di Annalisa Camilli
Appena un mese fa il video di Angela Merkel che fa piangere una ragazzinapalestinese ha fatto il giro del web. Siamo stati tutti colpiti dalla mancanza di empatia della cancelliera, che ha risposto senza giri di parole a Reem Sahwil, una richiedente asilo che in un tedesco perfetto aveva espresso il suo desiderio: “Vorrei avere una vita come tutti gli altri, andare all’università in Germania”.
Merkel ha risposto: “La politica a volte è dura. Tu ora sei qui davanti a me e sei una brava persona. Ma in Libano ci sono migliaia e migliaia di profughi palestinesi che vogliono venire qui e se noi dicessimo sì, vorrebbero venire tutti quanti, non ce la faremmo a gestire la situazione. L’unica cosa che possiamo fare è prendere una decisione sulle espulsioni di chi non è in regola”.
Le parole della cancelliera hanno fatto scoppiare a piangere Reem, che è arrivata in Germania con la sua famiglia quattro anni fa, per curare dei problemi di deambulazione, e rischiava di essere rimandata in un campo profughi in Libano perché la domanda d’asilo della sua famiglia, rimasta per quattro anni senza risposta, era stata respinta.
Dopo quel video, ci siamo concentrati tutti quanti sulla durezza di Merkel e sulle lacrime di Reem, invece avremmo dovuto andare oltre e stupirci dei tempi biblici impiegati dalla Germania per esaminare una domanda d’asilo.
Il fatto è grave e segnala un fenomeno che è poco noto: le autorità tedesche sono in difficoltà e il fenomeno rischia di aggravarsi se si considera che nei primi mesi del 2015 il flusso di richiedenti asilo nel paese è aumentato del 132 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Secondo Amnesty international, in Germania ci vuole almeno un anno per un richiedente asilo per avere un appuntamento con le autorità e presentare la sua domanda. Per avere una risposta poi possono passare anni.
In parte dipende anche dalle nazionalità dei richiedenti asilo: i siriani e i profughi dei Balcani (albanesi e kosovari) hanno procedure prioritarie. Non è così per i palestinesi o per gli eritrei, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki, sempre più spesso diretti in Germania. “Le autorità tedesche sono sopraffatte dal flusso di migranti”, afferma Rebecca Kilian-Mason, operatrice di Amnesty international a Monaco di Baviera.“Non riescono a fare i conti con la prospettiva di un numero di domande di asilo che è in aumento”.
“L’attuale flusso di rifugiati ci pone di fronte a grandi sfide”, ha dichiarato il ministro degli interni tedesco Thomas de Maizière il 13 luglio scorso, dicendo che, nei primi sei mesi del 2015, 179mila persone hanno presentato domanda d’asilo in Germania. E se i ritmi rimangono simili entro la fine dell’anno saranno più di 400mila.
“Molti comuni della Germania si sentono sopraffatti dal numero crescente di rifugiati e la domanda più frequente che si sente ripetere sul tema è: dove li mettiamo? C’è chi li ha messi nelle caserme vuote, chi nelle palestre, chi chiede ai cittadini di ospitarli in casa, chi li mette nei container, chi nelle tende. Ma, invece, ci si dovrebbe occupare di farli uscire nel minor tempo possibile dalla condizione sospesa in cui si trovano”, sostiene in un rapporto l’associazione Pro asylum, che si occupa dei diritti dei rifugiati in Germania.
Il viaggio è finito, ora comincia l’attesa
Mengis e Robiel abitano da un mese in un container alla periferia di Amburgo. I due ragazzi dormono in un piccolo rettangolo, sei metri per due, insieme ad altri due coetanei eritrei. Due letti a castello, un tavolo per mangiare, quattro sedie, una finestra. Hanno degli armadietti da palestra di ferro con un lucchetto per riporre le loro poche cose. I bagni sono in comune con gli altri richiedenti asilo del campo.
