Territori, grandi opere, energia
Sono gli avvenimenti di questi giorni, con il terremoto del centro Italia, definito come quello de L’Aquila “una grande occasione di crescita economica” dal ministro Delrio, a riportare drammaticamente l’attenzione su una questione complessa e drammatica. Lo sviluppo energetico, edilizio, infrastrutturale, industriale dei territori è sempre più un terreno di conflitto che vede gli interessi collettivi delle comunità nella loro stratificazione geografica e sociale contrapporsi agli interessi della rendita e del profitto.
Con la trasformazione del nostro sistema produttivo, città e territori rurali divengono l’estensione reale dell’apparato produttivo, il luogo in cui si fondono produzione e riproduzione sociale, le direttrici su cui fluttuano le merci, le nuove frontiere di accumulazione del capitale, i centri di concentrazione finanziaria, ma anche lo spazio della vita sociale laddove emerge la contraddizione della vita in comune in contesti dove dominano la proprietà privata, le servitù militari e il degrado.
Con la trasformazione del nostro sistema produttivo, città e territori rurali divengono l’estensione reale dell’apparato produttivo, il luogo in cui si fondono produzione e riproduzione sociale, le direttrici su cui fluttuano le merci, le nuove frontiere di accumulazione del capitale, i centri di concentrazione finanziaria, ma anche lo spazio della vita sociale laddove emerge la contraddizione della vita in comune in contesti dove dominano la proprietà privata, le servitù militari e il degrado.
Nei termini dei poteri dominanti, tale conflitto è stato il terreno principale su cui dispiegare nuove frontiere di accumulazione estrattiva. Secondo una logica priva di alcuna pianificazione si aprono qua e là cantieri, si bandiscono appalti, si aggrediscono i territori: è la logica delle grandi opere che vede lo Stato, i poteri finanziari, le mafie e blocchi imprenditoriali di tipo speculativo alleati nel saccheggio delle risorse pubbliche e nella frantumazione degli interessi delle comunità che abitano i territori. Il Tav in Valsusa, il ponte sullo stretto, la Salerno-Reggio Calabria, il Tap in Puglia, Ombrina Mare, Expo, il Muos, Bagnoli, il Mose, le New Town a L’Aquila, l’inceneritore di Acerra : non si contano i progetti, incompiuti o compiuti tra scandali e disastri, su cui si è concentrata di volta in volta la propaganda governativa, e su cui si è accanita la macchina del dispositivo emergenziale tra commissariamenti, leggi speciali, zone di interesse nazionale.
Il governo Renzi ha concentrato la sua offensiva su questo piano attraverso diversi provvedimenti: il più importante è contenuto nella legge Sblocca-Italia che rappresenta la [non]strategia attraverso cui l’esecutivo ha tentato di accreditarsi con i poteri forti come capace di “far ripartire la crescita”, portando l’offensiva alla salute, alla sicurezza, alla qualità della vita, ai modelli di sviluppo dei territori, senza peraltro preoccuparsi minimamente a mettere mano ai disastri che decenni di sviluppo industriale statalista hanno prodotto, specialmente nei territori economicamente depressi del meridione, e riproponendo investimenti su un tipo di sviluppo energetico legato allo sfruttamento dei combustibili fossili, laddove tecnologie, contesti ambientali e sociali, e tendenze globali suggerirebbero un deciso passaggio alle fonti rinnovabili e a basso impatto ambientale.
Nel frattempo sui nostri territori si continua a morire per la nocività di insediamenti industriali, discariche, inceneritori, antenne; interi paesi vengono giù per il dissesto idrogeologico tra frane, esondazioni e allagamenti; edifici pubblici e privati crollano come cartone ad ogni evento sismico di una certa importanza che con una certa regolarità colpiscono molte zone del paese a rischio, e tuttavia prive di piani di evacuazione o di messa in sicurezza.
