di Monica Pareschi
Oggi con mio figlio ho assistito a un pestaggio.
Diciotto e trenta, un venerdì di fine primavera. Sono con Arun al piccolo supermercato vicino a casa: una zona al confine tra un quartiere altoborghese e uno creativo, risultato della gentrification di un rione popolare e artigiano incastrato tra il centro e la prima circonvallazione. Dépendance commerciale del triangolo nobile tra nucleo storico e quartiere liberty, e ciò che resta della città romana all’ombra della cattedrale intitolata al santo vescovo: ricettacolo notturno di piccola delinquenza e commerci carnali fino ai primi anni Ottanta, poi enclave sgarrupata di sinistra, ora miscellanea di botteghe che propongono design alternativo, moda ecosostenibile, cibo biologico, teiere giapponesi, didattica steineriana. Dal punto di vista urbanistico, la zona è poco compatta, e come la maggior parte della città non si può dir bella. L’atmosfera finto-delabré è data dal prevalere di case di ringhiera ormai del tutto convertite ad abitazioni borghesi, studi di architettura, società che organizzano eventi, con mansarde eleganti, appartamenti su due piani derivanti dalla fusione di più bilocali operai, loft che hanno preso il posto dei laboratori affacciati sui cortili.
Al venti o trenta per cento gli appartamenti sono ancora occupati dai vecchi inquilini, ex artigiani o pensionati con l’affitto bloccato. Ideologicamente parlando, vige un blando, annacquato orientamento a sinistra, più estetico che morale, più ereditario che reattivo, un qualunquismo progressista inevitabile e sottinteso. Noi che abitiamo qui siamo venuti, una quindicina di anni fa, per stare tra quelli come noi, vestirci come ci pare, vivere rilassati come in un piccolo centro, sentirci parte di una comunità morbida, multietnica, solidale. Rispetto al resto della città, irrigidita in un’ostentazione operosa che ne regola i modi e i riti, qui si vive quasi come in vacanza.
Al venti o trenta per cento gli appartamenti sono ancora occupati dai vecchi inquilini, ex artigiani o pensionati con l’affitto bloccato. Ideologicamente parlando, vige un blando, annacquato orientamento a sinistra, più estetico che morale, più ereditario che reattivo, un qualunquismo progressista inevitabile e sottinteso. Noi che abitiamo qui siamo venuti, una quindicina di anni fa, per stare tra quelli come noi, vestirci come ci pare, vivere rilassati come in un piccolo centro, sentirci parte di una comunità morbida, multietnica, solidale. Rispetto al resto della città, irrigidita in un’ostentazione operosa che ne regola i modi e i riti, qui si vive quasi come in vacanza.
Oggi con mio figlio ho assistito a un pestaggio, dunque.
Terza settimana di giugno e fa già caldo, l’aria appiccica. Nel piccolo supermercato l’impianto di condizionamento ci ghiaccia il sudore sulla pelle, soffiandoci addosso quell’odore vagamente stomachevole di frigorifero pieno, folate gelide che portano aromi di salume bisunto, sentori di crosta di pane, detersivo, caffè, prezzemolo, carne, plastica, banana. Una piccola morgue commestibile. Dico a mio figlio di prendere il cestino verde piccolo con le rotelle, lui lo estrae dalla pila vicino alle porte automatiche e se lo trascina dietro. Percorriamo svagati le poche corsie, io senza metodo, Arun incrociando i piedi e seguendo una traiettoria imperscrutabile nella sua testa, prendiamo yogurt alla vaniglia, biscotti, olive, cereali e pasta biologica, dentifricio, sapone all’Argan marocchino, kefir, detersivo ecologico, pane di kamut affettato, amuchina. A quest’ora c’è un po’ di fila alle due casse aperte, ci mettiamo in attesa del nostro turno. Arun è annoiato, sbadiglia, giocherella con la cerniera dei bermuda, stira il collo e arrovescia la testa, si appende allo scollo della maglietta.
