organizzazione ma anche il suo arretramento territoriale e un’eventuale sconfitta possano costituire la fine di un’ideologia jihadista che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, all’Africa, fino a entrare mortalmente dentro l’Europa.
Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da Al Qaida, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Osama Bin Laden ad Abbottabad in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001. Al Qaida non solo si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia sub-saheliana e in Siria ha dato vita al fronte Jabath al Nusra - serbatoio di combattenti per lo stesso Califfato - sostenuto da turchi e sauditi, che adesso si sta riciclando per uscire dalla lista nera dei gruppi terroristi ed essere utilizzato dagli Usa in chiave anti-iraniana e anti-russa. 
Quando si parla di propaganda anti-jihadista bisogna sempre ricordare che una delle origini di questa storia è stata proprio la strumentalizzazione dei militanti islamici iniziata nel 1979 quanto l’ex Urss invase l’Afghanistan. Gli eroi di ieri, i mujaheddin afghani che sconfissero allora l’“Impero del male”, sono diventati i “barbari” di oggi, pronti adesso, almeno in parte, a entrare in un nuovo programma di candeggio nella lavatrice della geopolitica come qaidisti “buoni”, quelli che servono e sono alleati dei nostri partner economici. Anche questo significa la battaglia di Aleppo, la “dottrina Erdogan” per far fuori l’Isis ma soprattutto i curdi, le ambigue posture americane e della Russia di Putin. Non meravigliamoci troppo se il jihadismo potrà sopravvivere alla disfatta dell’Isis. Tutto dovrebbe essere materia di comunicazione per un onesto Ufficio propaganda anti-Isis. L’Isis si è autoproclamato Stato Islamico perché afferma di imitare la prima comunità musulmana che propagò la nuova religione fondata dal Profeta Maometto con una serie di straordinari successi militari. 
I seguaci dell’Isis dicono di volere ricostituire quella comunità originaria così come essi la immaginano: unita nella rigorosa obbedienza a un Califfo, intollerante della diversità delle altre religioni, oppressiva nella repressione di cristiani ed ebrei, spietata nello sterminio di presunti idolatri come gli yezidi, nemica delle correnti non sunnite, dagli sciiti a gli alauiti siriani. 
In realtà l’Isis è ignoranza. Se si risale alle origini si comprende subito che la versione di un islam unitario contraddice gli eventi. I suoi seguaci si ingannano sulla storia dell’islam che faceva molti più compromessi con le altre religioni e stili di vita differenti di quanto non si voglia ammettere, come dimostra il recente, “Regni dimenticati” di Gerard Russell (Adelphi) sulle religioni minacciate del Medio Oriente. I militanti dell’Isis sottolineano che i primi musulmani diffusero l’islam con la forza ma si dimenticano che questa espansione fu fondata su ben altro che la violenza. Nell’epoca d’oro i sovrani musulmani fecero largo uso del sapere e delle competenze delle comunità religiose sottoposte al loro dominio. I periodi di intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza.
La storia si è ripetuta ai nostri giorni. Con la crisi negli ultimi tre decenni degli stati nazione usciti dalla decolonizzazione – Iraq, Siria, Egitto, Libia, scivolati verso fallimentari autocrazie – si sono fatti strada il fanatismo religioso, il declino culturale e la barbarie. Gli interventi occidentali hanno reso questo processo di disgregazione ancora più disastroso come è avvento in Iraq dopo il 2003: nel 1987, in era pre-sanzioni, i cristiani erano l’8% della popolazione ora sono meno dell’uno per cento. L’Isis è l’apice di questa involuzione. Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha voluto cancellare la memoria anche dei califfi più tolleranti, oltre che del passato pre-islamico di questi popoli, si è accanito su Palmira, sulle mura di Ninive, su qualunque monumento sembrasse non ortodosso, comprese le moschee sciite, bersaglio dei kamikaze. 
Allo stesso tempo si è scatenato in Europa, addestrando direttamente alcuni degli attentatori, in altri casi ispirando i lupi solitari o dei veri idioti dell’orrore che nel “format” dell’Isis inventato da al-Adnani – basta agire, senza neppure rivendicare o essere militanti – ha dato un senso a vite fallimentari. Più che una versione “pura” dell’Islam, i jihadisti forniscono un franchising, che in Europa dà un etichetta al malessere individuale e di gruppo e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento. Per utilizzare le parole di Olivier Roy, uno dei massimi studiosi del fenomeno, si tratta di un’islamizzazione dell’antagonismo piuttosto che una radicalizzazione dell’islam storico. Il jihadismo galleggia anche sui nostri vuoti di senso.
Il messaggio principale dell’Ufficio propaganda anti-Isis è questo: che minoranze militanti e violente non possono prevalere sulla maggioranza dei musulmani (1,5 miliardi), le vittime principali del terrore e dell’estremismo. Questa non è una sfumatura. Molti pensano che gli estremisti rappresentino la totalità dell’islam oppure che le loro tesi sono tollerate, non condannate e quindi accettate da gran parte dei musulmani. Sappiamo bene che non è così, l’Ufficio propaganda avrà molto da fare per correggere i luoghi comuni, per dare un’interpretazione corretta della storia e non strumentale dell’islam oggi percepito, inutile nasconderlo, come una minaccia globale.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: Pagina Facebook dell'Autore 

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