Conservano tutto il loro mondo nel telefono: le foto degli amici, i numeri dei familiari, la musica. Nella stanza non c’è spazio per muoversi, i ragazzi passano la maggior parte del tempo sul letto, a giocare con il telefono, a studiare il tedesco e ad annoiarsi. La legge non gli permette di fare altro.
Sono richiedenti asilo eritrei, sono arrivati in Germania con un treno da Bolzano. Poi da Monaco, dopo essere stati fermati dalla polizia perché non avevano i documenti, hanno preso un autobus che li ha portati ad Amburgo: la città più ricca della Germania con un reddito pro capite che è quasi il doppio della media europea.
Amburgo la grande, con i suoi quattro milioni e mezzo di abitanti, Amburgo la fredda con i suoi gelidi inverni e le sue tiepide estati, la ricca Amburgo con il suo porto tra i più importanti d’Europa, gli arsenali e le aziende; Amburgo la colta, sede di quasi tutte le più importanti riviste e gruppi editoriali tedeschi. Infine la libera Amburgo. “I posteri abbiano cura di conservare degnamente la libertà che gli antenati partorirono”, è il motto della città, riprodotto su tazze e magliette a uso e consumo dei turisti.
Da qui i due ragazzi eritrei, fuggiti dal servizio militare a tempo illimitato e dai lavori forzati imposti alla popolazione dal regime di Afewerki, hanno deciso di ricominciare la loro vita. Sono arrivati in Germania all’inizio di luglio, dopo un viaggio pericoloso e difficile, e ora stanno aspettando di essere chiamati dalle autorità tedesche per presentare le loro domande di asilo. Questa attesa potrebbe durare anche un anno.
Le giornate sono lunghe e vuote. Nel campo vivono centinaia di richiedenti asilo. Si va a scuola per imparare il tedesco. Non si può lavorare per i primi tre mesi di residenza in Germania. Un gruppo di curdi iracheni gioca a domino, sotto l’unico albero del campo. Ci sono curdi, kosovari, albanesi, afgani, iracheni ed eritrei. Ma i diversi gruppi etnici non interagiscono molto tra di loro.
Gli operatori umanitari vengono ogni giorno, in particolare si occupano dei bambini, li fanno giocare negli spiazzi polverosi del campo, cercano di spiegargli cosa sta succedendo. I container sono alti due metri e mezzo, sono disposti su due piani, al piano di sopra si sale con delle scale di ferro. In quindici metri quadrati vivono quattro persone.
Il campo sorge vicino allo stadio Imtech Arena, non lontano dal centro della città, ma isolato. Dalla stazione della metro Stellingen Arena si deve camminare venti minuti attraverso un parco, il campo è nascosto alla vista dei residenti, sotto a una collina verdeggiante, stretto tra un parcheggio, l’autostrada e la ferrovia. È circondato da alte recinzioni e di notte è illuminato da fari, come un campo da calcio. Alcuni poliziotti svogliati sono seduti a sorvegliare ai margini della recinzione.
L’entrata e l’uscita sono consentite, ma bisogna registrarsi ogni volta. I ragazzi hanno dei documenti temporanei d’identificazione con il loro nome e la loro foto. All’ingresso c’è una tabella con delle lettere, che i ragazzi indicano ai poliziotti tedeschi per comporre il loro nome.
“Adesso che sono arrivato ho cominciato a pensare”, racconta Mengis. “Le giornate sono lunghe e di pensieri ne ho tanti”. In effetti proprio ora che è arrivato a destinazione Mengis sembra più spento e pensieroso, più preoccupato per il suo futuro. “Sono nervoso per l’intervista. Mi sto preparando giorno e notte, ma non so come andrà, chi avrò di fronte”.