“Non fare così che si allarga” dico automaticamente.
“Quanti giorni mancano alla fine della scuola?” chiede lui strascicando la voce, gonfiando le guance e facendo ciondolare il mento in avanti.
“Me lo chiedi tutti i giorni,” dico vagamente esasperata “possibile che non ti fai i conti da solo? La scuola finisce l’otto anche oggi, pensa un po’”.
“E oggi che giorno è” attacca lui.
“Se ieri era il diciannove oggi è il venti, che dici? Pollo che sei”.
“Se io sono pollo tu sei gallina, sappilo”.
“Grazie tante. Compiti per domani ne hai?”.
“Leggere pag settantotto settantanove ottanta di storia”.
“Greci o romani? Poi che modo di parlare è pag?”.
“Romani. Pag sta per pagina, gallina che sei”.
“Ehi. Bada a come parli a tua madre”.
“Sissignora. Scusi signora”.
Si porta il taglio della mano alla fronte, batte i tacchi.
Mi sporgo dalla fila per dare un’occhiata alla cassa, un vecchio dall’aria stranita sta bloccando il flusso per qualche contestazione che riguarda una serie di punti accumulati con un certo prodotto. La cassiera bielorussa slavata e belloccia, nel suo grembiule marrone chiaro, lo guarda con aperta villania. Sbuffo, spazientita. La giovane executive in tailleur chiaro e décolleté tacco cinque alle mie spalle consulta freneticamente l’I-phone e aggrotta la fronte. Scambio un’occhiata d’intesa con la donna che mi precede, una cingalese dal sedere morbido e le braccia carnose, fasciata in un kurta dai colori brillanti, fucsia e gialli, da cui spuntano pantaloni in tinta. La donna ha un sorriso paziente, timido, begli occhi vellutati e sporgenti, orbite scure, ciglia e sopracciglia folte, lucide, curate. Una colf a tempo pieno regolarmente assunta coi contributi, forse una badante o più probabilmente una portinaia, penso considerando il vago senso di autorità che emana dal suo corpo solido, abbondante, ben radicato nello spazio intorno. Ha con sé una bambina più o meno dell’età di mio figlio, magra e con lunghi capelli neri e crespi, legati, vestita all’occidentale, pantaloncini di jeans e maglietta rosa, ai piedi sandali bianchi decorati con pietruzze, eleganti: unica concessione all’idea materna di decoro femminile, chiaramente. La bambina ogni tanto sbircia di nascosto mio figlio, poi torna a fissare davanti a sé. A un certo punto incrociano gli sguardi per un attimo e tra i due passa un fulmineo cenno di riconoscimento, subito represso, poco più di un battito di ciglia e un saluto senza suono mimato dalle labbra: poi ciascuno distoglie gli occhi con una specie di imbarazzo.
“Viene a scuola con te?” bisbiglio.
“È della C però” fa lui con esagerata indifferenza. “Non è mia amica” mi previene alzando le spalle.
Evita anche il mio sguardo, capisco che è irritato. Lo salva dal mio interrogatorio un improvviso scoppio di voci alle nostre spalle, dove la fila finisce.
“Cosa succede?” fa lui, immediatamente vigile.
“Ma non so, la gente col caldo è nervosa. Non guardare, dai”.
Le voci si alzano, si fanno rauche.
“Litigano” mi avverte Arun.
“Che palle. Almeno si sbrigasse quello là. Voglio andare a casa, io. Ho voglia di togliermi le scarpe”.
“Cosa dicono?”. Arun si gira ancora platealmente a guardare, uscendo dalla fila.
“Ma non so, e poi chi se ne…”.
“… al tuo paese!”.
Il tono è insolente e la reazione confusa, la voce alta ma incomprensibile nel brusio che incomincia a levarsi dalla fila. Da dietro arriva un trepestio furioso, quasi una corsa.
“Cosa succede qui? Dove credevi di andare, tu? Dove credevate di andare, eh? Eh? Eh?”. Ogni volta la voce, con un pesante, insopportabile accento nordico, le vocali sguaiatamente aperte, le doppie allentate, slabbrate, sale di un tono.
