La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 12 marzo 2017

Le rivoluzioni vietnamite. Dalla sconfitta francese alla cacciata degli USA da Saigon

di Ruggero Giacomini
La generazione degli anni ‘60
Faccio parte di quella generazione che ha cominciato la propria militanza politica negli anni Sessanta, dopo il sommovimento antifascista del luglio ’60 e quando faceva i primi passi il movimento studentesco. Sul piano internazionale c’era la disputa ideologica tra il Partito comunista cinese e quello sovietico, a cui seguì la rivoluzione culturale; e c’erano due esperienze rivoluzionarie che influivano particolarmente nel nostro immaginario: Cuba, che aveva respinto l’aggressione della Baia dei Porci, aveva intrapreso una sua via al socialismo e alimentava con Castro e con Guevara la fiamma dell’anticolonialismo e dell’antimperialismo in tutta l’America latina; e il Vietnam, che resisteva eroicamente all’aggressione dell’imperialismo americano, il più potente imperialismo di tutti i tempi e, allora come oggi, il principale nemico dei popoli. Le forze erano impari e sembrava davvero la lotta di Davide contro Golia.
Nel ’68 fu pubblicato da un piccolo editore romano, Tindalo, un volumetto molto interessante: il Diario dal carcere di Ho Chi Min. Conteneva le poesie tradotte da Joyce Lussu che il leader vietnamita aveva scritto in carcere tra il 1942 e il ’43, prigioniero di Chang Kai shek. Il libro conteneva inoltre le testimonianze di Giap, il leggendario vincitore di Dien Bien Phu; di Pham Van Dong, compagno di Ho Chi Min dalla fondazione del partito comunista vietnamita nel 1930 e capo allora del governo della RDV; e di Nguyen Luong Bang, che aveva curato le finanze del partito e della resistenza ed era stato anche responsabile della sicurezza personale di Ho Chi Min, per poi divenire il primo direttore della Banca di stato vietnamita [1].
Al centro di questo libro era dunque la figura di Ho Chi Min, in quanto dirigente politico ma anche nei suoi aspetti privati, con la sua umanità e saggezza, modestia e semplicità di vita. Tanto da essere chiamato, familiarmente, da tutti “lo zio Ho”.
Ho Chi Min
Ho Chi Min è stato uno dei più grandi rivoluzionari del ‘900, un secolo di guerre e di fascismi, ma anche di rivoluzioni e di emancipazione, e che non si può cancellare con un salto all’indietro nella storia, come vorrebbero certi idealisti di sinistra turbati per le sue violenze.
Di quelle poesie del carcere ce n’è una, che chiude la raccolta e che dice: 
“La rosa s’apre, la rosa/ appassisce senza sapere/ quello che fa.
Basta un profumo /di rosa/ smarrito in un carcere
perché nel cuore /del carcerato/ urlino tutte le ingiustizie/ del mondo”.
Si possono qui cogliere l’umanesimo rivoluzionario e l’internazionalismo di Ho Chi Min, che insieme al patriottismo furono i tratti salienti della sua figura storica. Ho Chi Minh è stato un figlio della rivoluzione d’Ottobre, attratto dall’appello di Lenin ai popoli dell’oriente. Partecipò nel 1920 alla fondazione del Partito comunista francese, fu poi a Mosca ai congressi dell’IC, girò il mondo in missioni importanti e riservate. Senza dimenticare mai e senza mai perdere i contatti con la sua terra.
In proposito, due fatti fondamentali sono legati all’opera sua :
a. La fondazione il 3 febbraio 1930 a Hong Kong del PC del Vietnam, che otto mesi dopo, al primo plenum del CC, prese il nome di PC Indocinese. Era l’indicazione dell’Internazionale comunista di unificare le forze ed estendere il lavoro anche al Laos e alla Cambogia, che facevano pure parte dell’Indocina francese. Quel partito comunista attraversò momenti difficili, conobbe successi e sconfitte, ma fu l’intelligenza e la spina dorsale di tutta la lotta nelle sue varie fasi, “fattore essenziale della vittoria”, come scrisse il generale Giap nel suo manuale su “la guerra di liberazione nazionale” [2]. 
b. Il ruolo di Ho Chi Min fu anche determinante nella costituzione nel febbraio 1941 della Lega per l’Indipendenza del Vietnam, il Viet Minh, che guiderà la lotta per l’indipendenza dal colonialismo francese. Fu ancora il partito comunista che ne decise la costituzione, all’ottavo plenum del CC eletto al primo congresso nel 1935. Era la linea del Fronte nazionale di liberazione, sviluppo e traduzione nazionale delle deliberazioni del VII Congresso dell’IC, a cui Ho Chi Min nel 1935 aveva partecipato.