“L’intervista”, come la chiamano, è fonte di grande preoccupazione per gli ospiti del campo. Al momento della presentazione della domanda davanti alle autorità tedesche, i richiedenti asilo sono sottoposti a un interrogatorio nel quale devono spiegare come sono arrivati in Germania e dimostrare che hanno diritto a qualche forma di protezione internazionale. Le autorità tedesche devono accertare che il richiedente asilo non sia un “dublinante”, cioè che non sia entrato per la prima volta nell’Unione europea da un altro stato europeo e che quindi, per il regolamento di Dublino, non debba presentare domanda di asilo altrove.
Tutti temono di essere rimandati indietro. Adesso che è arrivato dove sognava, Mengis si concede di essere triste e di ritornare con il pensiero alle difficoltà che ha superato. Solo ora racconta della cicatrice che gli spunta sotto i ricci, sul cranio. Gliel’hanno fatta in Libia, i trafficanti, quelli che sorvegliano i migranti dentro le case e i magazzini che fungono da centri di raccolta prima della partenza per attraversare il Mediterraneo.
“Mi hanno chiesto dei soldi, e io gli ho dato tutto quello che avevo. Ma non gli è bastato, era poco. Allora mi hanno chiesto altri soldi. Io ho detto che non avevo più niente e allora mi hanno dato una botta con il fucile. Mi hanno colpito in testa, e mi hanno fatto questo taglio”, racconta e non è spaventato, ma svuotato, gli occhi grandi e allungati di gazzella, fissi nel suo ricordo. Non è l’unica cicatrice che porta della Libia. Sulla spalla ha un altro taglio: l’hanno aggredito dei banditi sulla strada verso Tripoli.
“In Libia è normale, per i libici è normale. Solo perché sei straniero pensano di poterti fare quello che vogliono”, racconta. “Tutti fanno quello che vogliono in Libia”.
Mengis si abbandona allo sconforto. Non sa nulla del suo futuro. E se la sua domanda fosse rifiutata? Così pensa alle ore di cammino senza acqua al confine tra l’Eritrea e il Sudan, il timore di essere fermati dall’esercito eritreo che non è tenero con chi prova a lasciare il paese. I campi profughi in Sudan e poi il lungo viaggio attraverso la Libia in mano ai trafficanti. I camion dei trafficanti carichi di uomini e donne, che sfrecciano a tutta velocità nelle strade desertiche del paese nordafricano. Qualcuno a volte cade dal camion per la velocità, ma il mezzo non si ferma. Un suo compagno di viaggio ha perso sua moglie e suo figlio in questo modo. Sono caduti dal camion che andava troppo veloce nelle autostrade di polvere del deserto. Sono in tanti a morire così.
Robiel ha conservato sul telefono un’unica foto, in realtà era nella sim che è riuscito a estrarre dal telefono prima che i trafficanti sequestrassero tutto. Nella foto ci sono decine di ragazzi eritrei, ma anche sudanesi, somali. Seduti per terra, nelle case dei trafficanti. Aspettano che il prossimo gommone parta per l’Europa.
Robiel è più pragmatico di Mengis, pensa che i richiedenti asilo del campo dovrebbero organizzarsi per affrontare l’attesa. Magari un campionato di calcio potrebbe essere d’aiuto. “Le ore e i giorni sono lunghi nel campo senza poter lavorare e i pensieri corrono”, racconta. “Io vorrei fare il falegname. Ma finché non mi fanno l’intervista non posso farmi riconoscere il titolo professionale da falegname che avevo preso in Eritrea”, racconta. “Forse giocare a calcio potrebbe aiutarci”, sospira.
