La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 agosto 2015

Aiutiamoli a casa nostra

di Guido Viale
Pro­fu­ghi e migranti sono per­sone che oggi distin­gue solo chi vor­rebbe ribut­tarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, sal­gono sulle stesse imbar­ca­zioni che sanno già desti­nate ad affon­dare, hanno attra­ver­sato gli stessi deserti, si sono sot­tratte alle stesse minacce: morte, mise­ria, fame, schia­vitù sanno già che con quel viag­gio, che spesso dura anni, mette a rischio la loro vita e la loro integrità.
Quelli che par­tono dalla Libia non sono libici: ven­gono da Siria, Eri­trea, Soma­lia, Nige­ria, Niger o altri paesi sub­sa­ha­riani scon­volti da guerre o dit­ta­ture. Quelli che par­tono dalla Tur­chia per rag­giun­gere un’isola greca o il resto dell’Europa attra­ver­sando Bul­ga­ria, Mace­do­nia e Ser­bia non sono tur­chi: sono siriani, afgani, ira­niani, ira­cheni, pale­sti­nesi e fug­gono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbar­cano in Libia; ma nes­suno ha pro­po­sto di inva­dere la Tur­chia, o di bom­bar­darne i porti, per bloc­care quell’esodo, come si pro­pone di fare in Libia per risol­vere il “pro­blema profughi”.
Non si con­ce­pi­sce nient’altro che la guerra per affron­tare un pro­blema creato dalla guerra: guerre che l’Europa o i sui Stati mem­bri hanno con­tri­buito a sca­te­nare; o a cui ha assi­stito com­pia­cente; o a cui ha par­te­ci­pato. Bom­bar­dare i porti della Libia, o occu­parne la costa per bloc­care quell’esodo non è che il rim­pianto di Ghed­dafi: degli affari che si face­vano con lui e con il suo petro­lio e del com­pito di aguz­zino di pro­fu­ghi e migranti che gli era stato affi­dato con trat­tati, finan­zia­menti e “assi­stenze tec­ni­che”. Dopo aver però con­tri­buito a disar­cio­narlo e ad ammaz­zarlo con­tando sul fatto che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima.
Già solo que­sto abba­glio, insieme agli altri che lo hanno pre­ce­duto, seguito o accom­pa­gnato – in Siria, in Afgha­ni­stan, in Iraq, in Mali o nella Repub­blica cen­troa­fri­cana – dovrebbe indurci non solo a dif­fi­dare, ma a opporci in ogni modo ai pro­grammi di guerra di chi se ne è reso responsabile.
Ma chi pro­pone un inter­vento mili­tare in Libia, o mette al cen­tro del “pro­blema pro­fu­ghi” la lotta agli sca­fi­sti, non sa in realtà che cosa fare. Tra l’altro, bloc­care le par­tenze dalla Libia non farebbe che river­sare quel flusso su altri paesi, tra cui la Tuni­sia, ren­dendo ancora più insta­bile la situazione.
Ma soprat­tutto non dice – e forse non pensa: il pen­siero non è il suo forte – che cosa sta pro­po­nendo vera­mente: si tratta di respin­gere o trat­te­nere quel popolo dolente, di ormai milioni di per­sone, nei deserti che sono una via obbli­gata della loro fuga, e che hanno già inghiot­tito più vit­time di quante ne ha anne­gato il Medi­ter­ra­neo; magari appog­gian­dosi, con il cosid­detto “pro­cesso di Khar­tum”, a qual­che feroce dit­ta­tura sub­sa­ha­riana per­ché si inca­ri­chi lei di farle scom­pa­rire. E’ il risvolto mici­diale, ma già in atto, dell’ipocrisia die­tro a cui si ripa­rano i nemici dei pro­fu­ghi: “aiu­tia­moli a casa loro”.
Invece biso­gna aiu­tarli a casa nostra, in una casa comune da costruire con loro. Non c’è altra alter­na­tiva al loro ster­mi­nio, diretto o per inter­po­sta dit­ta­tura. Biso­gna innan­zi­tutto smet­tere di sot­to­va­lu­tare il pro­blema, come fanno quasi tutte le forze di sini­stra, e in parte anche la chiesa, spe­rando così di neu­tra­liz­zare l’allarmismo di cui si ali­men­tano le destre. Certo, 50.000 pro­fu­ghi (quanti ne sono rima­sti di tutti quelli sbar­cati l’anno scorso in Ita­lia) su 60 milioni di abi­tanti, o 500mila (quanti hanno rag­giunto l’anno scorso l’Unione Euro­pea) su 500 milioni di abi­tanti non sono molti. Ma come si vede, soprat­tutto per il modo in cui ven­gono mal­trat­tati, sono suf­fi­cienti a creare insof­fe­renze insostenibili.
