La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 24 settembre 2015

Lo smarrimento del partigiano

di Maurizio Ricciardi e Paola Rudan
La lotta par­ti­giana con­tro il nazi­fa­sci­smo è un fatto sto­rico col­lo­cato in un pas­sato ormai piut­to­sto lon­tano, com­me­mo­rato ogni 25 aprile alla ricerca di ciò che al suo interno può essere con­si­de­rato ancora attuale, degli inse­gna­menti che se ne pos­sano trarre, dei com­por­ta­menti che si devono tenere di fronte al fasci­smo. Il momento della libe­ra­zione è così assunto come il punto cul­mi­nante della scelta par­ti­giana. Se però di quell’esperienza vogliamo rin­trac­ciare la con­tem­po­ra­neità oltre ogni rituale cele­bra­zione, se vogliamo ade­rire fino in fondo al senso di un tempo che pure è cro­no­lo­gi­ca­mente così distante, è all’8 set­tem­bre del 1943 che dob­biamo guardare.
Il volume di Mat­teo Caval­leri La Resi­stenza al nazi-fascismo. Un’antropologia etica (Mime­sis, pp. 234., euro 20) adotta con coe­renza que­sto spo­sta­mento dello sguardo, que­sta devia­zione con­sa­pe­vole dai calen­dari e dalle com­me­mo­ra­zioni. La sto­ria è nota. L’8 set­tem­bre la fuga dei ver­tici poli­tici e mili­tari del governo in seguito alla pro­cla­ma­zione dell’armistizio con le forze alleate pro­duce un vuoto nor­ma­tivo e un pro­fondo smar­ri­mento.
Con il diso­rien­ta­mento, però, sorge anche la con­sa­pe­vo­lezza della pos­si­bi­lità di un nuovo ini­zio. Ripren­dendo la lezione di Alain Badiou, Caval­leri legge quella data come un «evento», cioè come il «prin­ci­pio di una pro­ce­dura di verità» che costringe «a deci­dere una nuova maniera d’essere» e impone di rima­nere fedeli a quella scelta. Si tratta di essere fedeli a qual­cosa che non è dato sto­ri­ca­mente, come una tra­di­zione o un qual­siasi pas­sato, ma può dive­nire reale solo nel futuro. L’orizzonte nor­ma­tivo che i par­ti­giani si assu­mono il com­pito di costruire sop­pianta la coa­zione all’ubbidienza su cui si basa­vano le isti­tu­zioni fasci­ste, ma quell’orizzonte ancora non esi­ste e può essere sco­perto solo durante la sua rea­liz­za­zione pra­tica. Se il fasci­smo è la nega­zione della stessa pos­si­bi­lità di sce­gliere, la scelta par­ti­giana è prima di tutto il ritorno a quella pos­si­bi­lità, che il fasci­smo non è riu­scito a cancellare.
Il peso della bio­gra­fia
Prima dell’8 set­tem­bre alcune delle con­di­zioni di que­sta scelta erano state trac­ciate da una gene­ra­zione anti­fa­sci­sta – quella di Bilen­chi e Caproni, di Mora­via, Pra­to­lini e Vit­to­rini – la cui espe­rienza si radi­cava nella Prima guerra mon­diale e si espri­meva nell’antiautoritarismo, nell’antimassificazione, nella cri­tica della società indu­stria­liz­zata e tec­no­lo­gica e nella ten­denza liber­ta­ria. Come tra­spare dai rac­conti di For­tini e Ros­sanda, però, la gene­ra­zione cre­sciuta col fasci­smo, «la gene­ra­zione degli anni dif­fi­cili», è costi­tuita «da sog­getti che hanno dovuto tro­vare forme per sal­vare se stessi dal ricatto con­ti­nuo della pro­pria bio­gra­fia». Per que­sto la cate­go­ria di «mora­lità» per­mette di por­tare alla luce tanto l’impatto della Resi­stenza quanto i suoi effetti «antro­po­lo­gici» su una gene­ra­zione digiuna di poli­tica. La mora­lità sta nella ten­sione nor­ma­tiva che innerva l’azione, nell’anelito di libertà che si oppone «a un dispo­si­tivo di potere mirante alla nega­zione di qual­siasi pos­si­bi­lità di disob­be­dienza». Il rifiuto è il prin­ci­pio attorno al quale si con­so­lida una dimen­sione con­di­visa: l’esperienza della Resi­stenza è espe­rienza di una soli­tu­dine ine­stri­ca­bil­mente con­nessa alla respon­sa­bi­lità col­let­tiva, il cui senso si defi­ni­sce nel rico­no­sci­mento reci­proco che per­mette di supe­rare l’intenzione indi­vi­duale in nome di un regi­stro etico supe­riore.
