La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 21 marzo 2017

Nessuno è perfetto nella società delle norme

di Marco Ambra 
Nella prima stagione di The Leftovers il protagonista della serie, Kevin Garvey, capo della polizia della sperduta cittadina americana di Mapleton, cerca disperatamente di mettere in scena la propria routine quotidiana, nello stesso modo in cui si svolgeva prima che un inspiegabile e inquietante evento, la sparizione nel nulla del 2% della popolazione mondiale, sconvolgesse la vita di tutti. Così, rapiti come lui dall’angosciante sparizione di massa, vediamo Kevin indossare gli indumenti da runner per estenuanti sessioni di corsa mattutina, oppure ancora assistiamo ai suoi maldestri tentativi di addomesticare un cane randagio o di fare una ramanzina alla figlia adolescente. In altre parole chief Garvey tenta un nostalgico e impossibile ritorno alla normalità che precede la catastrofe.
Cosa lo spinge, in un mondo in cui il senso della vita umana è stato fatto a brandelli da un avvenimento incomprensibile, a rifugiarsi nella propria divisa da poliziotto? Perché, ritornando al nostro contemporaneo, i movimenti centripeti della modernità, distruttori di Templi e Leggi, hanno lasciato sulla scena un’imprevisto bisogno di servitù volontaria?
È a questa e ad altre domande che cerca di rispondere Il soggetto delle norme, testo piacevole – cosa rara per la filosofia politica – di Pierre Macheray, pubblicato da ombre corte per la cura di Girolamo De Michele, voce anche di una conversazione con l’autore riportata a chiusura del libro. Attraverso un sentiero tortuoso, ibrido di deviazioni e vicoli ciechi, tracciato da Marx e Foucault, Althusser e Deligny, Fanon e Sartre, il filosofo francese rilegge le dinamiche soggettivanti del contemporaneo sotto la luce sinistra del concetto di norma. Cos’è una norma e cosa ne differenzia gli effetti dal regime delle leggi, strumenti degli Stati sovrani dell’età moderna?
A differenza delle leggi che operano su una logica binaria di inclusione/esclusione, amico/nemico, imponendo le proprie sanzioni ai soggetti confinati nel secondo polo di queste coppie antitetiche, la logica delle norme non è “operativa”, «come lo è un intervento esercitato da un agente su un terreno o un materiale indipendente» ma riveste la forma della razionalizzazione, cioè di un’azione «immanente al suo campo d’intervento» (p. 9) e che contribuisce a produrre, con dolcezza, senza la violenza coercitiva della legge. Attingendo a piene mani dalla cassetta degli attrezzi del pensiero foucaultiano, Macherey ripercorre i nodi principali dell’analisi del potere che Foucault produsse nei suoi Corsi, dalla nozione di disciplinamento al concetto di biopolitica. La norma è in questa prospettiva «una forma di legalità che è stata naturalizzata, essenzializzata, il che ha permesso di incorporarla all’essere dei soggetti ai quali si applica; questi ultimi sono destinati ad essere giudicati sulla base della disposizione ad agire di cui sono accreditati» (p. 78), si inseriscono cioè in una serie statisticamente prevedibile, misurabile, calcolabile.
Il processo di razionalizzazione imposto dalle norme istituisce a partire dalla fine del XVIII secolo nuove modalità di controllo sociale, una società delle norme, in cui l’obbedienza volontaria e i rapporti di dominazione e sfruttamento sono fondati su un presunto ordine oggettivo delle cose – il mercato del lavoro, la sicurezza globale, la società delle competenze – da cui s’irradia ogni novello principio d’autorità. Poiché le norme partecipano della produzione del proprio campo d’intervento, la loro peculiarità è di agire larvatae, presentandosi come un coacervo di relazioni orizzontali, dal basso. I soggetti che prendono parte a questo campo di possibilità sono formati, modellati, assoggettati dalla loro azione dolce.
