di Nadia Urbinati
Non c’è scampo alla retorica della purezza in politica: funziona fino a quando chi la brandisce non amministra. Si tratta di una logica polemica, adatta a chi sta all’opposizione. Il problema è che quando un movimento di questo tipo si candida al governo della cosa pubblica, si espone fatalmente a subire gli effetti della retorica dei puri. Nella dimostrazione di impotenza che sta dando il Movimento 5 Stelle con il tentativo di formare una giunta nella Capitale vi è forse la prova più inequivocabile della logica aberrante e distruttiva cresciuta dalla macerie di Tangentopoli, sulla quale ha preso forma il movimento di Beppe Grillo: quella che identifica il buon governo con la purezza della coscienza morale, che crea un’alternativa tra “trasparenza”e “competenza”.
Lo scriveva molto bene Massimo Giannini in chiusura della sua analisi, due giorni fa: il «motto “meglio inesperti che disonesti”, per quanto rassicurante, non può più bastare».
Non solo non può bastare, ma è suicida; assurdo, sbagliato alla radice. Si sorregge sull’idea che la capacità politica sia diabolica e corrotta. Che l’ingenuità sia miglior divisa della prudenza; che anzi, a ben guardare, non ci sia nulla che si possa a ragion veduta chiamare “competenza politica”.
La competenza sarebbe infatti solo di un tipo: quella che si misura nei campi professionali, frutto di conoscenze tecniche e di valutazioni oggettive. Su queste premesse impolitiche ha preso corpo il metodo del M5S di raccogliere i curriculum vitae per scegliere candidati politici e amministratori. Come se essere un buon professionista sia lo stesso che essere un buon attore politico. Questa è l’idea di buon governo coltivata dall’antipolitico Movimento Cinque Stelle.
Il Movimento sta annaspando e, diciamo pure, rischiando di fallire la sfida per il governo di Roma (una sfida che, certo, è il frutto di decenni di cattivo governo e di illegalità di cui i cinquestelle non sono responsabili). Rischia di fallire a causa del suo rifiuto della politica e della forma partito come organizzazione moderna e, vivaddio, democratica della politica. Che ci siano stati e ci siano partiti e politici corrotti non vale a liquidare partiti e attori politici. La patologia non squalifica la fisiologia. Da qui i pentastellati dovrebbero procedere se vogliono far sì che il loro progetto di buon governo di Roma non fallisca e che l’appello alla trasparenza sia efficace.
La “trasparenza” nell’agire pubblico è definita da leggi e norme etiche condivise che danno certezza di conoscenza. Un gruppo politico ha alcuni obiettivi che tutti devono essere messi nella condizione di sapere se e come sono attuati; perché, per esempio, le persone preposte per la loro attuazione si sono ritirate.
Quali sono le ragioni dei dissensi. La trasparenza non nasce per magia da una serie di commenti pubblicati sulla pagina Facebook della sindaca, scriveva Giannini, e non coincide con «una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto». È il giudizio politico, la valutazione sulle ragioni di quelle dimissioni come di ogni altra scelta pubblica che fa di un documento un documento politico. La trasparenza non consiste nel dare conto del fatto “nudo e crudo”.
Se i giudizi politici sono annullati per non uscire dal tracciato secco e spoglio del fatto, se la burocratica comunicazione è identificata con la trasparenza, allora la capacità di scelta e di azione, e infine di giudizio politico degli attori è gravemente menomata. Il blog al posto del partito e il resoconto scarno al posto del giudizio politico: sono queste le strategie che decretano la fatale impotenza del M5S. Mesi fa avevamo parlato dell’insostenibilità pratica della retorica della purezza, un ideale di onestà come qualità della morale soggettiva non dell’etica pubblica. Oggi gli effetti di quella logica si mostrano nell’impasse in cui si trovano Raggi e i “suoi” amici o gli “altri”, i non “suoi”.
È fatale: se la politica per essere nobilitata si fa una succursale o del comportamento privato o di quello burocratico, l’esito sarà non la buona politica ma una guerra tra gruppi. È paradossale che per evitare il “compromesso” (svilito spesso ad inciucio) e per praticare la regola della professionalità tecnica i cinquestelle finiscano per dare corpo al peggio della corruzione in politica: la lotta tra fazioni. Mentre chi sta fuori non è messo nella condizione di sapere e capire.
Fonte: La Repubblica
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