La replica, farfugliata, viene da due concitate, cupe voci africane.
“… soldi. Ecco soldi. Tieni, io ho soldi”.
Adesso nella fila si girano tutti, come di malavoglia. Mi giro anch’io. Arun mi si fa più vicino. Il suo piccolo corpo teso, all’erta, tutti i nervi scoperti.
Due giovani africani magri, molto scuri e molto alti, in una sgargiante mise gialla e nera, caffettano lungo e pantaloni, lunghe mani e lunghi piedi dentro ciabatte sottili, e alti copricapi cilindrici in tinta, ondeggiano lentamente, come alberi in un blando vento. Cornee sgranate, bianchissime. Da dove arrivano, vestiti così? Da quanto sono arrivati, e come? Sotto di loro, due botoli tarchiati e rabbiosi, con la divisa arancione del negozio, gli abbaiano contro, i crani quasi rasati sui colli grossi, le facce molli e pallide, sformate dall’odio, la pelle di un bianco malato che vira al grigio, le bocche slargate, oscene, saliva che si aggruma agli angoli. Uno dei due africani ha in mano una banconota. Uno dei due botoli tiene due lattine in una mano, un pacchetto piccolo di patatine nell’altra.
Cinque euro. Io ho cinque euro. Ho soldi.
Il più feroce dei due botoli, quello con le mani libere, lo guarda sarcastico, digrigna i denti in un sorriso sconcio – vi conosco, io, oh, vi conosco -, fa un gesto con la mano e dà un’occhiata all’altro cane, come a dirgli Ma guarda questo. Adesso, vuole pagare.
Intanto dal retro sono arrivati i rinforzi.
Cosa cazzo succede qua? Andate a rubare a casa vostra, voi!
L’africano si avvicina al mastino, col lunghissimo braccio teso e la banconota tra pollice e indice. Con le tre dita libere gli tocca appena la clavicola, accennando quasi un sorriso. È il gesto conciliante e invasivo che fanno a volte i senegalesi per strada quando vogliono convincerti a comprare. Ciao bella. Compra qualcosa, dottoressa. Dai. Un euro per mangiare.
Levami le mani di dosso, animale! Un ruggito. Ora si avverte una specie di iato, una sospensione nel tempo che è attesa, timore, anticipazione, speranza, godimento. Nella fila accanto, una giovane donna pallida, coi capelli lunghi e l’espressione vagamente sofferente, scarpette di tela rasoterra e sciarpa etnica, due confezioni di latte di riso, fiocchi di farro e lenticchie nel carrello, fissa lo sguardo sul pavimento, concentrata. La bambina cingalese incomincia a singhiozzare pianissimo, nasconde il viso nella pancia di sua madre, come se volesse rientrarci dentro. Arun si abbarbica alla stoffa della mia camicia, la stropiccia nella mano, aderisce col suo corpo al mio. Arun e la bambina cingalese hanno la pelle dello stesso colore: qualche gradazione più chiara di marrone rispetto a quello scurissimo dei due africani. (Io non sono scuro come i signori poveri che vendono i braccialetti, vero? Arun per strada, piccolissimo.).
La madre cingalese si preme il viso della figlia sul ventre. Io metto una mano aperta sopra gli occhi di Arun, ma un sommovimento dell’aria annuncia a mio figlio che il mastino è scattato in avanti, sfuggendo alla presa del compare che cerca di trattenerlo, e ha dato uno spintone all’africano. Arun si strappa la mia mano dagli occhi, in tempo per vedere l’africano allungare ancora il braccio e tenere a distanza il mastino e spingerlo a sua volta da parte, mentre un altro in divisa arancione si fa sotto e con un ghigno di sfida, inalberando il testone, gli dà una spallata. Dalla fila e dalle casse, dai clienti che si sono bloccati a guardare tutt’intorno, sale un ooooooh sommesso ma gonfio di emozione trattenuta, da stadio.