La rivoluzione d’agosto
Dopo la nascita del Viet Minh, Ho Chi Min era tornato all’estero per trovare appoggi, ma appena in Cina era stato arrestato. Il motivo è che Cian Kai-shek avrebbe voluto in Vietnam un movimento diretto da nazionalisti borghesi anticomunisti, che però non decolla. Ho Chi Minh dopo 15 mesi, dato anche il contesto internazionale, viene rilasciato e può tornare in Vietnam. 
Qui il Viet Minh ha messo radici in tutto il paese, si sono costituite capillarmente numerose e varie organizzazioni di assistenza popolare che ad esso fanno capo. E’ questa l’ossatura che rende possibile il successo dell’insurrezione di agosto, lanciata in contemporanea con la resa del Giappone nel ‘45, e che diventa una festosa e grandiosa rivoluzione popolare. Il 2 settembre ’45 Ho Chi Min proclama ad Hanoi l’indipendenza e la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam. Vengono indette le elezioni per l’Assemblea nazionale, e nel ‘46 viene promulgata la Costituzione. La Francia e le grandi potenze sono poste di fronte al fatto compiuto. Il governo democratico vietnamita lancia le tre campagne: contro la carestia, che infuria e miete oltre due milioni di vite umane, contro l’analfabetismo che affligge la gran parte della popolazione, e contro l’ingerenza straniera, che tornava a farsi invadente ed opprimente. 
La Francia, dove solo il PCF sosteneva decisamente la libertà del Vietnam, si mosse all’inizio ambiguamente: riconobbe l’indipendenza del Vietnam, nell’ambito della Federazione indocinese, con Laos e Cambogia, e dell’Unione francese; ma inviò truppe via via più numerose, promosse la formazione di un governo fantoccio al sud, in Cocincina (Nam Bo), e si spinse quindi verso il nord per ripristinare il completo dominio.
La resistenza antifrancese
Finché la misura fu colma e il 19 dicembre 1946 Ho Chi Min lanciò un appello alla nazione che segnò l’inizio della Resistenza antifrancese, la quale culminò otto anni dopo nella storica battaglia di Dien Bien Phu, dal 13 marzo al 7 maggio del ‘54. Qui l’esercito vietnamita, magistralmente diretto dal generale Giap, costrinse le truppe francesi accerchiate ad arrendersi. Fu una vittoria straordinaria, resa possibile dall’azione politica del governo democratico, che in particolare con la riforma agraria aveva saputo legare a sé fortemente i contadini. Dien Bien Phu fu un successo di strategia militare, ma anche di mobilitazione civile. Infatti ben 260 mila lavoratori garantirono nei tre mesi della battaglia i servizi logistici, i collegamenti e i rifornimenti ai combattenti.
Mentre la battaglia era in corso, il segretario di stato americano Foster Dulles propose al ministro degli esteri francese Bidault di sganciare sul Vietnam“due o tre bombe atomiche”, che gli Usa sarebbero stati ben contenti di mettere a disposizione.
C’era stata tuttavia e pesava la grande campagna contro l’uso dell’atomica del movimento mondiale dei Partigiani della pace, il più grande movimento pacifista di tutti i tempi. E ci fu il pronunciamento, che pure pesò, dei paesi asiatici di nuova indipendenza, che erano riuniti in quei giorni a Colombo: India, Pakistan, Ceylon, Birmania e Indonesia, che si pronunciarono per l’indipendenza della regione indocinese e condannarono la minaccia dell’uso dell’arma atomica. Il piccolo Vietnam aveva anche la capacità di esercitare, nelle più diverse direzioni, una sua abile ed efficace “diplomazia rivoluzionaria”.
