di Fabrizio Marcucci
Una rivoluzione la misuri dalla fine. Perché sì, una rivoluzione è sorretta da «un progetto generale». Ma procede per «piccole cose». Mentre le cose accadono non sai con precisione cosa la rivoluzione costruirà né cosa distruggerà. «Facevamo le piccole cose che potevamo fare, che però – non ci accorgevamo, o lo sapevamo in qualche modo confusamente – erano enormi! Stravolgevamo l’istituzione, la scardinavamo, l’importante era scardinare senza volerlo, senza progettarlo… Cioè, il progetto generale c’era, ma si procedeva dalle piccole cose», racconta uno psichiatra in una testimonianza pubblicata nella ricerca di Sabrina Flamini e Chiara Polcri sul movimento umbro di auto riforma. Quel movimento è stato protagonista della «più importante rivoluzione italiana».
Vale forse la pena di ricordarlo, in un paese in cui le rivoluzioni sono state quasi sempre soffocate; un paese in cui al solo scriverla o pronunciarla, quella parola, r i v o l u z i o n e, rischi di passare per spostato; rischi che il mouse del tuo lettore, appena la vede, cerchi il clic per uscire dalla pagina. Eppure la rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia è stata bellissima, esaltante e feconda. Lo dicono le parole di chi l’ha fatta. Lo dicono i risultati ottenuti. Lo dice la forza anche – anzi: soprattutto – pedagogica che il racconto di quel percorso conserva ancora oggi, in tempi di rivoluzioni al contrario.
Vale forse la pena di ricordarlo, in un paese in cui le rivoluzioni sono state quasi sempre soffocate; un paese in cui al solo scriverla o pronunciarla, quella parola, r i v o l u z i o n e, rischi di passare per spostato; rischi che il mouse del tuo lettore, appena la vede, cerchi il clic per uscire dalla pagina. Eppure la rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia è stata bellissima, esaltante e feconda. Lo dicono le parole di chi l’ha fatta. Lo dicono i risultati ottenuti. Lo dice la forza anche – anzi: soprattutto – pedagogica che il racconto di quel percorso conserva ancora oggi, in tempi di rivoluzioni al contrario.
Una rivoluzione è fatta di luci che illuminano dove sta il buio. Cambia l’alfabeto. Capovolge. Quella del movimento di auto riforma, o movimento anti istituzionale, o della psichiatria di comunità, o chiamatela come volete, ha fatto tutto questo, e forse anche di più. Ha acceso le luci spente dentro i manicomi. Ha imposto la parola apertura laddove comandava la chiusura. E ha cambiato l’alfabeto: i manicomi non esistono più. Una rivoluzione è fatta di donne e uomini che fanno cose. Le donne del sindacato umbro dei pensionati della Cgil (Spi) e la fondazione Angelo Celli hanno avuto il merito di riunire un buon numero di persone nella biblioteca “aperta” degli Armeni, a Perugia, che sono state per un paio d’ore a sentirsi raccontare quella rivoluzione da chi la fece o da chi l’ha studiata, e a riflettere su come oggi la rivoluzione vada al contrario (ma su questo ci torniamo dopo).
I luoghi che non ti aspetti
Già, ma perché Perugia? Già. Perché quando si pensa alla rivoluzione della salute mentale la testa va a Franco Basaglia e al nord est d’Italia dove lo psichiatra che dà il nome alla legge che bandì i manicomi operò. Ma un po’ più giù, nel cuore dell’Italia, il processo che portò alla chiusura di quell’istituzione disumanizzante che furono i manicomi cominciò più di dieci anni prima del 1978, l’anno del varo della legge 180 che di Basaglia porta il nome. Qui operarono altri nomi. Meno altisonanti per il grande pubblico rispetto a quello di Basaglia, ma altrettanto importanti. A Carlo Manuali, lo psichiatra che rivoluzionò la psichiatria in Umbria, è dedicato il viale che passa nel cuore del parco Santa Margherita, dove oggi quelli che furono i padiglioni dell’ospedale psichiatrico sono diventati strutture scolastiche e universitarie. Per capire quanto ha inciso la rivoluzione, prendo in prestito le parole che raccolsi tempo fa da Francesco Parroni, pedagogo, fondatore e per anni coordinatore del “Tiglio”, una scuola d’infanzia avanzatissima, per certi versi unica in Italia.
Al “Tiglio” i bambini di due-tre anni facevano corsi di acquaticità, con le maestre che una volta a settimana li caricavano su un pulmino, li cambiavano negli spogliatoi per poi entrare in piscina insieme a loro, e poi li asciugavano e rivestivano. Al “Tiglio” i bambini venivano portati nell’ultimo anno di nido, a tre anni, «in campeggio», senza genitori: tre giorni da soli, con le maestre (ancora loro, in maniera quasi volontaria per ventiquattrore al giorno e con tutta la responsabilità che ne conseguiva) a scoprire boschi, alberi e animali. Al “Tiglio” si facevano e si fanno tuttora feste di fine di anno meravigliose che durano fino a sera con centinaia di persone e recite e musica e genitori e figli che ritornano anche se ormai i pargoli frequentano le elementari e in alcuni casi le medie. Chiesi a Parroni le radici di questa eccellenza, lui mi rispose così: «Sai, questo era un padiglione dell’ospedale psichiatrico, quando si decise di trasformarlo in scuola d’infanzia, la prima cosa a cui pensammo fu l’apertura verso l’esterno. Questo è un posto che tuttora risente della volontà di aprire strutture chiuse, anche se struttura chiusa non è più».