Robiel non è l’unico ad aver avuto questa idea. Un gruppo di rifugiati un anno fa ha formato una squadra di calcio che si allena tutte le settimane ad Amburgo: la FC Lampedusa Hamburg. La squadra è aperta a rifugiati, richiedenti asilo e migranti di tutte le nazionalità. “Ci alleniamo tutte le settimane il mercoledì con dei veri allenatori. Partecipiamo ai tornei in cui ci invitano o che organizziamo, ci interessa tenere alta l’attenzione sulla situazione dei rifugiati in Germania e nell’intera Fortezza Europa. Non ci importa che i ragazzi che giocano con noi abbiamo o no i documenti in regola”, spiega Hagar, uno degli allenatori. “La parola che si sente ripetere più spesso durante gli allenamenti è my friend, amico mio”, afferma. “In effetti è questo lo spirito del gioco e lo spirito della squadra, creare legami”.
Il motto della squadra d’altro canto potrebbe essere lo slogan di un’internazionale dei richiedenti asilo e dei migranti d’Europa: “Siamo qui per giocare, siamo qui per restare”.
Gli eritrei ad Amburgo e le difficoltà del sistema tedesco
Gli eritrei ad Amburgo sono una piccola comunità. I luoghi storici della loro diaspora in Germania sono Francoforte, Stoccarda, Giessen e Kassel. In queste città vivono migliaia di eritrei fuggiti dal paese tra il 1961 e il 1991. “Ci sono seconde e terze generazioni, i figli e i nipoti di quelli che si sono trasferiti in Germania negli anni ottanta, durante la guerra d’indipendenza dall’Etiopia”, spiega Nicole Hirt dell’università di Amburgo.
“Ad Amburgo, se si escludono i nuovi arrivati con l’ultima ondata migratoria, risiedono tra i 300 e i 500 eritrei che hanno la nazionalità tedesca. Vivono tutti in condizioni di povertà e non sono organizzati in comunità, come in altre città tedesche”, spiega Hirt. “Pensa che non c’è nemmeno un ristorante eritreo ad Amburgo. Questi luoghi di solito diventano dei punti di aggregazione per gli immigrati, che in tutti i paesi sono divisi tra sostenitori del regime e oppositori”, dice Hirt.
Dal 2002 è cominciata uno nuova ondata migratoria dall’Eritrea verso l’Europa. “In parte perché nel 2002 il regime ha esteso da 18 mesi a tempo illimitato il servizio militare obbligatorio. A 18 anni la leva riguarda i ragazzi e le ragazze e i maschi possono rimanere in servizio fino a cinquant’anni. Per le donne, la leva non può andare oltre i 27 anni di età”, continua a spiegare la ricercatrice dell’università di Amburgo.
Questo meccanismo, insieme alla situazione economica precaria del paese, ha determinato negli ultimi anni un esodo di massa di minori non accompagnati che le famiglie mandano in Europa prima dei 18 anni. L’afflusso di richiedenti asilo verso Amburgo ha trovato impreparati i funzionari della città del nord, che non era stata interessata dal fenomeno in precedenza.
A Nernstweg, in una stradina di Amburgo, si trova il centro che si occupa dei rifugiati della città: il Flüchtlingsrat Hamburg. Hermann Hardt, il funzionario che ci accoglie, sembra piuttosto sorpreso dell’attenzione mediatica che stanno ricevendo i rifugiati negli ultimi tempi ad Amburgo. Non sono abituati a questi numeri e nemmeno alle attenzioni dei mezzi d’informazione. Nei primi sei mesi del 2015 sono arrivati ad Amburgo circa seimila richiedenti asilo.
Recentemente è stato mandato l’esercito in città per costruire nuovi alloggi temporanei. Hardt mi mostra preoccupato un grafico che mette in relazione i nuovi arrivi con i posti disponibili, che sono insufficienti.
Il sistema di accoglienza per richiedenti asilo in Germania è gestito in maniera autonoma dai 16 länder, gli stati in cui è divisa la repubblica federale tedesca. Vige però un principio di ridistribuzione dei richiedenti asilo all’interno del territorio federale. In alcuni stati i richiedenti asilo sono ospitati in abitazioni, mentre in tre stati (Baden-Württemberg, Brandeburgo e Sassonia) sono stati accolti in campi profughi.
