di Álvaro García Linera
Vorrei riflettere su quello che sta succedendo nel continente. Non viviamo un buon momento. Non è nemmeno un momento terribile. Però assistiamo sicuramente a una fase di svolta storica. C’è chi ne parla come di un regresso, e di un’avanzata invece delle forze restauratrici. È vero che in questo ultimo anno, dopo dieci anni di lavoro intenso, di diffusione sul territorio dei governi progressisti e rivoluzionari, questo cammino si è fermato, in alcuni casi ha fatto passi indietro e in altri è in forse la sua stessa continuità. Compito di un rivoluzionario è analizzare freddamente la cosa, studiare il campo di battaglia, per dirla in termini militari, senza nascondersi nulla, perché è solo a partire da un’analisi lucida che si potranno trovare le forze reali, concrete per il progresso futuro.
Non c’è dubbio che siamo di fronte a una contrazione territoriale nell’avanzamento dei governi progressisti. Lì dove le forze conservatrici hanno trionfato, è in atto un accelerato processo di ricostituzione delle vecchie élite degli anni ’80 e ’90, le quali vogliono riprendere in mano il controllo della gestione dello Stato. A livello culturale c’è il tentativo sfrontato, da parte dei mezzi di comunicazione, delle Ong, degli intellettuali organici della destra, di sminuire, di mettere in dubbio, di porre in discussione l’idea e il progetto di cambiamento e di rivoluzione.
Tutti insieme rivolgono il loro attacco a quello che possiamo considerare come il decennio virtuoso dell’America latina. Da oltre dieci anni il continente ha vissuto, in modi diversi e plurali, quali più quali meno radicali, ma tutti orientati verso la stessa direzione, gli anni di maggiore autonomia e costruzione di sovranità che sia dato ricordare dalla fondazione degli Stati nel XIX secolo.
Quattro cose che hanno caratterizzato il decennio virtuoso dell’America latina
Per prima cosa l’ambito politico: l’ascesa del sociale e delle forze popolari nell’assunzione del controllo del potere dello Stato. Il vecchio dibattito teorico del principio del secolo, se cioè sia possibile cambiare il mondo senza prendere il potere, è superato nella pratica dalla presa in carico del controllo dello Stato da parte dei settori popolari. Questi si trasformano in deputati, parlamentari, senatori, assumono una funzione pubblica, si mobilitano, fanno retrocedere le politiche neoliberiste, prendono su di sé la gestione dello Stato, modificano le politiche pubbliche, modificano i bilanci, e in dieci anni assistiamo a quel che potremmo definire la presenza dell’elemento popolare, dell’elemento plebeo, di svariate classi sociali, nella gestione dello Stato.
Assistiamo parimenti, in questo decennio, a un rafforzamento della società civile: crescono nei più diversi ambiti, ciascuno con la propria ricchezza, i sindacati, le organizzazioni di categoria, i rappresentanti delle realtà locali e dei quartieri, gli studenti e le associazioni. Si squarciano le tenebre della notte neoliberista fatte di apatia e di finta democrazia, una potente società civile si costituisce per far fronte, congiuntamente ai nuovi Stati latino-americani, ai compiti dell’oggi.
In ambito sociale, stiamo assistendo a una vigorosa redistribuzione della ricchezza. In contro-tendenza rispetto alle politiche di estrema concentrazione della ricchezza che avevano fatto del continente latinoamericano uno dei più ingiusti del mondo, a partire dagli anni 2000 sotto la guida dei governi progressisti e rivoluzionari abbiamo assistito a un fenomenale processo di ridistribuzione della ricchezza. È una dinamica che sta conducendo all’ampliamento delle classi medie, non nel senso sociologico del termine bensì nel senso della loro capacità di consumo. In questo modo l’America latina sta portando avanti la limitazione delle disuguaglianze sociali, come mai era stato possibile nei cento anni precedenti.
In campo economico, con maggiore o minore intensità, ciascun governo degli Stati sta sperimentando proposte post-neoliberiste nella gestione dell’economia. Non sono ancora proposte socialiste, stiamo parlando di proposte post-neoliberiste che consentano allo Stato di riappropriarsi in maniera determinata del proprio ruolo di protagonista.
Riguardo alla politica estera si sta realizzando quella che potremmo definire informalmente un’internazionale progressista e rivoluzionaria a livello continentale. Lula, Kirchner, Correa, Evo e Chavez hanno costituito quello che si potrebbe definire una specie di comitato centrale di un’internazionale latino-americana che consentirà passi giganteschi in direzione della nostra piena indipendenza, e farà sorgere un’integrazione propria dei latinamericani, senza gli Stati uniti, senza la necessità di tutele né di padrini.