È sotto gli occhi di tutti quanto siano strategiche oggi questioni come la giustizia ambientale e climatica, che equivale a giustizia sociale, lo sviluppo energetico. Sicurezza in termini sociali, salute pubblica, qualità della vita, interesse pubblico, vengono messi sotto scacco dalla militarizzazione, dalla devastazione ambientale, dalla distruzione dei servizi pubblici, e dalla speculazione privata. Da Nord a Sud sono state ancora una volta le lotte, nella loro dimensione comunitaria, a fare luce su tale contraddizione, a sperimentare punti di resistenza, a sviluppare saperi, competenze, modelli in grado di disegnare dal basso un’alternativa ad un modello di sviluppo fallimentare, criminale e insostenibile, quale sempre più si presenta il capitalismo.
Attorno a queste lotte è necessario oggi rimettere all’ordine del giorno la capacità di costruire fronti comuni, di sfidare la logica criminale e parassitaria della shock economy, di governi e potentati finanziari, di ricostruire un’idea di comunità, di autogoverno e di capacità di pianificazione dal basso dello sviluppo dei territori a partire dai bisogni dei settori sociali che oggi pagano le conseguenze dello “sviluppo capitalistico” della crisi.
Per rafforzare le lotte, sviluppare un coordinamento e una capacità di contrattacco dentro un orizzonte comune all’economia del disastro, alla speculazione, alle servitù militari e alla logica delle Grandi Opere.
Case e diritto all’Abitare
Alle porte di una nuova stagione di lotta, il tema del diritto alla casa risulta sempre più centrale nelle dinamiche politiche e economiche dei nostri territori. L’emergenza abitativa continua a crescere, a fronte dell’assoluta mancanza di una progettualità in grado di dare risposte concrete. Il Governo tende a risolvere il problema in termini di ordine pubblico e militarizzazione, portando avanti un tentativo di emarginazione dei movimenti, che va dall’art. 5 del Piano Casa ai continui provvediementi di sgombero eseguiti nei Comuni piddini e non solo. Il tema dell’edilizia pubblica, delle infrastruttue, degli sfratti e delle risorse a disposizione viene trattato in termini di speculazione, profitto e repressione nei confronti di chi prova a tracciare un percorso alternativo, dal basso, in grado di dare una prospettiva reale di superamento dei vecchi meccanismi di gestione del diritto alla casa. Le dichiarazioni del ministro Delrio riguardo alla possibilità di trasfromare la tragedia del terremoto in un’occasione di crescita (sic!) sono solo un esempio di come funzione la Schok economy e più in particolare di come la speculazione edilizia (palazzinari, banche e istituzioni) calpesti i nostri diritti quotidianamente. In uno dei paesi con il rischio sismico tra i più alti del mondo, i piani di sicurezza e di evaquazione sono inadeguati e il controllo sul rispetto delle norme antisismiche è completamente assente, tanto da contare più di 300 vittime e interi paesi rasi al suolo per una scossa di intensità media. Lo scenario che si mostra ai nostri occhi ci impone di alzare il livello della sfida, sia su scala territoriale che su scala nazionale. Per il primo aspetto è evidente l’esigenza di aumentare il lavoro di aggregazione e connessione all’interno dei quartieri, dove i servizi pubblici sono sempre più carenti e il rischio di cadere in meccanismi di isolamento e diffidenza ,che alimentano la guerra tra poveri, è sempre più alto. L’obiettivo comune deve essere quello di aumentare il livello del conflitto nell’ambito di tutti i settori del diritto all’abitare, allargando il fronte di lotta alle altre realtà territoriali di movimento che danno voce alle istanze più generali (salute, reddito, servizi) e creando reti di mutualismo attraverso gli strumenti che da anni stiamo sperimentando per intercettare e organizzare i bisogni collettivi.
