di Diego Chiaraluce
Accentratrice, pedissequa, classista. Colma del peggior burocratismo nella forma e intrisa di ideologia aziendalista nella sostanza. Poche secche osservazioni per sintetizzare la seconda fase della riforma della scuola voluta dal tandem Renzi-Gentiloni sotto la supervisione di Confindustria e dei think-thank liberisti dell’Unione Europea. Finalità: contenimento della spesa pubblica e formazione di lavoratori acritici da adattare come giunchi alle richieste delle imprese. Come noto, nel luglio del 2015 il parlamento ha approvato a scuole chiuse una riforma che rimette al governo delle questioni di particolare importanza attraverso il meccanismo delle deleghe. Otto questioni di carattere diverso, alcune strategiche quali le modalità di assunzione del personale o l’istruzione professionale e, altre di forte civiltà, quali la riforma dell’inclusione degli alunni disabili.
Nello scorso gennaio, il nuovo consiglio dei ministri ha approvato i decreti delegati in materia di formazione e accesso all’insegnamento nella scuola secondaria di I e II grado, di inclusione degli alunni con disabilità, di istruzione professionale, di istruzione dalla nascita fino ai sei anni, di scuole italiane all’estero, di valutazione ed esami di stato e, infine, di promozione della cultura umanistica. Per la ministra Fedeli i decreti sono la “parte più innovativa della legge".
La “buona scuola”: come conciliare neoliberismo e burocrazia
Il pubblico è un carrozzone inefficiente e costoso. Questo è il vecchio cavallo di battaglia utilizzato dai media per sostenere i poteri taumaturgici dell’intervento privato. Peccato non vengano mai chiamati in causa decenni di prosciugamento delle risorse a tutto il comparto pubblico, scuola in testa.
I decreti delegati confermano che le attività scolastiche verranno sostenute “compatibilmente con le risorse disponibili”. Che sono già sfinite, salvo quando si parla di alternanza scuola-lavoro e di sostegno alle scuole private. Va ricordato che l’Italia è il paese europeo che spende meno per la scuola pubblica.
Nel 2015, la ministra Giannini dichiarava la volontà di riformare in maniera virtuosa il ciclo prescolare da zero a sei anni. Oggi, la montagna del Miur ha partorito una cavia famelica. Il governo progetta di gettare finalmente la spugna di fronte alla carenza di posti nelle strutture pubbliche e riconosce il privato quale parte integrante di un sistema che dovrebbe garantire l’accesso al ciclo prescolare a tutti i bambini. Non solo a quelli che hanno i genitori coi soldoni per pagare la retta. Di fatto, viene serenamente sancita l’esclusione di migliaia di bambini dagli asili pubblici.
I tagli si abbattono come uno tsunami su un ambito che vedeva la scuola italiana primeggiare nel mondo: l’inclusione dei ragazzi disabili. Figlia delle lotte degli anni ’70 che hanno portato all’abolizione delle classi differenziali con la legge 517/1977, l’inclusione dei disabili nella scuola si è declinata attraverso forme di integrazione trasversali affidate ad insegnanti specializzati. Così è nata la figura dell’insegnante di sostegno, un professionista specializzato nelle proprie discipline (lettere, matematica, ecc.) e nel sostegno alle disabilità che vengono ricondotte a una semplificazione o differenziazione della programmazione ordinaria. In questo quadro, l’insegnante di sostegno opera collegialmente coi colleghi e con gli alunni in classe. Si tratta di una figura professionale che simbolicamente esprime la volontà di accogliere le esigenze dell’alunno, della famiglia, della scuola.
Il decreto si inserisce sul solco di altre modalità “legali” di tagli: la legge 170/2010 che sottrae gli insegnanti di sostegno ai ragazzi dislessici, il DM che istituisce gli alunni portatori di bisogni educativi speciali e li “scarica” sui docenti curriculari che devono operare da soli in classe in contesti – appunto – assai complessi. In questo contesto di “buona scuola” e di aumento del carico del lavoro, le statistiche segnalano la crescita delle patologie professionali di carattere psichiatrico e tumorale fra gli insegnanti.
La riforma dell’inclusione architetta una modalità di riconoscimento del diritto al sostegno degli alunni disabili attraverso una trafila che parte dall’INPS e arriva ai – nuovi – “gruppi territoriali per l’inclusione” che non operano su una scuola, ma su un territorio. A questa istituzione, inevitabilmente lontana dalla realtà dei singoli istituti, spetterebbe l’onere di attribuire le ore di sostegno agli alunni, compatibilmente con le solite, poche, risorse disponibili e le nuove modalità di ricezione delle scuole, inevitabilmente “ristrutturate” come se fossero gli stabilimenti della stessa azienda. Ad esempio, la famiglia di un alunno disabile potrebbe chiedere di iscrivere il proprio figlio ad un istituto che… ha ormai dismesso il sostegno perché la rete territoriale indirizza i casi più gravi in un’altra scuola. Un ritorno ai tempi della differenziazione, nel nome delle necessità dell’austerity e della flessibilità di indirizzo delle singole scuole.