Un presidente e un fotografo
Il primo ad aprirla quella struttura, fu Ilvano Rasimelli. Pochi giorni dopo essere diventato presidente della Provincia di Perugia – era il febbraio del 1965, la 180 sarebbe arrivata dopo tredici anni – si presentò all’alba davanti al portone del manicomio. Era con un fotografo, e chiese di entrare. Dall’interno non potevano rifiutarsi: Rasimelli era il capo dell’amministrazione proprietaria dello stabile. Quello che vide è stato raccontato da alcuni dei protagonisti dell’incontro organizzato dalla Cgil. Anzì, sarebbe meglio dire: quello che Rasimelli vide con gli occhi e sentì con le narici. «Entrai nel 1970 allo Zurli, dove erano rinchiuse le donne. Quello che mi sopraffece fu l’odore», ricorda Assunta Pierotti, psicoterapeuta, oggi responsabile del centro “Il Pellicano”, allora giovane collaboratrice nel gruppo di Manuali. «Mi mandarono allo Zurli perché dovevo prendere un farmaco che serviva nel padiglione in cui lavoravo. Due infermiere mi si misero ai fianchi. Dissi loro: ma mica ho bisogno della scorta. Mi risposero che sapevano quello che stavano facendo. Quando si spalancò la porta vidi un camerone, un unico camerone, in cui vivevano 250 persone: scalze, con dei camicioni sudici tutti uguali, chi buttata per terra, chi urlava, chi camminava senza sosta. E un odore incredibile. Svenni”, dice alla platea Adamo Sollevanti, all’epoca giovane infermiere, poi sindacalista, successivamente sindaco di un piccolo centro umbro. «Sapete come decisi di iscrivermi alla Cgil? – racconta ancora Sollevanti – Presi servizio a Città di Castello, ero giovanissimo. Il primo giorno di lavoro mi capita di passare vicino a un letto da cui proveniva un tanfo irresistibile. Il paziente aveva le calze di lana spesse, quelle di una volta. Mi avvicino. L’odore arrivava da lì. Penso: tolgo le calze e lo lavo. Quando vado a sfilare le calze, viene via anche la pelle: aveva tutt’e due le gambe in cancrena! A quel punto andai dal capo infermiere e protestai. Decisero di trasferirmi a Perugia, perché – mi dissero – sul servizio potevano anche soprassedere, ma la disciplina e la gerarchia andavano rispettate. Avete capito come ragionavano? Arrivato a Perugia, mi iscrissi alla Cgil».
Si parte
Quello che Rasimelli vide e il fotografo immortalò, divenne una mostra. La città di Perugia cominciò a prendere coscienza di ciò che avveniva dentro quelle mura. Da lì parti la rivoluzione. Che non è stata di Manuali o di Rasimelli, di Pierotti o di Sollevanti o dei tantissimi altri che vi parteciparono. È stata una presa di egemonia: il far diventare la questione dei manicomi una questione nazionale. E ribaltarla. «Ci si riuscì perché c’era partecipazione – dice convinto Sollevanti – noi facemmo tutto con una legge che risaliva al 1904, c’inventammo tutto». Ma c’era la partecipazione. Quella che consentì l’organizzazione di decine e decine di assemblee aperte alle istituzioni e ai cittadini alle quali partecipavano anche i “matti”, che avevano finalmente la possibilità di dire la loro, sollevati dall’ignominia. Sembra incredibile sentirselo raccontare oggi, quando la libertà è diventata variabile dipendente dell’ossessione securitaria, quando s’invocano più muri, più carceri; quando l’eguaglianza è diventata sinonimo di espulsione del diverso, di sterilizzazione delle differenze, più che leva per l’elevazione di tutti e tutte. Ora sembra incredibile, ma è tutto vero. Rimasto su pellicola per merito di Gianni Serra, che ci fece sopra un film, “Fortezze vuote”, presentato alla Biennale di Venezia nel 1975. Un film in cui parlano tutti: istituzioni, psichiatri, infermieri e pazienti. Perché la rivoluzione fu di tutti.