Una prima risposta può essere vista nella possibilità di declinare questa esigenza tentando di coordinare i vari sportelli esistenti in tutti i territori in cui agiamo (casa, migranti, antiviolenza, camere del lavoro autonomo e precario, caf), mirando a creare non solo una rete di mutualismo ,che già da tempo vive una sua sperimentazione se pur non diffusa in tutte le città, ma un vero e proprio meccanismo di sindacalizzazione metropolitana che possa dare le basi a una nuova prospettiva, alternativa ai modelli di governance e di gestione delle emergenze che ci vengono imposti, nella cornice di un sentimento diffuso di rifiuto delle istituzioni nostrane ed europee accompagnato non dal semplice qualunquismo, ma da una volonta di partecipazione diretta e di superamento della vecchia democrazia rappresentativa. Dal punto di vista nazionale, invece, non possiamo ignorare l’importanza che ha assunto la scadenza referendaria nella bilancia dei poteri e, allo stesso tempo, il rischio che una difesa della costituzione così com’è si risolva in un’operazione reazionaria e pericolosa. Il nostro “no” non è lo stesso di molti altri che proveranno ad accreditarsi nel dibattito sul referendum e per questo dobbiamo assumerci come movimenti per il diritto alla casa la responsabilità di trasfromare il fronte del no in un fronte di lotta, in una possibilità concreta di far cadere questo governo e di rompere i piani di controllo dell’UE. La traccia di ispirazione dell’ultima assemblea a Venaus è stata l’esigenza di andare oltre la battaglia referendaria e costruire una prospettiva comune che non si limiti a 2 o 3 date nazionali su cui esaurire tutte le energie. Il tavolo sul diritto alla casa proverà ad andare in questa direzione, abbandonando lo scadenzismo al quale i movimenti sono abituati, approfondendo i temi, costruendo prospettive comuni che si declinino in un calendario di lotte di lungo periodo.
Neomunicipalismo, beni comuni e nuove istituzioni
La formula democratica, malgrado la retorica del suo trionfo, si è oramai ridotta ad un contenuto minimo e procedurale: un metodo decisionale in cui la designazione dei rappresentanti avviene sulla base di un mandato di pura visibilità, dove invece le scelte dirimenti traslocano in sedi di interesse opache e non formalizzate. Una simile visione pretende di svuotare la politica della sua tensione ideale; rendendola tecnica del buon governo dello stato di cose presenti; la epura del conflitto che è la sua essenza, dell’effettività della protezione dei diritti di chi non ha voce, senza una partecipazione costante alla scelta pubblica. La parola democrazia è vuota senza un processo di partecipazione che coinvolga in forme sempre più dirette strati sempre più ampi di popolazione: la lotta contro le oligarchie, economiche, politiche e di censo è una delle ragioni costituenti della nostra identità politica ed incontra nel tema della decisionalità nello spazio municipale una valida opportunità per esprimersi oltre i recinti in cui i movimenti sociali sono stati confinati dalla catena del comando del capitalismo finanziario europeo.
Parlare di neomunicipalismo significa, dunque, agire interessi di classe in ambiti di questa società che si sono performati secondo il disegno neoliberale. È l’occasione di aprire spazi di possibilità decisionali nuove, in cui numeri di persone ben più larghi di quelli già sensibilizzati e mobilitati possano essere messe nelle condizioni, temporali e dialettiche, di partecipare e decidere sull’uso e il governo delle risorse comuni, rimettendone in discussione la logica più profonda. Per farlo dobbiamo discutere di cosa significa andare oltre le forme tradizionali delle organizzazioni, e questo riguarda anche quelle di movimento. Significa anche ripensare i rapporti con le istituzioni: fuori dagli schemi del dentro/fuori dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di dettare l’agenda politica nel tempo del vuoto della politica, attraversando laicamente le fasi senza pregiudizi e senza arrivismi.
Per innescare un processo nuovo dobbiamo riappropriarci, in forme inedite, anche di strumenti che sono stati svuotati di senso dalla rappresentanza tradizionale: dai referendum (locali e nazionali) alle delibere dei comuni che dobbiamo essere capaci di pensare e scrivere senza mediazioni istituzionali. Ragioneremo sul significato che hanno assunto i beni comuni che dopo una lunga stagione di evocazione nelle formule più interessanti si sono sviluppate sui territori attraverso forme di autogoverno di luoghi abbandonati e liberati attraverso la riappropriazione diretta. Rifletteremo sia per estendere e arricchire modelli come l’uso civico e collettivo urbano sia per sperimentare sulla loro impronta agorà e assemblee di abitanti e gruppi di audit.