Tuttavia bisogna guardare in faccia la realtà e riconoscere che, negli ultimi mesi, questo processo di diffusione e di espansione territoriale dei governi progressisti e rivoluzionari è andato scemando. C’è un ritorno dei settori di destra, in Paesi importantissimi e decisivi del continente, con il pericolo che, in altri Paesi ancora, la destra riprenda il controllo. È importante che ci chiediamo il perché.
È evidente che la destra sempre tenterà di sabotare i processi progressisti. Per loro si tratta, oltreché che di sopravvivenza politica, di una questione legata alla lotta per l’appropriazione delle eccedenze economiche. Ma è anche importante che riflettiamo sulle cose che noi non abbiamo fatto bene, che riconosciamo quei limiti che hanno permesso, o potrebbero permettere, che la destra riprenda l’iniziativa.
Io evidenzierei cinque problemi che si sono presentati durante il decennio virtuoso.
Una prima criticità è rappresentata dalle contraddizioni nell’ambito del quadro economico. Mi pare che abbiamo dato poca importanza alla questione dell’economia all’interno dei processi rivoluzionari. Quando si è all’opposizione non si gestisce nulla. Si lancia un progetto di Paese, si diffonde una proposta, ma non si gestisce alcunché. Chi è all’opposizione lancia un appello al popolo in termini di proposte, iniziative e suggerimenti. Ma quando ci si fa Stato, l’economia acquisisce un’importanza decisiva. E non sempre i governi progressisti hanno compreso l’importanza decisiva che l’economia riveste nella gestione di governo. È lì dove ci giochiamo il nostro destino. Se non vengono soddisfatti certi requisiti di base, ogni discorso è a zero. Il discorso dovrà essere molto positivo, può creare aspettative collettive positive, ma sulla base materiale della soddisfazione minima di condizioni necessarie. In mancanza di ciò ogni discorso, per quante speranze possa creare, svanisce al cospetto della base economica.
Una seconda criticità. Alcuni governi rivoluzionari hanno adottato misure che hanno pregiudicato il blocco rivoluzionario e dato più forza al blocco conservatore. È vero che un governo deve governare per tutti, è la ragion d’essere dello Stato. Ma governare per tutti non significa consegnare tutte le risorse o prendere decisioni tali che, pur di soddisfare tutti, debilitano la base sociale dalla quale nasci, quella che ti sostiene, quella composta dai soli che, alla fine dei conti, scenderanno in strada per appoggiarti nei momenti di difficoltà. Come sciogliere questa contraddizione? Bisogna governare per tutti, avere riguardo per tutti, ma in primo luogo, ora e per sempre (come dice la Chiesa cattolica), individuando un’opzione preferenziale e prioritaria a favore dei lavoratori, dei cittadini, dei contadini. Non possiamo contemplare nessun tipo di politica economica che lasci ai margini le masse popolari. Se facciamo una cosa del genere, magari nel tentativo di neutralizzare la destra o di conquistare il suo appoggio, commettiamo un errore, perché la destra non è mai leale.
I governi progressisti e rivoluzionari hanno rappresentato, con un grado di maggiore o minore radicalità a seconda dei Paesi presi in considerazione, una crescita nel potere di lavoratori, contadini, operai, donne, giovani. Ma ha vita corta quel potere politico che non sia accompagnato dal potere economico dei settori popolari, poiché ci troveremmo di fronte alla solita contraddizione irresolubile: il potere politico in mano ai lavoratori, il potere economico in mano degli imprenditori o dello Stato.
Questo secondo problema che stiamo analizzando ha il volto della ridistribuzione della ricchezza in assenza di socializzazione della politica. La maggior parte delle misure che abbiamo adottato hanno favorito le classi subalterne. C’è un’espansione della classe media e della capacità di consumo dei lavoratori, unita a un maggior riconoscimento dei diritti irrinunciabili. Ma tutto ciò è avvenuto senza la necessaria socializzazione della politica, senza la conquista del senso comune. Avremo creato una nuova classe media, con capacità di consumo ma portatrice del vecchio senso comune di impronta conservatrice.
Non c’è vera rivoluzione, non c’è consolidamento del processo rivoluzionario se manca una profonda rivoluzione culturale. E in questo siamo indietro: non abbiamo sottratto alla destra l’iniziativa, essa ancora controlla università e fondazioni, case editrici, reti sociali, pubblicazioni, che fanno l’insieme dei meccanismi contemporanei di costruzione del senso comune.
Il terzo problema risiede in una debole riforma morale. È evidente che la corruzione corrode la società. I neoliberisti sono l’esempio di una corruzione istituzionalizzata, nel momento in cui hanno legato mani e piedi la cosa pubblica per farne una cosa privata. Le privatizzazioni sono state l’esempio più scandaloso, più immorale di corruzione generalizzata. Abbiamo lottato contro tutto questo, ma non basta. Non è stato sufficiente. È importante che, così come diamo l’esempio nel restituire la res publica, le risorse pubbliche, i beni pubblici in quanto beni di tutti, al tempo stesso sul piano personale e individuale ogni compagno deve aver cura di non abbandonare mai l’umiltà, la semplicità, l’austerità e la trasparenza.