La conquista dell’egemonia
Già, ma come avvenne la conquista dell’egemonia? Ci si arrivò attraverso la presa di coscienza generalizzata che i manicomi non erano solo istituzioni disumane e disumanizzanti, ma erano anche strutture utili a espellere dal consesso sociale chi non era voluto da chi comandava. Era così per le donne che davano fastidio in casa, magari. O per quelle che rimanevano ragazze madri. Era così per i popolani che seducevano le figlie dei potenti. Era così per chi diventava matto a causa della povertà. Simone Polverini c’ha fatto una tesi di laurea su queste cose qui. “La produzione della follia”, s’intitola. E rivela al pubblico chiamato dalla Cgil di come nell’ultimo scorcio dell’ottocento, a causa dell’inasprimento dei patti agrari, i contadini costretti a cibarsi praticamente solo dei derivati del mais, cioè di quel poco e di poca qualità che gli lasciavano i latifondisti, venivano colpiti dalla pellagra che li portava alla demenza e internati. Il movimento che ha portato alla chiusura dei manicomi è stato insomma il frutto migliore dell’ondata di insubordinazione che ha visto la presa di coscienza di chi stava sotto della situazione reale in cui si trovava. Ancora: sembra incredibile sentirselo raccontare oggi, quando la guerra la si fa a chi sta sotto, o ai propri pari, con lo scopo di accaparrarsi le poche briciole lasciate a terra dai pochi che si prendono il grosso della torta e mangiano seduti alla tavola imbandita.
L’ospedale gestito dall’assemblea
A Perugia, che fu una delle punte più avanzate del movimento, successe che nelle decine e decine di assemblee si cominciò a parlare di tutto questo. Non a caso Flamini e Polcri nella loro ricerca sottolineano come il movimento non fu solo contro i manicomi, ma contro le istituzioni totali in genere. Per l’apertura di tutto ciò che era stato fino ad allora chiuso. Le assemblee di medici, infermieri e malati diventano a un certo punto il vero governo delle strutture sanitarie. Nel 1966 la giunta provinciale rinuncia alla realizzazione del nuovo ospedale psichiatrico che era stata deliberata anni prima. È un altro passo decisivo verso l’abbattimento dell’ordine precedente. Si crea una situazione nuova, non normata dalla legge, essendo stata la legge superata dagli eventi. Si agiva con «creatività», facendo quelle «piccole cose» che una ad una disgregavano l’ordine preesistente. L’ospedale psichiatrico si aprì, diventando visitabile in ogni momento; i pasti cominciarono a essere erogati ad orari regolari, a differenza di quanto avveniva prima, quando erano distribuiti secondo le esigenze della cucina. I pazienti tornarono ad essere uomini e donne. E anche il personale ne trasse giovamento.
Prima «dovevate vedere come erano questi vecchi infermieri: avevano un assetto uguale a quello dei malati. Io all’inizio mi chiedevo: ma diventeremo brutte in quel modo? Anche la postura cambiava… erano anche loro istituzionalizzati», ha confidato un assistente sociale a Flamini e Polcri. Dopo l’umanizzazione delle strutture, si passò all’abbattimento dei muri e il territorio intorno si fece carico del riassorbimento di chi fino ad allora era stato contenuto in stato disumano dentro le mura. A Perugia si apre nel febbraio del 1970 il primo centro di igiene mentale. In pochi mesi vengono aperte altre strutture analoghe nella provincia, fino ad arrivare al 90 per cento dei pazienti fuori dalle mura. E poi via via sono venute le case famiglia e tutte le altre strutture e trattamenti che hanno considerato la salute mentale in parte un prodotto dell’ambiente circostante e in parte una patologia da curare tenendo conto che si sta trattando con persone. Rivoluzione compiuta.
La risacca
E oggi? A che punto è la rivoluzione? Se la rivoluzione è movimento, superamento delle leggi vigenti per arrivare a un punto più avanzato, beh, oggi è la stasi. Parlare di controrivoluzione non si può. Perché la gran parte delle acquisizioni degli anni che portarono all’abbattimento dei muri rimangono dei capisaldi. Ma l’ondata è diventata risacca. Le Unità sanitarie locali sono state traformate in aziende. «Io per metà del mio tempo di lavoro faccio i conti», dice amara Elisabetta Rossi, dirigente dell’Asl 1, anche lei tra i rivoluzionari che abbatterono muri. Bisogna far quadrare i bilanci. E questo in ambito di psichiatria, un campo della medicina dove il fattore umano nel rapporto medico-paziente è preponderante rispetto a quello tecnico o farmacologico, è devastante, come dimostrano i dati. Perugia e l’Umbria, che furono le punte della «più importante rivoluzione italiana» oggi sono regredite in maniera più che preoccupante. I servizi non riescono a garantire neanche un medico ogni diecimila abitanti. E ogni psicologo ha in carico una media di 319 pazienti. Un caso limite, lo definisce il Sole 24Ore. Rossi è stata tra i firmatari di un appello al ministero della Salute. Chissà quanto e come sarà recepito, in tempi di guerre tra poveri, istituzioni latitanti e presidenti di giunte che a tutto pensano tranne che agli ultimi. Perché in definitiva, la «più importante rivoluzione italiana» è stata tale perché chi stava fuori dai manicomi si è reso conto che occorreva liberare chi stava dentro: gli ultimi, appunto. Ora si bada più a contenere, rinchiudere, che a liberare. Gli ultimi li si caccia via, li si è tornati a disumanizzare. E le istituzioni non possono che portare su di sé questo segno dei tempi. E rappresentarlo.
Fonte: ribalta.info
Originale: http://www.ribalta.info/una-rivoluzione/
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