Occorre immaginarci nuove istituzioni molto diversamente dai neologismi istituzionali neoliberali che si nutrono di partecipazione addomesticata, dove la cittadinanza è chiamata a discutere e confrontarsi in dibattiti che funzionano solo nella teoria; noi vogliamo nuovi organi che costituiscano delle forme di vita pubblica, agite tanto dalla ragione che dalla passione, da competenze ed esperienze, in cui in modo semi-permanente la comunità eterogenea di un territorio possa riconoscere i volti e le parole di vicini che altrimenti, negli schemi di vita atomizzata o mediata solo dal mercato, non incontrerebbero mai. Vogliamo creare nuovi spazi in-comune di elaborazione politica vissuti continuamente e senza quei formalismi eccessivi che burocratizzano e distruggono le esperienze di democrazia partecipativa. La sfida che parte dalla nostra assemblea è invertire il senso del decisionismo autoritario prospettato dalla riforma costituzionale a cui ci opporremo con un nostro no al referendum confermativo non ancora convocato.
Un collegamento ideale che guarda alla Spagna ed in particolare alle esperienze di Barcellona e Madrid – con cui dialogheremo durante il dibattito – per costruire mobilitazioni che sappiano mettere in crisi il sistema tradizionale dei partiti. Occorre ragionare di tutto questo per riempire di contenuti e persone la rete delle città ribelli, formula politico organizzativa che non può essere ridotta ad un collegamento tra amministrazioni illuminate né uno slogan di coordinazione dei soggetti di movimento già attivi nelle condizioni dell’oggi. Questa fase presenta tutta le condizioni per tessere una trama di trasformazione dell’esistente, spazzando via in maniera definitiva i gruppi di interesse e di potere locale che hanno, nel corso degli ultimi anni, eseguito le decisioni della Troika, accrescendo piccoli personali profitti e divaricando le condizioni sociali delle classi subalterne. La rete delle città ribelli può essere un inedito spazio di organizzazione (mediante crescita e trasformazione) delle autonomie sociali che si sono sviluppate in questi anni di resistenza alla crisi sui territori del nostro paese, se articoliamo un processo concreto di superamento dei recinti identitari, di messa in discussione delle forme di intervento, della capacità di azione, dei temi di intervento e dei linguaggi e degli strumenti di comunicazione. Per questo tavolo di lavoro, in cui siamo ben coscienti che si confrontano profondissime eterogeneità, vorremmo stimolare un ragionamento collettivo a partire da questi due temi che ci sembrano la chiave di fondo per la creazione di una trama e di un orizzonte comune:
-Come è possibile invadere il tema della decisione politica nei territori in cui agiamo?
-Come è possibile uscire dai nostri recinti per parlare a tanti e diversi e stimolare nuovi processi di partecipazione e azione diretta, aggredendo il tema della decisione politica?
Lavoro – Non Lavoro: tra sciopero e tema generazionale
La fase di crisi attuale continua a perdurare con particolare violenza, senza apparentemente nessuna via di scampo, attaccando trasversalmente tutti i settori sociali. L’Italia, come altri paesi europei, ha subito drastiche manovre per contenere la frizione economica che hanno colpito fortemente l’intero mondo del lavoro e non lavoro. Il livello di sfruttamento sul lavoro è aumentato esponenzialmente per compensare le perdite della crisi, assistiamo a forme di precarizzazione sempre più asfissianti, accanto a tassi di disoccupazione senza precedenti.