L’africano barcolla visibilmente ma non arretra, e anzi viene avanti e a voce molto alta dice qualcosa che non riesco a decodificare. Qualcosa di decisivo, pare, perché c’è un altro spostamento d’aria tangibile e l’energumeno gli si scaglia addosso con i lineamenti sfatti dalla rabbia. Si sente il suono sordo di un impatto, un poc che riempie il pubblico di una specie di inorridita fascinazione. È partito un pugno, ed è andato a segno. Oscillando, l’africano si porta la mano alla mascella. Io porto la mia, di nuovo, sugli occhi di Arun. La piccola cingalese emette un guaito lungo, flebile, terrorizzato.
Come se avessero annusato il sangue, i botoli arancioni, che adesso sono quattro, si muovono truci, compatti verso gli africani, facendoli arretrare e chiudendoli tra la vetrina all’entrata e il banco della gastronomia. La cassiera dell’altra fila, una donnetta sgualcita con radi, corti capelli color carota e ricrescita grigia nel mezzo, irte ciocche appuntite, appiccicate dal gel, che la fanno sembrare un’upupa, urlacchia spazientita: “Andate fuori, no?”.
E in effetti l’africano più smilzo e un po’ meno alto, quello che finora non ha fatto altro che stare accanto al compagno con aria attonita, riesce a sgusciare fuori dal cerchio di corpi arancioni e a correre verso le porte scorrevoli oltre le casse, e di lì sulla strada. Dopo una breve colluttazione anche l’altro, quello che ha incassato il pugno, riesce a guadagnare l’uscita, coi botoli alle calcagna. Nel frattempo il vecchio stranito alla cassa ha rinunciato alla contrattazione con la cassiera bielorussa per girarsi a guardare lo spettacolo al di là dei vetri. Dentro siamo tutti immobili, pietrificati. Nel giro di pochi secondi i due africani sono a terra, coi quattro arancioni intorno. L’upupa stringe le labbra sottili scarabocchiate col rossetto e fa un inconsapevole, quasi impercettibile cenno d’approvazione con la testa. La cassiera bielorussa slavata e belloccia inarca le sopracciglia depilate con un’espressione di fastidio misto a superiorità. Ricomincia a riempire i sacchetti di detersivi e vassoietti di frutta protetta dal cellophane, a frugare con furia nel cassetto delle monete. Ma quando comincia la gragnuola di calci e la pioggia di sputi si blocca anche lei. L’ooooooooh che si leva questa volta è più alto, da arena. Arun è annichilito. Quando esco dalla fila impugnando il cellulare e gridando, si appende con decisione alla cinghia della mia borsa a tracolla per trattenermi.
“Mamma!” sibila fortissimo, con urgenza. “Cosa fai? Non andare, non andare!”.
“Arun! Lasciami! Chiamo i carabinieri!”.
“Mamma no! Tipregotipregotiprego! Sta’ qui!”.
“Arun! Non vedi che li ammazzano? Bisogna fare qualcosa! Fammi andare, non tirare così… Non aver paura!”.
“No, no! Mammaaa…” implora mio figlio, quasi piangendo. Sento la sua vergogna, la sua umiliazione che sale come una marea. Lo sento nella sua pelle, nel rattrappirsi del suo corpo. So che darebbe qualunque cosa per scomparire, perché io scomparissi con lui.
Con una complicata torsione del busto riesco a sfilare testa e braccio dalla borsa di stoffa, che rimane tra le mani di un desolato, mestissimo Arun.