Ed è proprio sulla fenomenologia dell’assoggettamento che si sofferma il secondo capitolo, forse quello più originale del libro, per densità teorica e libertà nell’uso delle fonti, riuscendo a far dialogare voci che hanno generato scuole di pensiero spesso in aspro contrasto. Se le norme producono un campo d’intervento in cui non c’è spazio per individui pre-esistenti, allora questi ultimi sono, come dice Althusser, sempre-già-soggetti delle norme. Si è già-da-sempre incatenati alle spire dolci delle norme, non come nel supplizio di Prometeo ma come Ulisse sull’isola di Circe. Allo stesso modo si è lavoratori a progetto, madri, omosessuali, migranti, tifosi di una squadra di calcio, militanti, operai, capitalisti, donne e perfino elettori di Salvini prima ancora di venire al mondo.
È il campo di possibilità chiuso dall’azione delle norme a stabilire i limiti entro i quali i sempre-già-soggetti possono oscillare, o per dirla con Sartre è l’essenza che precede e decide l’esistenza. Ma cosa determina questa forma dell’assoggettamento? Cosa rende ad Ulisse piacevole il soggiorno presso Circe? Per rispondere a questo enigma Macherey utilizza uno dei concetti più dibattuti del marxismo occidentale nel XX secolo: quello di ideologia. Non da una prospettiva marxista ortodossa, l’ideologia come sistema coerente delle rappresentazioni funzionali al dominio della classe dominante, ma da una prospettiva marxiana, che è quella di un’ideologia in movimento, ri-materializzata, che agisce sullo stesso livello di riproduzione sociale. Un’ideologia che interpella gli individui, come ha scritto Althusser, riconvertendoli in soggetti. Riprendendo la concezione dinamica dell’ideologia del grande studioso del Capitale e facendola dialogare con le critiche alla trascendenza dell’interpellare ideologico di Judith Butler, ma soprattutto con l’analisi della doppia soggettivazione del “negro/ebreo” condotta sulla scorta di Frantz Fanon e del Sartre de L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Macherey ne traccia le somiglianze di famiglia con la nozione foucaultiana di dispositivo.
Lungo questa direzione l’ideologia marxiana diventa un’infra-ideologia, una sintassi del discorso volta ad oscurare il modo in cui le norme producono il campo di possibilità, all’interno del quale i soggetti si riconoscono come tali ed entrano in relazione. Una manipolazione del simbolico e dell’immaginario che produce una panoplia di pratiche, un habitus, oltre il quale è difficile stabilire chi o cosa si ponga: lo sapeva bene Fernand Deligny, che ha vissuto per anni in prossimità di quell’«umano naturale» incarnato dai ragazzi autistici non verbali, autori di modalità di esistenza primordiali, giammai ingabbiate nell’ordine simbolico dell’infra-ideologia, nella sfera del cogito cartesiano, nella presenza asfissiante del sé.
E sebbene nessuno possa intenzionalmente sottrarsi all’interpellare delle norme, all’essere sempre-già-soggetti, per aderire alla condizione dell’umano naturale dei ragazzi di Deligny, è altrettanto vero che a tutti è concessa la possibilità di confessarsi quello che si è o quello che non si vorrebbe essere: soggetti potenziali, soggetti d’imputazione, figuranti raccattati per strada allo scopo di recitare sul palcoscenico del capitale globale. Rievocando la scena finale di A qualcuno piace caldo (1959) di Billy Wilder, quella in cui Jack Lemmon è costretto a gettare il travestimento da donna che ha indossato per tutto il film e a rivelarsi al proprio ambiguo corteggiatore, Macherey sostiene che il sempre-già-soggetto, interpellato dalle norme, possa sempre esclamare «Nessuno è perfetto», possa cioè rispondere all’appello in maniera inappropriata, insufficiente, in difetto.
In altre parole, per quanto le norme si sforzino di creare soggetti completamente prevedibili, riescono in questa impresa solo in maniera parziale, lasciando ai soggetti la possibilità negativa della diserzione, il poter essere come la norma non vorrebbe mai che si diventi. Un’inquietante imperfezione ontologica, eco lontana dei folli dell’Histoire di Foucault e dei ragazzi autistici di Deligny, che riemerge a disinnescare la paranoica materializzazione dell’immaginario infra-ideologico nell’incompiutezza.