Nella Francia sconfitta militarmente si fecero un po’ di conti. Nella “voragine indocinese”, come la definì “Le Monde”, erano stati bruciati 2.500 miliardi di franchi. Continuare, senza alcuna realistica prospettiva di vincere, non era più sostenibile. Si arrivò così agli accordi di Ginevra del luglio ‘54, con la mediazione di Cina popolare, Unione sovietica e Gran Bretagna, e la sotterranea ostilità degli Stati Uniti, che si sottrassero alla firma. Gli accordi riconobbero l’indipendenza e l’integrità territoriale di Vietnam, Cambogia e Laos. Il Vietnam rimaneva transitoriamente diviso in due zone, sulla linea del 17° parallelo, la riunificazione era prevista entro due anni attraverso elezioni democratiche da tenersi in tutto il paese.
L’imperialismo USA erede del colonialismo francese
Queste elezioni non si tennero mai, perché gli Stati Uniti, che si erano nel frattempo sostituiti alla Francia nell’ambizione di dominare la penisola indocinese, compresero presto che il governo fantoccio del Sud da essi sostenuto non le avrebbe mai potute vincere. E dunque non le fecero tenere, puntando a mantenere il paese permanentemente diviso, come avrebbero fatto riuscendoci in Corea.
A partire dal 1958-59, nel territorio sotto dominio americano si cominciarono a ritessere le fila dell’organizzazione patriottica clandestina, il 20 dicembre 1960 si costituì il Fronte Nazionale di Liberazione del Vietnam del Sud, tornarono in azione i guerriglieri, che la propaganda americana etichettò come viet-cong, cioè comunisti vietnamiti, pensando così di isolarli e renderli più facilmente attaccabili. Invece divennero con quel nome popolari.
Inizialmente gli Usa parlarono di “guerra speciale”: per fare risparmio di vite americane, istigavano vietnamiti contro vietnamiti, largheggiando in soldi e armi, dirigendo da dietro le quinte e mediante i cosiddetti “consiglieri”, mandati per guidare il mastodontico esercito mercenario messo in piedi.
Per stroncare l’appoggio dei contadini alla guerriglia furono creati i “villaggi strategici”, luoghi di internamento dove erano deportati e sorvegliati i contadini. Si pensava così di isolare ed affamare i partigiani, per poterli così più facilmente sterminare. Furono condotte decine di migliaia di “incursioni di rastrellamento”, con largo uso degli elicotteri: devastando, bruciando e massacrando. I contadini tuttavia si ribellarono alla deportazione e i “villaggi strategici” divennero essi stessi focolai di resistenza.
L’aggressione diretta
Nel 1964 un giornalista australiano, Wilfred Burchett, poté fare un viaggio nelle zone liberate del Sud Vietnam, che documentò poi in un libro tradotto anche in Italia [3]. Vi mostrava il radicamento della resistenza, e spiegava perché non avrebbe potuto essere vinta. Al termine passò per Hanoi, dove fu ricevuto dal presidente Ho Chi Min e dal generale Giap. Quest’ultimo nel corso del colloquio disse: "Invece di andarsene però gli USA decisero di intervenire massicciamente con le proprie forze super addestrate. La “sporca guerra”, cominciata dal presidente Kennedy, conosceva così col presidente Johnson una brusca escalation."
Dai 15 mila “consiglieri” le truppe americane salirono rapidamente: 385 mila uomini nel ’66, 472 mila nel ‘67, 540 mila nel ’68. 
Il presidente americano, che venne allora ribattezzato “Johnson boia”, prese anche a bombardare il territorio della RDV, per ostacolare l’aiuto che dava alla Resistenza al sud, prendendo a pretesto il cosiddetto incidente del golfo del Tonchino. Dove nell’agosto del ’64 gli Usa lamentarono un attacco di imbarcazioni vietnamite a un loro cacciatorpediniere, in realtà mai avvenuto. 
Un diretto antenato delle “prove” esibite all’Onu delle “armi di distruzione di massa di Saddam”. 
Gli USA estesero i bombardamenti al Laos e alla Cambogia, puntando a interrompere il “sentiero di Ho Ci Min”, per cui passavano gli aiuti del Nord al Sud del paese. Non esitarono, quali campioni del “mondo libero” ed esportatori di “diritti umani”, a fare largo uso del napalm, delle bombe al fosforo, dei defoglianti per bruciare le foreste. 
Convinti con il loro formidabile dispiegamento di forze e superiorità di mezzi tecnologici, di essere ormai prossimi alla vittoria, dovettero amaramente ricredersi quando il FNL del Sud Vietnam scatenò il 30 gennaio 1968 l’offensiva del Tet, prendendo ovunque l’iniziativa ed infliggendo al nemico duri colpi, spingendosi fino ad attaccare la stessa ambasciata Usa al centro di Saigon.