Sento un risucchio nella pancia, come un vuoto d’aria. Come il terrore, l’amore o il desiderio. Come una volta, sei o sette anni fa in spiaggia, un giorno di burrasca, quando Arun piccolo giocava a prendere le onde. All’improvviso un’onda più alta e violenta l’aveva investito e ritirandosi l’aveva trascinato inaspettatamente lontano da riva, e per qualche secondo il suo piccolo corpo lucido e scuro era scomparso dentro la massa d’acqua. Quasi subito la testa era riemersa, e l’onda successiva l’aveva sbattuto senza tante cerimonie sulla ghiaia acuminata della battigia, restituendomelo. Il bambino si era rialzato sfregandosi i gomiti e aveva ricominciato a correre incontro alle onde. Io ero rimasta ferma, paralizzata da quel sommovimento sconosciuto di viscere, e mi ero detta “Allora è questo, è così che deve essere”, anche se Arun non era mai stato dentro di me.
Adesso invece mi muovo.
“Sono impazziti?” grido marciando verso le casse. Poi, rivolgendomi direttamente al pubblico e alle cassiere: “Siete impazziti?”.
“Signora, signora!” mi apostrofa la cassiera con la testa da upupa, con un tono pieno di riprovazione.
Attraverso il vetro delle porte automatiche vedo i due africani a terra che si proteggono la testa. Gli alti copricapi sono volati via. Solo allora mi accorgo che uno dei due è giovanissimo.
Mi volto come una furia verso la cassiera-upupa:
“Perché non avete chiamato i carabinieri? Chiamate i carabinieri, no?”.
“Ma signora, signora!” le fa eco una donnetta dall’aria dimessa in fila per pagare, e un uomo sui sessanta alle sue spalle unisce i palmi facendoli oscillare su e già e scrolla la testa con un orribile sorriso di tolleranza mista a sarcasmo. Mi vedo coi loro occhi: una donna di mezz’età poco truccata e spettinata come una ragazza, come se non mi importasse, vestita in abiti comodi di tessuti naturali, poco appariscenti, una borsa etnica grande, che ora è tra le mani di mio figlio, qualcosa a metà tra i sandali e gli zoccoli ai piedi. Un ragazzino troppo piccolo perché sia stata io a partorirlo, molto bello e con la pelle scura: un cucciolo nero per una comunista ricca, una che non ha mai dovuto contare i soldi per arrivare a fine mese, una che si è sempre permessa il superfluo anche quando non poteva, perché per certi il superfluo è essenziale. Varco le porte automatiche senza pensare, senza sapere cosa farò. Uno degli energumeni viene verso di me e mi blocca con la sua stazza. Lo aggredisco:
“Cosa vuole fare? Picchiare anche me? Si accomodi, prego…” sputo come un serpente, buttandogli addosso tutto il mio disprezzo, tutto lo schifo che provo per la sua faccia tremula e gelatinosa, che si stacca dalle ossa come gomma bucata, la faccia di uno che morirà di cibo cattivo, birra industriale, medicine, TV, malanimo, rabbia.
“Questi” dice l’uomo in tono alterato ma meno isterico di quanto mi aspettassi “vengono qui a rubare, a rubarci il lavoro…” e intanto mi rispinge dentro con il puro ingombro del suo grosso corpo sgradevole, l’energia compressa che emana dalla sua carne.
“Ma vi rendete conto che ci sono dei bambini a guardarvi?” indico mio figlio e la piccola cingalese. “Non vedete che sono terrorizzati? Perché devono assistere a questo spettacolo? Saltate addosso a tutti quelli che rubano? No? No? E perché no? Perché non li trattate come gli altri? Perché non chiamate i carabinieri? Perché non gli date del lei? Non avete figli, voi? Li chiamo io, i carabinieri…”.
Ormai sono dentro, e a sentirmi ci sono solo le cassiere e gli altri clienti.
“Li abbiamo chiamati, stia tranquilla, signora…” fa l’upupa, e il tono indica che quella è l’ultima, ma proprio l’ultima delle soluzioni.
“Ma bene, bene!” urlo in modo incongruo, senza pensare. “Facciamoci giustizia da soli, tutti col fucile in casa, bravi! Cosa insegnate ai vostri figli, eh? Vent’anni di Berlusconi e Lega, ecco qua… tutto normale per voi…”.