In un rapporto del settembre del 2014, l’organizzazione Pro asylum ha denunciato che in tutti gli stati c’è un fenomeno di emergenza abitativa per i rifugiati. Il rapporto ha inoltre mostrato che l’assegnazione degli appalti per l’alloggio dei profughi non tiene conto della qualità delle abitazioni e che i fondi stanziati dal governo non bastano a coprire le spese sostenute dai land per la sistemazione dei rifugiati.
Lo studio di Pro asylum denuncia che il sistema federale tedesco lascia ampi margini di discrezionalità agli stati e ha fatto sì che non fossero determinati degli standard comuni per l’accoglienza.
“In tutte le province sono emersi dei problemi e dei deficit nel sistema di accoglienza. Non esistono sistemi di certificazione comune o di ispezione delle condizioni dei campi”, spiega il rapporto. “In un simile contesto, non sorprende che emergano denunce di carenze igieniche, della presenza di parassiti e della mancanza di controlli nei campi. Inoltre la presenza di personale qualificato non è garantita”, continua Pro asylum.
A causa del forte aumento dell’afflusso di richiedenti asilo la situazione in molti centri di accoglienza è difficile. Stefan Telöken, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), conferma: “Le autorità stanno lavorando sodo per trovare una sistemazione, ma spesso devono improvvisare. Oltre all’affitto di edifici vuoti o di camere di hotel in alcune città, i richiedenti asilo sono sistemati provvisoriamente in tendopoli, palestre o caserme vuote. Le loro condizioni di vita cambiano a seconda degli stati. Tuttavia, al momento molti centri di prima accoglienza sono sovraffollati”.
Sotto attacco
Parallelamente, in Germania è cresciuto in maniera preoccupante anche il numero delle violenze e degli attacchi xenofobi. Nei primi sei mesi del 2015, sono stati registrati 200 episodi di violenza contro i centri di accoglienza. E il fenomeno è di sicuro sottostimato perché i richiedenti asilo non denunciano volentieri le violenze perché temono che possa comportare loro dei problemi.
A Dresda, il movimento di estrema destra e xenofobo Pegida ha portato in piazza 25mila persone contro gli immigrati e alle elezioni amministrative di giugno ha registrato un buon risultato: ha preso il 10 per cento dei voti mentre secondo i sondaggi avrebbe dovuto prendere tra l’1 e il 2 per cento. Nonostante a Dresda sia presente una percentuale molto bassa di immigrati (il 9 per cento) rispetto ad altre città tedesche, le posizioni di Pegida contro gli immigrati hanno molto seguito.
A Freital, vicino a Dresda, i richiedenti asilo sono vittime di minacce e attacchi quasi quotidiani e vivono barricati nell’hotel in cui li hanno sistemati le autorità. Un deputato della Linke, Michael Richter, che aveva condannato le violenze contro i richiedenti asilo a Freital, è stato attaccato a sua volta: la sua auto è saltata in aria fuori della sua abitazione.
A Tröglitz, nella Germania orientale, a fine luglio è stata lanciata una molotov contro l’abitazione assegnata a una famiglia di richiedenti asilo dell’Inguscezia. La casa è stata distrutta e le autorità non hanno dubbi sul fatto che si sia trattato di un attacco razzista dell’estrema destra.
“Spesso la xenofobia è più diffusa nelle aree dove la presenza di stranieri è meno forte. Come in altri paesi d’Europa, persiste il timore di perdere la propria identità sociale e culturale”, spiega Stefan Telöken dell’Unhcr. “È incoraggiante, però, che la società civile tedesca e le autorità abbiano condannato in maniera molto chiara gli episodi di xenofobia e abbiano difeso la lunga tradizione della Germania come paese d’asilo che ha offerto protezione internazionale a migliaia di persone che ne hanno bisogno”.
Fonte: Internazionale
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