Ogni anno la quota dei lavoratori “garantiti” sul totale degli assunti va progressivamente restringendosi. Il riflesso di questa condizione, oltre ad un generale impoverimento della popolazione, è un costante restringimento dei diritti sul lavoro. Ampie fette della popolazione, in particolare quella giovanile, fanno parte di un esercito sempre più grande di figure in sindacalizzabili.
A quest’ulteriore compressione dei salari e dei diritti, non ha corrisposto in Italia un aumento della conflittualità su questo fronte, a differenza delle esplosioni di lotta che ci arrivano in particolare dalla Francia. Questo non vuol dire che questa conflittualità sia inesistente: osserviamo quotidianamente centinaia di vertenze sparse in tutta Italia nei settori più disparati che animano una radicalità diffusa in tutto il paese.
Lotte e vertenze ci raccontano quotidianamente di una composizione emergente, composta dalla schiera di lavoratori non garantiti: giovani, che intraprendono la strada verso un futuro di sfruttamento all’epoca degli stage, dell’alternanza scuola/lavoro esaltati al massimo dalla Buona Scuola e della precarizzazione di nuovi profili lavorativi; e/o immigrati, che non hanno mai conosciuto le garanzie sul lavoro della precedente generazione, ma che sono in grado di mettere in campo una consapevolezza diversa del proprio lavoro e della propria forza. Per tale motivo riteniamo fondamentale il radicamento nei tessuti sociali proletari e sottoproletari che attraverso vertenze di lungo periodo, si sta attuando.
Questi percorsi sono, però, spesso frammentati e isolati, anche a causa dell’assenza di un sindacato di massa realmente rappresentativo di queste istanze dal basso, alla luce del ruolo e della posizione assunta da tutto lo spettro del sindacalismo confederale.
In questo quadro è impossibile non citare l’altissima percentuale di disoccupazione (in particolare quella giovanile) che diventa sempre più una piaga generalizzata, ad oggi non più senza alcuna risposta, come dimostrano i nuovi e vivi movimenti che stanno nascendo in quest’ambito, affiancandosi ai percorsi storici già esistenti. Continuare a spingere su questo fronte significa individuare nel suo complesso il tipo di attacco, sempre più generalizzato, che il capitale ci pone contro. Si tratta quindi di ragionare complessivamente sui soggetti che realmente subiscono gli attacchi delle nuove riforme e tracciare delle connessioni tra di loro. Sembra quantomeno urgente che queste nuove (e vecchie) esperienze di lotta si mettano in contatto con settori di lavoratori occupati, per garantire quell’unità d’intenti che quotidianamente i padroni cercano di spezzare.
Questo non significa escludere lo strumento sindacale dal vocabolario della lotta, come dimostrano gli avanzamenti prodotti nel settore della logistica. E’ necessario immaginarsi nuove forme che si pongano a livello del conflitto attuale per intercettare questo mondo sempre più spezzettato e distante, in un’ottica di ricomposizione, organizzandosi territorialmente e intercategorialmente, ricercando l’unità dei lavoratori come stimolo e forza contro l’avversario.
La cornice propositiva di questo fronte di lotta, non potrà che essere quella della forma sciopero. Ancora oggi, nonostante grandi difficoltà, è questa l’arma che più fa male alla controparte e permette di ottenere reali passi avanti nel processo politico e nel miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
E’ centrale oggi discutere del tema e della forma dello sciopero, ricercando un fronte di lotta che possa unire e non isolare le vertenze nelle loro battaglie, per stabilizzarsi in un orizzonte prospettico di una conflittualità rivolta globalmente verso il fautore di queste politiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che oggi poggia su di un malessere sociale ormai dilagante ma privo di consapevolezza.
In quest’ottica è necessario guardare e confrontarsi con le spinte transazionali che partono proprio dalle ultime lotte francesi. Ricollegare la questione dei diktat sul lavoro a delle manovre organizzate su basi europee ci impone immediatamente la necessità di confrontarci su questo piano, tessere i fili del discorso sul lavoro necessariamente oltre i confini italiani.
Comunicazione
In questo tavolo cercheremo di comunicare e trasmettere l’importanza della comunicazione applicata alla traduzione dei nostri messaggi socio politici.