Sotto gli occhi vagamente compassionevoli delle cassiere e quelli imbarazzati dei clienti mi slancio verso mio figlio, gli strappo il cesto con la merce che ha ancora in mano, spargendo a terra il contenuto, afferro la mia borsa e lui per un braccio e lo trascino verso l’uscita.
“Via di qui! Mai più, mai più…” ripeto a gran voce imboccando l’uscita.
Fuori sono arrivati i carabinieri, stanno interrogando il capo degli energumeni che dà una sua versione dei fatti, sicuro del fatto suo, esibendo una specie di tracotante competenza in materia, mentre i due africani, dopo essersi rialzati da terra, se ne stanno cupi e muti in disparte, guardati a vista da due uomini in divisa. Impossibile intercettare i loro sguardi. Cerco di intervenire ma nessuno mi dà retta, e Arun mi tira via, con urgenza. Mentre ci allontaniamo vedo che caricano i due africani sulla camionetta.
“Dove li portano?” chiede Arun, sollevato che mi sia decisa a seguirlo.
“In caserma”.
“Li metteranno in prigione?”.
“No” rispondo torva. “Magari gli danno un po’ di botte anche loro”.
“Ma loro hanno rubato”.
“Arun! Cosa dici? Rubato… sì, un paio di bibite, un pacchetto di patatine. Credi che qualcuno possa picchiare un altro perché ha rubato qualcosa? O per qualunque altro motivo, se non per difendersi?”.
Arun è imbarazzato, sente che sto per perdere di nuovo il controllo, ha paura.
“Solo… dico solo che hanno rubato, e non si deve. No?”.
“Ascolta, Arun. Quei ragazzi li hanno picchiati perché sono neri”.
“Più neri di me”.
“Più neri di te, d’accordo. Ma anche tu potresti essere troppo nero per certi… per certe persone. Abbastanza nero da convincere qualcuno che ti può picchiare, e farla franca”.
“Ma io sono italiano!” protesta mio figlio.
“Certo, e non hai bisogno di rubare. Però…”.
Però se lo facessi ti tratterebbero peggio di un bianco che ruba. Molto probabilmente. Se tu non fossi il bellissimo figlio adottivo di una donna bianca di mezza età, se la gente normalmente non ci guardasse, insieme, con un sorriso di approvazione che dice “che donna coraggiosa, e che fortuna quel bambino, e anche lei, che fortuna, un bambino così bello”, se la gente non sapesse, dai tuoi vestiti puliti, dai tuoi capelli perfettamente tagliati, dai tuoi modi spigliati che abiti in una bella casa piena di libri, e se l’esotismo della tua pelle di velluto e dei tuoi grandi occhi neri e delle tue labbra carnose non ti rendessero ancora più interessante, e desiderabile, e…
“Andiamo a comprarci un gelato, Arun?”.
Quando usciamo dalla gelateria – Arun con un cono cioccolato e pistacchio, io limone e frutti di bosco – l’aria si è sfatta in vapori serali già estivi, dall’asfalto sale un calore innaturale, pieno di odori cattivi di città troppo piena, cibo e benzina, che ci rende svogliati. Molte ragazze già esibiscono gambe lunghissime e pallide in calzoncini e microgonne di jeans, e perfette pedicure cinesi nelle infradito o nei sandali, ci sono ragazzi in canotta, qualche vecchio in bermuda e ciabatte, tate di colore che portano a casa i bambini più piccoli, freelancer accigliate con figli preadolescenti carichi di borse da piscina o da tennis, chitarre violini o altri strumenti trasportabili, pochi professionisti in giacca e cravatta perché il grosso di loro uscirà dagli studi più tardi, per precipitarsi in palestra o a un aperitivo di lavoro. Attraversiamo il pavé sconnesso solcato dalle rotaie del corso per raggiungere una traversa abbastanza silenziosa e ci sediamo sul bordo del marciapiede davanti al negozio di tè con le teiere orientali di ghisa in vetrina. Arun lecca con metodo il suo cono, rimaniamo in silenzio per qualche minuto. Poi pensierosamente lui dice:
“Tu sei come Anna”.