Il sostegno internazionalista e del movimento per la pace
L’eroica lotta del popolo del Vietnam aveva il sostegno dei paesi socialisti e dei partiti comunisti di tutto il mondo. E si sviluppò un movimento di masse contro la guerra in tutti i paesi capitalisti e negli stessi Stati Uniti. 
Essendo a corto di volontari, nonostante le alte paghe, il governo americano era dovuto ricorrere alla leva obbligatoria, che suscitava resistenze e renitenze. Nel 1967 il celebre campione dei pesi massimi Muhammad Ali, nato Cassius Clay, fu richiamato alle armi per andare a combattere in Vietnam. Si rifiutò con una dichiarazione che fece scalpore: 
“ognuno ha il diritto di vivere tranquillo nella propria casa – disse – : questo diritto lo pretendo per me. Ma lo riconosco anche agli altri.” 
E affermò ancora di non avere alcun motivo per combattere i vietnamiti: 
“Nessuno di loro mi ha mai chiamato negro, nessuno di loro mi ha mai linciato o scatenato contro i cani”. 
Alì dava voce alla minoranza afro-americana, vittima del perdurante razzismo negli Stati Uniti, e individuava il nemico in casa sua, e non in Vietnam.
Si risolse in un boomerang anche l’allargamento del teatro di guerra, preceduto da colpi di stato in Laos e in Cambogia. Qui nel 1970 il generale Lon Nol, sostenuto dalla Cia, destituì il governo del principe Sihanouk, approfittando che si trovava in visita in Cina; ma ciò fece dilagare la rivolta del popolo cambogiano.
In precedenza era divenuta di dominio pubblico la strage di civili perpetrata da un reparto americano a My Lai il 16 marzo 1968. Il fatto, documentato da un giornalista coraggioso in base a testimonianze e materiali che venivano dall’interno dell’esercito, inflisse un duro colpo all’immagine dei “liberatori”, rompendo il clima delle complicità e dell’omertà. 
Quel giornalista coraggioso si chiamava Seymour Hersh. Ed è lo stesso che in tempi recenti ha denunciato che l'attacco con armi chimiche del 21 agosto 2013 a Ghouta, in Siria, e la cui responsabilità venne attribuita al regime di Bashar al-Assad, era stata in realtà opera dei “ribelli”, sostenuti dalla Turchia e dalle monarchie assolutistiche del golfo per spianare la strada all’intervento americano [5].
La vittoria
Prima di cedere, il governo degli Stati Uniti tentò di nuovo la carta della “vietnamizzazione”. Mentre i soldati americani cominciavano a riprendere la via di casa, si addestravano i soldati reclutati dal governo fantoccio ad usare le tecniche e le armi più sofisticate.
Nel dicembre ’72 il presidente Nixon ordinò nuovi massicci bombardamenti sul nord Vietnam: undici giorni di bombe, regali di Natale e magazzini da smaltire.
Finalmente il 27 gennaio 1973 si firmarono gli accordi di Parigi, con cui gli Usa si impegnavano a lasciare il Vietnam entro due mesi.
Rimasto privo del sostegno diretto del padrone americano, il governo fantoccio di Saigon vide via via sfaldarsi le forze che lo sostenevano; e quando il 30 aprile 1975 la direzione del Fronte di liberazione valutò che era giunto il momento di entrare a Saigon, quella dei viet-cong fu un’avanzata trionfale, praticamente senza resistenze.
Il 2 luglio 1976, dopo un periodo transitorio, il Vietnam veniva unificato, Saigon era ribattezzata Città Ho Chi Min e nasceva la Repubblica Socialista del Vietnam.
Il piccolo Vietnam aveva inflitto alla più grande potenza di tutti i tempi la prima sconfitta in una guerra. Un fatto di enorme significato per i popoli oppressi. Una svolta nella storia.