In un mondo ormai totalmente social (facebook, twitter, whatsapp. telegram, snapchat, instagram e chi più ne ha più ne metta) dobbiamo imparare a stare al passo coi tempi e produrre una comunicazione socialmente accettabile e soprattutto comprensibile.
Un altro focus su cui volevamo soffermarci è il discorso delle piattaforme virtuali e organizzative: in poche parole quegli spazi virtuali che ci permetterebbero di fare meglio organizzazione per modi, tempi e stili.
Insomma chiediamo a tutti coloro che parteciperanno a questo tavolo di venire carichi di spunti e riflessioni per poi fare un ottimo lavoro di sintesi per permettere a tutti coloro i quali vorranno di organizzarsi meglio per la pubblicizzazione delle rispettive campagne cittadine e nazionali.
Abbiamo scritto un focus molto breve perchè pensiamo che anche la nostra discussione debba essere essenziale e fluida allo stesso tempo.
Formazione, modello d’Istruzione
Nell’ambito della due giorni napoletana del 3 e 4 settembre “Per un autunno delle città e delle esperienze ribelli”, riteniamo di centrale importanza una discussione di approfondimento sul mondo della formazione nel paese e sulle sue connessioni col processo neomunicipalista.
Nell’università, dopo il reflusso dei cicli di mobilitazione degli scorsi anni, viviamo un periodo di messa in discussione e rinnovamento delle forme classiche del fare politica. La fase ci consegna un’istituzione universitaria nella quale la spinta governativa per un’ulteriore torsione neoliberale sembra esaurita: le incertezze elettorali sembrano impedire al governo Renzi un’accelerazione su una nuova grossa riforma dell’università. Nonostante ciò, nello scorso anno, i tentativi di organizzare contrattacchi politici all’altezza della sfida sono risultati inconcludenti: ne è un esempio la condotta della vertenza sulle soglie Isee. Conseguentemente ci sembra necessario riprendere le fila di un confronto sui differenti stili di militanza che si danno nei differenti atenei, con le varie controparti individuate, le varie capacità di confliggere e le differenti relazioni con studenti e territori, per valutare eventuali modelli e linee guida. Ci interessa confrontare esperienze di riappropriazione, di comunicazione, di lotta per il welfare studentesco, di proposta culturale e autoformazione, di incisività nelle metropoli.
Con lo stallo del sindacalismo sociale-studentesco classico, a partire dall’esperienza napoletana e rifacendoci al modello francese, crediamo che la via più facilmente praticabile per creare dibattito, agitazione e mobilitazione nella componente universitaria sia rivolgersi ad essa come precari del paese e abitanti della città, con un forte dato generazionale. La scadenza referendaria ci permette pertanto l’acquisizione di un certo protagonismo, come evento cardine della lotta contro l’Europa della precarietà e della sottrazione di decisionalità ai territori. Ci interessa coordinare a livello nazionale le giornate di controinformazione e mobilitazione, con l’ambizione di tradurre il modello francese delle Nuit Debout in nostre notti della democrazia in avvicinamento al Referendum, da fine settembre al voto, per un No sociale e costituente.
Nel mondo della scuola, nonostante gli scioperi generali e le mobilitazioni dei docenti, si rende necessaria la ripresa della mobilitazione contro il processo di aziendalizzazione. La mobilità imposta ai docenti, lo strapotere dei presidi-manager, il rischio di influenze di privati nei piani di offerta formativa, rendono più urgente che mai la sinergia fra componente docente e studentesca. Contro i decreti attuativi della “Buona Scuola” resta aperto uno spazio di conflitto da praticare a partire dalla data del 7 Ottobre, quando scenderemo in piazza per il primo sciopero del mondo della formazione. Vogliamo interrogarci sulle pratiche di mobilitazione che gli studenti possono mettere in campo per costruire l’opposizione al governo centrale e ai governi regionali, contribuendo nel contempo al processo municipalista.