Tutto ciò contribuisce a cestinare la retorica sull’autonomia dei singoli istituti, ormai ridotti a plessi degli ambiti territoriali. Qui le nuove burocrazie formate da funzionari, dirigenti scolastici, qualche docente “selezionato” e vari ed eventuali decidono sulle necessità di alunni che… non hanno mai incrociato a scuola. Uno scollamento totale dalle realtà delle classi che è più simile alla freddezza della realtà impersonale dell’impresa che al calore delle relazioni umane tipiche della scuola.
La riforma degli esami di stato e quella dell’istruzione professionale delineano due aspetti inquietanti: la subordinazione delle attività scolastiche agli imperativi categorici delle prove Invalsi e dell’alternanza scuola-lavoro e, complessivamente, la limitazione della libertà di apprendimento dello studente.
In sintesi, il vecchio esame di maturità viene ristrutturato: media complessiva del sei (non più sufficienza in tutte le rispettive discipline), solo due prove scritte, prova orale priva della tesina sostituita da una discussione sull’esperienza di alternanza scuola-lavoro. Nella mia esperienza da insegnante ho visto tesine belle e bruttine, tesine scopiazzate, tesine “da manuale”, tesine sulla psichedelia, sui doors, sul calcio, una tesina a forma di cubo e un’esposizione intervallata da stacchi musicali. Fantastico. L’esposizione della tesina è una piccola grande prova che mette in luce il carattere e le capacità di un ragazzo. Ritengo che per molti studenti sia – e spero continui ad essere – una bella esperienza di ricerca e libero apprendimento. Magari sui grandi argomenti che sviluppano il senso critico e, sì se puede, il desiderio di cambiare il mondo: le mafie, la strategia della tensione, le guerre, le migrazioni ecc. Sul curriculum dello studente saranno segnalati anche titoli e abilità acquisite all’esterno della scuola. Elementi di distinzione qualitativa su cui grava l’inevitabile carattere classista.
A proposito di selezione di classe, per i ragazzi degli istituti professionali, i decreti prevedono meno materie “generaliste” e più lavoro. Gratuito. Laboratori, stage e alternanza già dal secondo anno, quando i ragazzi hanno mediamente 15 anni.
Vengono istituite modalità di intercambio con gli istituti territoriali di formazione professionale. Il ministero amplia l’offerta dei corsi formativi, da sei a undici, e progetta di legare di più le scuole al territorio, anche attraverso l’entrata in classe di esperti provenienti dal mondo del lavoro e dalle professioni. Il tutto in un’ottica di valorizzazione del made in Italy e della narrazione dei suoi eroi, quelli dei voucher, dei subappalti e del generalizzato abbassamento di tutele e salari. Al contrario, sarebbe interessante formare i giovani sulle condizioni reali del mondo del lavoro, sulle necessità di un’economia e di una gestione dei territori (perennemente soggetti ad alluvioni, frane, terremoti, ecc.) alternativa a quella attuale, sulle – troppe e surreali - tipologie contrattuali esistenti.
Relativamente al reclutamento dei futuri insegnanti, per insegnare nella scuola sarà necessario vincere un concorso che darà accesso a un percorso di formazione-lavoro di tre anni: un primo anno di corso e abilitazione e due anni di tirocinio. In questo lungo periodo, gli insegnanti verrebbero retribuiti con una sorta di sussidio di povertà. Ne consegue che chi non ha un bagaglio economico da investire in un periodo lungo di formazione lavoro… deve sognare per sé un futuro e una professione diversa da quella dell’insegnamento. Con sarcasmo e amarezza, emerge quanto misterioso sia comprendere i motivi che spingono un sano individuo laureato ad ambire ad una professione tanto piena di responsabilità quanto povera di riconoscimento economico e mediatico.
Il referendum costituzionale ha messo in evidenza l’enorme dissenso che il ciclo di “riforme” produce fra i cittadini. Gli scioperi e le iniziative di lotta mosse nel 2015 hanno raccolto i primi risultati di carattere politico solo un anno e mezzo dopo. Con le deleghe alla legge 107, il governo conferma la volontà di proseguire su una linea che produrrà nuove contraddizioni e ulteriore dissenso. Vanno implementate nuove dinamiche di collaborazione virtuosa fra i soggetti che si muovono nel mondo della formazione, dell’educazione, del lavoro, dell’inclusione, delle culture. Superare una logica vertenziale a compartimenti stagni, poiché i processi di rivoluzione industriale – che ricadono sulla scuola attraverso le politiche di riforma – hanno già stravolto la tradizionale dialettica politica e sindacale. Anche nella scuola “se non valgo, non produco”.
Fonte: lacittafutura.it
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