Un quarto elemento, che non definirei di debolezza, è legato alla continuità della leadership nei regimi democratici. Quando trionfa una rivoluzione armata, la cosa è facile, perché la rivoluzione riesce a farla finita, quasi fisicamente, con i settori conservatori. Ma nelle rivoluzioni democratiche si deve convivere con l’avversario. Lo hai sconfitto sul piano del discorso, elettoralmente, politicamente, moralmente, però continua a essere il tuo avversario. È la democrazia. E le Costituzioni fissano dei limiti per l’elezione degli incarichi apicali. Come si risolve la questione della continuità della leadership? Si dirà: per vocazione populisti e socialisti seguono dei caudillos. Ma ogni vera rivoluzione esprime lo spirito dell’epoca e se ci affidassimo completamente alle istituzioni, non potremmo parlare di rivoluzione. Nessuna rivoluzione palpita nelle istituzioni. Probabilmente non c’è vera rivoluzione senza leader né caudillos, dove un ruolo importante è giocato dalla soggettività delle persone. Ma il problema è come garantire continuità al processo, tenendo conto che ci sono dei limiti costituzionali per un leader. Questa è una grande discussione, non facile da dirimere. Io non ho la risposta. Risiede forse lì l’importanza delle leadership collettive, di lavorare su leadership collettive, che permettano la continuità dei processi in ambito democratico. Ma a volte neanche questo è sufficiente.
Infine, una quinta debolezza è data dalla fragile integrazione economica continentale. Abbiamo avanzato molto bene quanto a integrazione politica, ma l’integrazione economica è molto più difficile. Perché ogni governo quello che vede è il suo spazio geografico, la sua economia, il suo mercato, e quando dobbiamo leggere gli altri mercati ecco che sorgono dei limiti. Uno parla, ma quando si deve vedere la bilancia dei pagamenti, gli investimenti, la tecnologia, le cose rallentano. Questa è la grande questione. Sono un sostenitore dell’idea che l’America latina potrà diventare padrona del suo destino nel XXI secolo solo se riesce a costituirsi in una specie di Stato continentale, multinazionale, che rispetti la struttura nazionale degli Stati, ma che al tempo stesso, accanto al rispetto delle strutture locali e nazionali, abbia un secondo livello di ordine finanziario, economico, culturale, politico e commerciale.
La destra vuole riprendere l’iniziativa. E in alcune situazioni ci è riuscita approfittando di alcune di queste debolezze. Non dobbiamo spaventarci, non dobbiamo essere pessimisti di fronte al futuro. Marx, nel 1848, quando analizzava i processi rivoluzionari, sempre parlava della rivoluzione come di un processo a ondate. Non ha mai pensato alla rivoluzione come un processo lineare verso l’alto. Un’ondata, un’altra ondata, e la seconda ondata avanza più in là della prima, e la terza più in là della seconda. Voglio pensare che siamo di fronte alla fine della prima ondata. E sta arrivando il riflusso. Ci vorranno settimane, ci vorranno mesi, ci vorranno anni, ma è chiaro che, visto che si tratta di un processo, ci sarà una seconda ondata, e quello che dobbiamo fare è prepararci, dibattendo su ciò che abbiamo fatto male nella prima ondata, in cosa abbiamo sbagliato, dove abbiamo commesso errori, che cosa mancava da fare, in modo che, quando arriva la seconda ondata, e prima è meglio sarà, i processi rivoluzionari continentali possano arrivare molto più in là, molto più in alto di quanto abbiano fatto nella prima ondata.
Ci toccano tempi difficili, ma per un rivoluzionario i tempi difficili sono pane per i suoi denti. Viviamo di questo, dei tempi difficili, di questo ci nutriamo. Il decennio d’oro del continente non è stato gratis. È stata la lotta dal basso che ha dato luogo al ciclo rivoluzionario. Non è caduta dal cielo questa prima ondata. Portiamo nel corpo le cicatrici e le ferite delle lotte degli anni Ottanta e Novanta. E se oggi, sia pure temporaneamente, dobbiamo tornare a quelle lotte, ben vengano. Per questo si è rivoluzionari.
Lottare, vincere, cadere, rialzarsi, lottare, vincere, cadere, rialzarsi. Fino all’ultimo dei nostri giorni, questo è il nostro destino.
Articolo originale su Revista Indipendentias
Traduzione di Luciano Marasca
Fonte: Rifondazione Comunista
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