Per un mondo della cultura e della formazione adeguatamente finanziato, gratuito, che metta al centro i diritti, i bisogni e i desideri; contro un mondo della formazione che sia addestramento alla precarietà, imposizione forzata di mobilità, squilibrio fra Nord e Sud, contro criteri di merito e valutazione Invalsi e Anvur, decisi da Confindustria: ci sembra fondamentale la costruzione di una grande giornata di sciopero sociale a metà autunno e, in contemporanea al referendum, una giornata di presa delle piazze, qualunque sia l’esito, per mandare a casa il governo in caso di sua sconfitta o per ribadire che l’opposizione sociale resta pronta e ai suoi posti.
Confini
Nel corso degli ultimi anni l’immigrazione, nelle sue innumerevoli articolazioni, è diventata una delle protagoniste indiscusse del dibattito pubblico.
Tutto il territorio nazionale ed europeo è stato sempre di più investito da una “crisi migratoria”, con centinaia di migliaia di persone in fuga da territori saccheggiati e devastati dall’arrogante bisogno di profitto del mercato, e dagli scenari di guerra che nell’ultimo periodo si sono moltiplicati. La forza dei flussi migratori ha messo con le spalle al muro i governanti europei, che si sono visti costretti ad affrontare le conseguenze delle loro politiche di guerra, rapina e saccheggio.
Le risposte messe in campo negli ultimi mesi da chi governa confermano una volta di più come all’incontenibile domanda di libertà si oppongano “soluzioni” basate sulla repressione, attraverso misure che vanno dalla detenzione al respingimento. La drammaticità di queste misure è quotidianamente sotto i nostri occhi, dai muri in Macedonia e Ungheria fino ai rastrellamenti ai confini di Calais e Ventimiglia, smascherando la brutalità delle scelte politiche messe in campo.
Tutto ciò viene realizzato in Italia attraverso le leggi criminali che regolano la mobilità in ingresso – in Italia la Bossi-Fini (già Turco-Napolitano). Una fabbrica d’irregolarità, peraltro, che ci viene spacciata ipocritamente come una necessaria misura di sicurezza, quando in realtà la produzione di clandestini è destinata ad uso e consumo di chi, sul territorio europeo, ne sfrutta la manodopera a basso costo costringendo le persone in ingresso a una lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Territori di confine che oggi si frammentano e moltiplicano: attualmente il confine non è più soltanto una linea che divide gli stati sovrani, ma un dispositivo che crea marginalità, gerarchie e differenze, sui corpi di soggetti catalogati secondo i criteri della provenienza geografica, limitandone la capacità di muoversi, esercitare diritti e fruire di servizi.
Il tema dell’immigrazione rappresenta dunque un elemento politico centrale dal punto di vista del comando e della resistenza, così come dal punto di vista delle lotte. Alle frontiere europee esterne ed interne i migranti lottano per il diritto a muoversi liberamente e decidere sulle loro vite, rifiutando la condizione imposta di oggetti di assistenza e controllo. Sul lavoro, in Italia (e non solo) una forte componente immigrata ha aperto nuovi fronti rivendicativi, in virtù della posizione che occupano all’interno dei processi politico-economici.
In questo caso occuparsi di confini, così come di residenze, permessi di soggiorno, sistema dell’accoglienza, rifugiati, gangli e strumenti del potere per ricattare e immobilizzare le persone, diventa una via per la creazione di battaglie rivendicative e trasversali. E’ fondamentale, in quest’ottica, la messa in rete degli strumenti e delle forme di lotta di chi è attivo su questi piano, per provare a creare un fronte di lotta comune e attraversabile, nella costruzione di proposte e mobilitazioni collettive che vadano a colpire i meccanismi centrali di questa macchina di oppressione.
Questo testo è l'introduzione ai tavoli tematici per l'assemblea Nazionale delle città e delle esperienze ribelli svoltasi a Napoli gli scorsi 3 e 4 settembre
Fonte: massacriticanapoli.org
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.