Soprat­tutto per la gene­ra­zione di let­te­rati che si è for­mata con la Resi­stenza, il momento este­tico è sin­cro­nico rispetto a quello poli­tico e la scrit­tura, il gesto di testi­mo­nianza, deve destreg­giarsi tra due ten­sioni oppo­ste: quella di chi vuole imme­dia­ta­mente dimen­ti­care la Resi­stenza e quella di chi vuole farne un monu­mento da cele­brare. Caval­leri ana­lizza una cospi­cua mole di romanzi resi­sten­ziali e altret­tanta memo­ria­li­stica, mostrando che la ricerca este­tica si trova costan­te­mente presa nel gioco tra le infor­ma­zioni che deve comu­ni­care e la scelta che vuole ren­dere con­tem­po­ra­nea. Se le prime si esau­ri­scono nella pun­tua­lità di ciò che viene nar­rato, la seconda non pati­sce la con­sun­zione del tempo.
La nar­ra­zione dell’esperienza vis­suta resti­tui­sce qual­cosa che non è stato ste­ri­liz­zato dalla coscienza e che può essere recu­pe­rato, attra­verso la scrit­tura, solo in ter­mini poli­tici e col­let­tivi. È così che, rileg­gendo il Sen­tiero dei nidi di ragno nel 1964, Cal­vino può affer­mare: «Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato ano­ni­ma­mente dal clima gene­rale di un’epoca, da una ten­sione morale, da un gusto let­te­ra­rio che era quello in cui la nostra gene­ra­zione si rico­no­sceva». Per Cal­vino l’esperienza della Resi­stenza «suscita una cora­lità nar­ra­tiva dif­fusa». Come la scelta per la mon­ta­gna, per la clan­de­sti­nità, per la lotta armata, la «scelta per la scrit­tura» è mossa da una pul­sione di verità e il senso di ina­de­gua­tezza del nar­ra­tore di fronte all’esperienza da nar­rare cor­ri­sponde a quello del par­ti­giano di fronte all’evento da esperire.
Umano e disu­mano
La scelta va con­ti­nua­mente riba­dita per cat­tu­rare il pre­sente al di là del cla­more dell’attualità: se all’istantanea dell’informazione cor­ri­sponde la cele­bra­zione monu­men­tale della Resi­stenza come fatto sto­rico, alla nar­ra­zione come ricerca costante di una pos­si­bi­lità di «parola libe­rata» cor­ri­sponde la pre­senza della Resi­stenza come evento.
Caval­leri chia­ri­sce con intel­li­genza che la scelta par­ti­giana non può essere intesa come puro volon­ta­ri­smo. Le parole di Camillo de Piaz ren­dono lim­pi­da­mente il senso dell’ineliminabile con­nes­sione tra scelta e situa­zione: «che cosa vi può essere di più grande, di più sto­ri­ca­mente ed esi­sten­zial­mente pre­gnante, di una neces­sità che assume la dimen­sione di una scelta»? Dal punto di vista del par­ti­giano, ciò signi­fica sce­gliere la neces­sità del suo tempo pre­sente, fino al punto da sovvertirlo.
È que­sta dimen­sione della scelta, che non nega la deter­mi­na­tezza sto­rica ma cam­bia il segno della sua ener­gia, ciò che per­mette di vedere nel par­ti­giano non un oltreuomo, ma – con le parole di Feno­glio – la gran­dezza di un uomo «quando è nella sua nor­male dimen­sione umana». Ed è in defi­ni­tiva pro­prio qui che si sta­bi­li­sce una fon­da­men­tale distanza antro­po­lo­gica tra il par­ti­giano e il nazi­fa­sci­sta. Il primo non è una figura defi­nita e con­clusa, ma fa poli­tica dipen­dendo da altre figure che lo sosten­gono e gli danno signi­fi­cato e non dimen­tica mai di avere di fronte un uomo anche se si tratta del fasci­sta o del nazi­sta che si trova davanti.
L’ariano, al con­tra­rio, è una rap­pre­sen­ta­zione senza resti di un’idea di uomo che si pre­tende supe­ruomo, che satura di sé anche la vit­tima della sua vio­lenza. Una vio­lenza che, sia per l’SS sia per la sua cari­ca­tura repub­bli­china, non ha biso­gno di legit­ti­ma­zione, è mero eser­ci­zio, men­tre per il par­ti­giano è ter­ri­bile costri­zione. La vio­lenza non coin­cide con la poli­tica, ma è per il par­ti­giano la pos­si­bi­lità di rifon­dare l’orizzonte nor­ma­tivo che ha per­duto la pro­pria fun­zione di pre­ser­va­zione della vita, per­ché «l’ordine fasci­sta e la guerra hanno ribut­tato la nor­ma­lità della morte, del dare la morte, alla quo­ti­dia­nità». Così, è incol­ma­bile anche la distanza delle due diverse con­ce­zioni della morte.
