di Sara Prestianni
Il coinvolgimento sempre più intenso dei Paesi di origine e di transito nel controllo dei flussi migratori verso l’Unione è ormai diventato il perno della dimensione esterna delle politiche di immigrazione e asilo, perseguito sia dall’Unione Europea sia dall’Italia, autonomamente e nel contesto europeo. L’intensificazione di questa dimensione è dimostrata dagli ingenti fondi che si è deciso di stanziare, corredando dunque gli impegni politici con precise strategie progettuali e di investimento. Tali fondi provengono principalmente dalle partite di bilancio dell’Unione destinate alla cooperazione internazionale e allo sviluppo, ufficializzando così la pericolosa condizionalità tra aiuti allo sviluppo e migrazione e la logica del “more for more”, peraltro con la quasi impossibilità di rintracciarne la reale provenienza e ancor più il reale utilizzo.
In questo contesto i fondi di aiuto allo sviluppo vengono deviati dai loro obiettivi tradizionali e strumentalizzati al duplice scopo di “aiutarli a casa loro” e di costringere gli Stati Africani a collaborare nel controllo delle loro frontiere e nella riammissione dei loro cittadini considerati indesiderati dagli Stati membri, attraverso la leva di nuovi fondi ed investimenti finanziari.
In questo contesto i fondi di aiuto allo sviluppo vengono deviati dai loro obiettivi tradizionali e strumentalizzati al duplice scopo di “aiutarli a casa loro” e di costringere gli Stati Africani a collaborare nel controllo delle loro frontiere e nella riammissione dei loro cittadini considerati indesiderati dagli Stati membri, attraverso la leva di nuovi fondi ed investimenti finanziari.
Questa logica si è formalizzata in occasione dell’incontro tra l’Unione europea e l’Unione africana (UA), tenutosi nel novembre 2015 a La Valletta durante il quale si è deciso di istituire un Fondo Europeo Fiduciario per l’Africa (EUTF); si è poi ulteriormente consolidata nel giugno 2016 con la creazione del nuovo Fondo Europeo per lo Sviluppo Sostenibile (EFSD) – ambiziosamente rinominato “Piano Junker per l’Africa” – che ha permesso l’introduzione del concetto di “compact”, basato su una combinazione di investimenti pubblici e privati, sostenuti dai fondi di garanzia europei nell’ambito di accordi di partenariato. Questi due strumenti economici – il Fondo Fiduciario e l’EFSD – hanno infatti permesso alle istituzioni europee di avere la liquidità per facilitare le trattative con i paesi di origine e transito dei migranti, strutturando la dimensione economica della relazione ed aprendo ad una logica di scambio che sembra dimenticare i diritti umani e la sorte di migliaia di persone nel continente africano. È nella istituzione dei “compact” che emerge il ruolo centrale dell’Italia che nell’aprile del 2016 avanza a livello europeo la proposta del Migration Compact. Questo porta infatti all’istituzione di un “Partnership Framework” del 6 giugno 2016 a cui seguiranno l’istituzione, da parte della Commissione Europea, dell’EFSD – e delle sue misure di garanzia nel 14 settembre 2016[1] – e la riunione del Consiglio del 20/21 ottobre.[2]
I fondi istituiti per alimentare le politiche d’esternalizzazione attingono al bilancio europeo, principalmente al Fondo europeo di sviluppo (FED), ma prevedono anche un contributo degli Stati Membri, che tuttavia ad oggi risulta esiguo, rappresentando solo una minima parte del contributo dell’Unione (nell’aprile del 2016 solo il 4,5% dell’ammontare totale dei Fondi Fiduciari).
Nella stessa logica di strumentalizzazione dei fondi allo sviluppo, l’Italia ha stanziato nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 dal budget preposto alla cooperazione internazionale, 200 milioni di Euro per “interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie”. Ancora una volta fondi allo sviluppo che servono al contrasto dell’immigrazione come esplicitamente dichiarato in una risposta ad una interrogazione parlamentare: “Il Fondo Africa consentirà di finanziare iniziative specificamente mirate al contrasto all’immigrazione irregolare: penso a equipaggiamenti, strumenti tecnici, programmi di formazione per le forze di sicurezza.” Principali beneficiari dei 200 milioni sono Niger, Libia e Tunisia.
Dopo lo stanziamento dei fondi, il 2 febbraio 2017 l’Italia firma un Memorandum con il governo libico di Al Sarraj senza che le Camere Italiane e Libiche lo abbiano ratificato, in flagrante violazione dell’art. 80 della Costituzione italiana che prevede la ratifica in caso di accordo che comporti un onere economico e un interesse politico. L’accordo prevede, riprendendo la base legale del Memorandum firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi, l’impegno della Libia nel controllo delle sue frontiere marittime e terrestri. Poco sembra importante al Governo Italiano che i centri di accoglienza citati nel testo sono di fatto centri di detenzione in mano alle milizie, che al salvataggio segua l’arresto arbitrario e che un accordo, fatto con solo una delle parti in un paese in conflitto civile, non può che aumentare la già profonda instabilità che vive oggi la Libia. Qualche settimana dopo si diffonde la notizia delle pressioni fatte dal nostro paese sulla Tunisia affinché prenda in carico 200 migranti a settimana tra quelli intercettati nel Canale di Sicilia e partiti dalle coste libiche. Nell’agosto del 2016 è con la dittatura di Al Bashir, in Sudan, che la polizia italiana firma un accordo principalmente incentrato nella formazione di personale di polizia e nella facilitazioni delle espulsioni. Dopo qualche settimana un volo carico di rifugiati del Darfour partirà da Torino alla volta di Khartoum.
Il rafforzarsi della logica di esternalizzazione come pilastro della politica italiana ed europea d’immigrazione pone una serie di problemi. Ha un gravissimo impatto sulla vita di migliaia di uomini donne e bambini, che sono così costretti a prendere rotte più pericolose o a restare bloccati ed essere espulsi in paesi dove subiscono trattamenti disumani e degradanti. La pericolosa interazione e interdipendenza tra le politiche di immigrazione, di sicurezza, di cooperazione allo sviluppo e economico-finanziarie dell’Unione Europea pone inoltre il tema della difficoltà della tracciabilità dei fondi e dell’opacità delle negoziazioni.
Fonte: sbilanciamoci.info
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