Il testamento di Ho Chi Minh
Ho Chi Min non poté vedere questo esito vittorioso. Era morto ad Hanoi il 2 settembre 1969, a 79 anni. Il 10 maggio precedente, ancora ben lucido anche se le forze gli stavano venendo meno, aveva scritto il suo “testamento”. Esprimeva la “certezza assoluta” nella “vittoria finale”, e l’intenzione di visitare dopo di essa tutto il paese per congratularsi coi compatrioti. Avrebbe voluto anche andare “nei paesi fratelli del campo socialista e nei paesi amici di tutto il mondo”, per ringraziarli dell’assistenza e dell’appoggio ricevuti:
“Noi, una piccola nazione, - scriveva Ho Chi Minh - avremo guadagnato l’onore di sconfiggere, attraverso una lotta eroica, due grandi imperialismi – quello francese e quello americano – e di dare un degno contributo al movimento nazionale di liberazione del mondo”.
Si diceva orgoglioso – lui che aveva dedicato la vita alla rivoluzione - per i progressi fatti dal movimento comunista e operaio internazionale e soffriva per le “discordie” allora in corso “tra i partiti fratelli”, riferendosi alla rottura tra Cina e Unione Sovietica. Auspicava che il partito vietnamita potesse dare “un contributo efficace per ristabilire la coesione… sulla base del m-l e dell’internazionalismo proletario, ispirandosi alla ragione ed al sentimento”. Ed era “convinto che i partiti ed i paesi fratelli immancabilmente si uniranno”. Purtroppo questo allora non accadde. Ed è stata non ultima causa della resa sovietica nell’89-91 alle pressioni dell’imperialismo.
I costi economici e umani
La lunga guerra imposta dall’occidente imperialista e colonialista al Vietnam ebbe costi economici e umani enormi: sia per gli aggressori, che e molto di più per il popolo aggredito.
“La prima guerra d’Indocina era costata alla Francia e agli Stati Uniti una somma intorno ai 12 miliardi di dollari”, la metà circa di quanto era costata la guerra di Corea. Nel periodo 1961-1973, gli anni dell’impegno diretto americano, “la sola spesa degli Stati Uniti è stata calcolata fra i 130 e i 150 miliardi di dollari” [6]. Gli Usa accusarono inoltre la morte di circa 60 mila soldati e 300 mila feriti e mutilati [7].
Dalla parte del Vietnam:
“Quasi tutta l’industria della Rdv” fu distrutta nelle ultime fasi dell’escalation dei bombardamenti. Il territorio tra il 17° e il 19° parallelo” fu “letteralmente sconvolto dalle bombe… Secondo i calcoli del Pentagono in tutta l’Indocina furono gettate 7.500.000 tonnellate di bombe, tre volte di più che nel secondo conflitto mondiale [8]. Quanto ai defoglianti e prodotti chimici stando agli studi di alcune università americane, ne furono impiegati 75 milioni di litri. Le vittime vietnamite, secondo i dati più aggiornati, ammontarono a circa 5 milioni: 1 milione di combattenti e 4 milioni di civili [9].
Una considerazione per l’oggi.
Nel 1913 Lenin scrisse un articolo dal titolo: L’Europa arretrata e l’Asia avanzata [10]. Con l’apparente paradosso si riferiva al fatto che l’Europa, che aveva la tecnica più sviluppata, una cultura ricca e le Costituzioni, era giunta a uno stadio di sviluppo in cui la borghesia al potere per conservarlo si appoggiava sulle forze più arretrate, feudali, storicamente superate. La borghesia capitalistica – osservava Lenin - era pronta a qualsiasi atto brutale e a qualsiasi delitto pur di salvaguardare la schiavitù capitalista moribonda. 
Infatti in Asia era in corso “un potente movimento democratico”, e contro di esso “la borghesia europea per i cupidi scopi degli affaristi della finanza e dei truffatori capitalisti, appoggiava la reazione”. “Centinaia di milioni di uomini si svegliavano alla vita, alla luce, alla libertà”. “Tutti i democratici onesti” sentivano simpatia “verso la giovane Asia!”
E l’Europa cosiddetta «avanzata» che faceva? Saccheggiava le risorse di questi milioni di uomini e aiutava i nemici della democrazia.
“In compenso – scriveva Lenin - la giovane Asia, vale a dire le centinaia di milioni di lavoratori dell’Asia, ha un alleato sicuro nel proletariato di tutti i paesi civili. Nessuna forza al mondo sarà capace di impedire la sua vittoria, che libererà sia i popoli d’Europa che i popoli d’Asia”.