Le nar­ra­zioni par­ti­giane sono costan­te­mente segnate dalla ricerca di un rap­porto con i com­pa­gni morti. Non si tratta sola­mente della neces­sità di dare memo­ria, ma piut­to­sto di una sorta di infi­nita nostal­gia per chi non ha potuto vivere fino in fondo le pos­si­bi­lità aperte dalla scelta par­ti­giana, della «sim­pa­tia» verso coloro con i quali si è con­di­visa quella scelta con tutti i suoi rischi. In nes­sun caso, comun­que, que­sto ricordo etico si tra­duce nell’ideologia fasci­sta della bella morte, né tan­to­meno nella dida­sca­lica cele­bra­zione di un pro patria mori che per­met­te­rebbe una revi­sio­ni­stica asso­cia­zione tra i caduti della Resi­stenza e quelli di Salò. Se il par­ti­giano non è niente più che un uomo, biso­gna allora rico­no­scere che, piut­to­sto che morire, avrebbe pre­fe­rito vivere. Il par­ti­giano non si è immo­lato eroi­ca­mente per dei valori, ma si è assog­get­tato alle con­se­guenze della scelta di libertà che aveva fatto.
Se il par­ti­giano non è niente più che un uomo, tut­ta­via, biso­gna rico­no­scere anche che non è così diverso dal fasci­sta, o meglio non lo era prima che la scelta lo inve­stisse con tutto il peso della sua libera neces­sità. L’8 set­tem­bre con­te­neva anche il rischio di «farsi inglo­bare dal magma nor­ma­liz­zante della vio­lenza del nemico, di smar­rirvi l’ultima pos­si­bi­lità di una nuova antro­po­lo­gia». L’8 set­tem­bre può essere visto come un’«origine», per­ché è un’interruzione e un’emergenza: è una novità che annun­cia uno scarto. La scelta par­ti­giana intro­duce nella sto­ria un muta­mento di per­ce­zione e di pro­spet­tiva che inter­rompe anche la geo­gra­fia, per­ché lo stesso pae­sag­gio può essere tanto pro­tet­tivo quanto imper­vio e minac­cioso, rico­perto del fango con il quale Feno­glio dà il senso della dis­so­lu­zione etica dei luo­ghi fami­liari e del sen­ti­mento di abban­dono che coglie il par­ti­giano dopo l’8 set­tem­bre. Que­sto muta­mento sem­pre pos­si­bile rimanda al carat­tere spe­ci­fi­ca­mente poli­tico della scelta par­ti­giana che per Caval­leri è anche il punto di incon­tro tra Resi­stenza e filosofia.
La scelta par­ti­giana non è un’adesione al regi­stro dell’opinione, ma cam­biare lo sguardo sul pre­sente per abbrac­ciare la rot­tura intro­dotta dall’evento. Essa è poli­tica per­ché si rivolge con­tro le appa­renze, senza cioè accet­tare i com­por­ta­menti impo­sti dal regime fasci­sta e dalla sua pro­pa­ganda, senza ras­se­gnarsi al comune senso del disa­stro pro­dotto dall’8 set­tem­bre e, soprat­tutto, senza acco­mo­darsi nell’attesa di tempi migliori. Que­sta scelta di parte indica una spe­ci­fica idea della poli­tica, intesa come presa di posi­zione, come espo­si­zione. Essa non è una sem­plice mili­tanza di parte, ma il farsi carico della situa­zione gene­rale stando da una parte. Il senso pro­fondo del ter­mine par­ti­giano mostra per­ciò la via per com­pren­dere in che senso un evento pas­sato come la Resi­stenza possa essere a noi con­tem­po­ra­neo, non come ricordo o ripe­ti­zione, ma come indi­vi­dua­zione nella con­di­zione pre­sente della parte da cui stare. A que­sto evento pas­sato non si deve essere fedeli. Per rico­no­scerne la con­tem­po­ra­neità si può solo ope­rare una scelta di parte in grado di rispon­dere alle neces­sità del presente.
Solo l’accesso a que­sta con­tem­po­ra­neità per­mette di com­pren­dere «la feli­cità espe­rita dal par­ti­giano men­tre sta ancora lot­tando per la feli­cità», di cogliere la via verso la giu­sti­zia anche nei momenti di più buia vio­lenza. È que­sta con­tem­po­ra­neità, che è a un tempo pre­senza e distanza, che per­mette di affer­rare fino in fondo le parole di Teresa Cirio: «si rischiava la morte, però tal­mente c’era la gioia di vivere! Non ho mai vis­suto una vita bella così. Sof­fe­renza sì, ma una cosa»! La gioia di cui parla que­sta donna par­ti­giana è la stessa che risuona nelle danze e nei colpi di mor­taio delle donne di Kobane. Una gioia che non trova alcuno spa­zio nell’estetica certa di sé di un anti­fa­sci­smo ridotto all’iterazione, sem­pre uguale a se stessa, di una resi­stenza che ha dimen­ti­cato la sua scelta di parte.

Fonte: il manifesto 

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