“Come Anna?”.
“Come Anna, sì. Lei difende sempre i più deboli”.
Allora capisco che sta parlando della sua compagna di classe. Anna, la più alta e bella e brava delle sue compagne, Anna che dimostra due anni di più, che ha vinto i campionati di matematica, che sorride come un’adulta nelle foto di classe, non in quel modo sghembo e ammiccante e sciocchino delle bambine di quell’età. Anna che aiuta Arun a finire i problemi rinunciando all’intervallo, Anna che suona l’arpa e ha grandi occhi celesti e consapevoli e sereni. Anna che per tutta la vita sarà dalla parte del giusto, Anna che non avrà mai un dubbio.
“Perché i neri sono più deboli” continua Arun, ragionevole.
Affondo rabbiosamente i denti nella massa gelata godendomi quel dolore purificante, finalmente fisico, fin nelle ossa e nella testa.
“Nessuno nasce più debole degli altri, almeno non per il colore della pelle, Arun”.
“Perché non hanno portato via anche gli altri?”.
“Avrebbero dovuto farlo” dico, strizzando gli occhi per l’aspro del limone che mi brucia la bocca. “In un paese civile avrebbero portato via anche gli altri, certo”.
“Mamma, tu sei comunista?”.
Rido.
“Cosa vuol dire, Arun?”.
“Non so bene. Difendere i deboli, credo. Ma non sono sicuro.”.
“È più complicato di così. Viene un momento in cui uno non lo sa più bene, cos’è”.
“Credo che Anna sia comunista. Ma rubare non va bene, è sbagliato”.
“Anche picchiare qualcuno perché ha rubato qualcosa è sbagliato. Anzi, è ancora peggio”.
“Come si fa a capire cosa è peggio tra le due cose?”.
“Basta guardare. Te lo dice la tua pancia, cosa è peggio”.
“Salvatore dice che gli uomini sono tutti uguali”. Salvatore è l’insegnante di religione. “È essere comunisti, questo?”.
“Non esattamente. Sono in tanti a dirlo. Il comunismo ha fatto anche dei danni. E anche il cristianesimo: è a quello che pensa Salvatore, quando dice che gli uomini sono tutti uguali. E poi io non lo so se gli uomini sono tutti uguali. Anzi, credo proprio di no. Certi sono più cattivi di altri. E più stupidi. E più brutti. Li hai visti, quelli che picchiavano i signori africani?”.
“A scuola ieri abbiamo parlato della democrazia”.
“Hai capito come funziona?”.
“Decidono tutti, non uno solo. La maggioranza vince. Ma se la maggioranza è cattiva, stupida, brutta…”.
“Vince lo stesso”.
“Ma allora…” Arun è sconsolato. “Non è giusto. Vince il male”.
Guardo le mie gambe allungate davanti a me, coperte di cotone indiano, la cinghia della borsa di tela africana che mi taglia in diagonale il torace, gli zoccoli-sandali svedesi, il sacchetto della spesa riciclabile, vuoto, che ho in grembo. Ho un figlio né bianco né nero, e io, cosa sono? Tra poco cominciano le nostre vacanze di comunisti qualunque, Arun al campo valdese a imparare l’uguaglianza, io in campagna ad aspettarlo, tra le conserve e l’olio buono, i libri, il telaio e i bagni al fiume, la spesa alla cooperativa biologica della valle in cui passiamo le nostre estati di poveri ricchi. Vince il male, sì.
Nota di Isabella Mattazzi (Le parole e le cose)
Il comunismo qualunque di Anna è un racconto inedito di Monica Pareschi, traduttrice – tra i suoi autori James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud – collaboratrice editoriale e scrittrice. “È di vetro quest’aria”, suo primo romanzo uscito per Pequod nel 2014, ha vinto il Premio Renato Fucini e ottenuto una menzione speciale al Premio Arturo Loria.
Fonte: Le parole e le cose
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