Questa stessa imperfezione ontologica la ritroviamo nel caso del soggetto produttivo, tema affrontato da Macherey nel terzo capitolo del libro, già edito da Ombre Corte nel 2013 con un’interessante postfazione di Toni Negri e Judith Revel. Il lavoratore salariato, frutto dello sforzo soggettivante della rivoluzione industriale del XVIII secolo, è infatti lacerato fra una forza lavoro fisicamente incarnata dalla propria persona, una forza dinamica che trova compimento nel prodotto del lavoro, e una disposizione a produrre attraverso il lavoro organizzato secondo regole che dipendono da altri, potenzialmente sfruttabile fino a raggiungere i limiti biologici del lavoratore.
Ed è su questa ambiguità che Macherey cerca, senza forzature e con una certa eleganza, «di rileggere Marx alla luce di Foucault» (p. 213), individuando un filo rosso che conduce dall’analisi dello sfruttamento del lavoro vivo al concetto di biopolitica. Un tema dibattuto, quello del marxismo dimenticato di Foucault, che per Macherey lo sottrae all’univocità di una lettura neo-liberale degli esiti della sua riflessione senza cristallizzarlo nella galleria degli intellettuali dell’Apparato. Se forse «c’è stato un momento, nel percorso di Foucault, che poteva essere superficialmente catalogato come “neo-liberale”» è altrettanto vero che il pensatore francese «non si è mai accontentato di comportarsi da teorico che si mantiene a distanza dal suo campo di studi» (p. 212) immergendosi nel confronto con quello «studio positivo del potere» presente nella quarta sezione del primo volume del Capitale.
Perché se il capitalismo nato dalla rivoluzione industriale ha sempre cercato di massimizzare lo sfruttamento della forza lavoro, come disposizione a produrre nel sistema di fabbrica, per creare ulteriori margini di profitto, in un mondo in cui l’organizzazione del lavoro è in continua trasformazione, deve imporre al lavoro vivo una geometria a configurazioni variabili allo scopo necessario di aumentare la produttività. Così cambiano i contratti di lavoro, dalla truffaldina compravendita della forza lavoro secondo un orario fisso che tendeva ai limiti biologici del lavoratore, e che imponeva una severa gestione del suo corpo, finanche nel talamo, si è passati ad uno sfruttamento intensivo della vita, ad una flessibile messa a disposizione del tempo salariabile. Così l’infra-ideologia si fa ideologia della crescita, vangelo della produttività, organizzazione del massimo grado di flessibilità. Una flessibilità che si impone attraverso una dolce gestione dei corpi, per trarne il massimo rendimento con il minimo di potere, e che si materializza come cieca adesione alla norma quale seconda natura: «appartenere alla seconda natura significa vivere una condizione forzata, riconoscendole automaticamente gli aspetti dell’evidenza, rinunciando in anticipo a interrogarsi sulle sue ragion d’essere, sui fini ai quali essa risponde e sui limiti definiti, all’interno dei quali questi fini si pongono» (p. 160).
È possibile sottrarsi allo sfruttamento vivendo nella seconda natura? Possiamo liberarci dalla continua negoziazione e modulazione di quelle forme creative di organizzazione degli eventi e della produttività che Macherey chiama “norme”? Se il potere è concentrato sull’intensificazione della vita del soggetto allora le lotte, «piuttosto che assumere un progetto di rottura definitiva, corrispondente alla formula “classe contro classe”» (p. 165) – e aggiungo “sovranità nazionale contro globalizzazione sovranazionale” – dovranno prendere la forma di bio-resistenze che procedono «per tentativi ed errori, a tentoni in modo da stabilire a poco a poco, contro le tecnologie del potere […] delle tecnologie di resistenza e di contro-potere che, dove è possibile, cerchino di allentare la presa» (p. 165). Un programma minimo, un’opposizione fragile, come fragile è la consistenza del soggetto, «questo animale strano a cui è impedito di vedere le cose diversamente» (p.136). Ma al quale ancora non è impedito di vedere del tutto.

Fonte: lavoroculturale.org 

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