Quattro anni dopo ci sarebbe stata la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, di cui ricorre quest’anno il 100 anniversario. In un acuto articolo dei primi anni sessanta, Enrica Collotti Pischel sottolineava come la Rivoluzione d’Ottobre avesse avuto proprio in Asia “un’eco profonda e durevole”. 
In occidente essa aveva rappresentato l’avvento al potere del movimento operaio, la creazione del primo Stato socialista, il primo caso di concreta soppressione dello sfruttamento: cioè l’attuazione di ideali da lungo tempo vagheggiati da milioni di uomini. 
In Asia essa era stata “tutto questo, ma inoltre – e per tutti gli asiatici – … la rottura del fronte imperialistico, il mezzo con cui si era formato il primo Stato industrializzato, che non solo non fosse imperialista ma anzi fosse attivamente impegnato nella lotta contro l’imperialismo. Per l’Asia la rivoluzione sovietica ha rappresentato, dopo un secolo o più di abiezione e di soggezione all’imperialismo, la prima speranza di un aiuto esterno in una lotta di emancipazione” [11].
In Cina Sun Yat-Sen, che “non era né socialista, né marxista”, aveva inteso l’appello di Lenin e compreso “lo sconvolgimento che la nascita di uno Stato socialista rappresentava per il mondo imperialista”. Ho Chi Min da patriota era divenuto comunista. 
Oggi si può dire che quelle considerazioni di Lenin sull’Asia avanzata e l’Europa arretrata abbiano un contenuto meno paradossale e più reale. Oggi l’Asia, che si è liberata o si sta liberando dalla dominazione imperiale e coloniale, è davvero avanzata; mentre l’Europa è arretrata a una condizione di sub-imperialismo e semi-coloniale. Ed è il proletariato di questa Europa ad avere oggi più bisogno dell’Asia per la sua liberazione.
E si pone ancora oggi, anche se a parti rovesciate, l’esigenza che Lenin individuava di “una strategia rivoluzionaria unitaria” tra i “popoli dell’Oriente” che hanno intrapreso la via del socialismo, e quelle avanguardie e classi proletarie che in occidente pure si battono per la liberazione e il socialismo.

NOTE

1. Ho Chi Min Diario dal carcere, Tindalo, Roma 1968 (II ed. febbraio), prefazione di Lelio Basso, traduzione di Joyce Lussu.
2. Vo Nguyen Giap, La guerra di liberazione nazionale nel Viet Nam: linea generale, strategia, tattica, Edizioni di cultura operaia, Napoli 1972, p. 93.
3. Wilfred Burchett, Viaggio nelle zone liberate del Sud Vietnam; (traduzione di Grazia Cherchi) Edizioni Oriente, Milano 1965
4. Ivi, p. 147.
5. Hersh: "Non fu la Siria a usare le armi chimiche", “Repubblica”, 9 aprile 2014, cf. http://www.repubblica.it/esteri/2014/04/09/news/hersh_non_fu_la_siria_a_usare_le_armi_chimiche-83106851/ Cf. anche Siria. Strage con le armi chimiche: nuove rivelazioni, ‘furono al-Nusra e la Turchia, non al-Assad', http://www.notiziegeopolitiche.net/siria-strage-con-le-armi-chimiche-nuove-rivelazioni-furono-al-nusra-e-la-turchia-non-al-assad/
6. Enzo Santarelli, Storia sociale del mondo contemporaneo. Dalla Comune di Parigi ai nostri giorni, Feltrinelli, Milano 1982, p. 564.
7. Per l’esattezza: 58.226 morti in azione o classificati come dispersi in combattimento; 303.704 feriti.
8. Santarelli, p. 564. Si è anche calcolato che nel paese furono lanciate 24 milioni di bombe.
9. Dati diffusi dal Vietnam il 3 aprile 1995. Cf. Guerra del Vietnam, Wikipedia, consultata il 26.1.2017.
10. Lenin, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca 1947, pp. 536-537.
11. Enrica Collotti Pischel, Ideologia e strategia rivoluzionaria nelle tesi cinesi, “Nuovi Argomenti”, n. 53-54, Novembre 1961- Febbraio 1962, 49-51.

Questo testo è l'ntervento al convegno nazionale: “Vietnam: le rivoluzioni”, Venezia, 18/02/2017, promosso dal PCI e che ha visto, tra gli altri, la partecipazione di S.E. Cao Chinh Thien, Ambasciatore

Fonte: marx21.it 

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