Ma i pro­fu­ghi di que­sto e degli ultimi anni sono solo l’avanguardia degli altri milioni sti­pati nei campi del Medio­riente o in arrivo lungo le rotte deser­ti­che dai paesi sub­sa­ha­riani: che non pos­sono restare dove sono. Vogliono rag­giun­gere l’Europa e in qual­che modo si sen­tono già cit­ta­dini euro­pei, anche se sanno di non essere gra­diti e desi­de­rano tor­nare a casa quando se ne pre­sen­te­ranno le condizioni.
L’Unione euro­pea in mano all’alta finanza e agli inte­ressi com­mer­ciali del grande capi­tale tede­sco ha con­cen­trato le sue poli­ti­che nel far qua­drare i bilanci degli Stati mem­bri a spese delle loro popo­la­zioni e nel garan­tire il sal­va­tag­gio delle sue grandi ban­che. Così, anno dopo anno, ha per­messo o con­corso a far sì che ai suoi con­fini si creas­sero situa­zioni di guerra e di caos per­ma­nenti, di dis­so­lu­zione dei poteri sta­tali, di con­flitti per bande di cui l’ondata di pro­fu­ghi e di migranti è la più diretta conseguenza.
Non saranno altre guerre, e meno che mai i respin­gi­menti, a met­tere fine a uno stato di cose che l’Unione non rie­sce più a gover­nare né den­tro né fuori i suoi con­fini. A ripren­dere le fila di quei con­flitti, e del con­flitto che si sta acuendo per gli sbar­chi e gli arrivi, non può che essere un nuovo pro­ta­go­ni­smo di quelle per­sone in fuga: le uni­che che pos­sono defi­nire e soste­nere una pro­spet­tiva di pace nei paesi da cui sono fug­giti. Ma que­sto, solo se saranno messe in con­di­zione di orga­niz­zarsi e di con­tare come inter­lo­cu­tori prin­ci­pali, insieme ai loro con­na­zio­nali già inse­diati sul suolo euro­peo e a tutti i nativi euro­pei che sono dispo­sti ad acco­glierli e ad alle­viare le loro sof­fe­renze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedi­cano alcuna attenzione.
Dob­biamo “acco­glierli tutti”, come rac­co­man­dava più di un anno fa Luigi Man­coni; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto, la pos­si­bi­lità di auto­ge­stire la pro­pria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavo­rare, di gua­da­gnare. Ma non sono troppi, in un paese e in un con­ti­nente che non rie­sce a garan­tire que­ste cose, e soprat­tutto lavoro e red­dito, ai suoi cit­ta­dini? Sono troppi per le poli­ti­che di auste­rity in vigore nell’Unione e impo­ste a tutti i paesi mem­bri; quelle poli­ti­che che non rie­scono a garan­tire que­ste cose a una quota cre­scente dei loro cit­ta­dini e che in que­sto modo sca­te­nano la “guerra tra poveri”.
Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte eco­no­mia del mondo, se solo inve­stisse, non per sal­vare le ban­che e ali­men­tare le loro spe­cu­la­zioni, ma per dare lavoro a tutti e ricon­ver­tire, nei tempi neces­sari per evi­tare un disa­stro pla­ne­ta­rio irre­ver­si­bile, il suo appa­rato pro­dut­tivo e le sue poli­ti­che in dire­zione della soste­ni­bi­lità ambien­tale. Il lavoro, se ben orien­tato, è ric­chezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la per­pe­tua­zione di uno sta­tus quo già ora insop­por­ta­bile, ma lo ster­mi­nio ai con­fini dell’Unione e la vit­to­ria, al suo interno, delle orga­niz­za­zioni raz­zi­ste che cre­scono indi­cando il nemico da com­bat­tere nei pro­fu­ghi e in tutti gli immi­grati. E se non pro­prio di quelle orga­niz­za­zioni, cer­ta­mente delle loro poli­ti­che fatte pro­prie da tutte le altre forze politiche.
Così il “pro­blema dei pro­fu­ghi”, non pre­vi­sto e non affron­tato dalla gover­nance dell’Unione, per­ché non ha né posto né solu­zione nel qua­dro delle sue poli­ti­che attuali, può diven­tare una leva per scar­di­narle per sosti­tuirle con un grande piano per creare lavoro per tutti e per rea­liz­zare la con­ver­sione eco­lo­gica dell’economia: due obiet­tivi che in una pro­spet­tiva di inva­rianza del qua­dro attuale non hanno alcuna pos­si­bi­lità di essere rag­giunti. E’ a noi ita­liani, e ai greci, che tocca dare ini­zio a que­sto movi­mento. Per­ché siamo i più espo­sti: le vit­time desi­gnate del disin­te­resse europeo.

Fonte: Il manifesto

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