La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 24 settembre 2015

Cosa c’è di diverso nei migranti di oggi

di Aldo Carra
La foto del bam­bino siriano sca­ri­cato dalle onde come un rifiuto sul bagna­sciuga ha toc­cato cuori e menti e segnato una svolta nelle coscienze di popoli e politici.
Ma i sen­ti­menti sono mute­voli e subito hanno ritro­vato voce raz­zi­smi ed egoi­smi. In balìa delle ondate di sen­ti­menti, delle mute­voli ten­denze di opi­nione, l’Europa cam­bia le deci­sioni da una riu­nione all’altra e guarda al feno­meno migra­to­rio dal suo punto di vista, per i pro­blemi che esso crea, e non per capire per­ché nasce, quali pro­blemi lo generano.
Abbiamo visto fami­glie con donne e bam­bini mar­ciare in gruppo, avan­zare sui binari in una vera e pro­pria mar­cia dei diritti, pro­te­stare con rab­bia ed orgo­glio con­tro poli­zie e con­fini arti­fi­ciali, cer­care strade nuove e imper­vie per elu­dere i muri di filo spinato.
Come non para­go­nare que­ste imma­gini al famoso Quarto Stato di Pel­lizza da Vol­pedo? Quell’immagine non rap­pre­senta solo uno scio­pero, una pro­te­sta, ma la presa di coscienza dei pro­pri diritti, l’essere col­let­ti­vità con­sa­pe­vole della forza che dà lo stare insieme.
Va ben oltre le imma­gini dei bam­bini spor­chi di car­bone ed ema­ciati della prima fase dell’industria pesante, non vuole susci­tare pie­tas e carità, mostra un cam­mino a testa alta per affer­mare diritti e dignità. Forse non è un caso che sia nato come evo­lu­zione di due altre opere — Amba­scia­tori della fame e Fiu­mana — con un cre­scendo di pro­ta­go­ni­smo e di forza della figura femminile.
Quell’evoluzione costi­tui­sce una per­fetta meta­fora del feno­meno migra­to­rio e dei suoi carat­teri nuovi: riven­di­ca­zione col­let­tiva dell’accoglienza come diritto, orgo­gliosa deter­mi­na­zione nel per­se­guire l’obiettivo. Che cosa ha pro­dotto que­sta nuova con­sa­pe­vo­lezza dei migranti che gli fa sen­tire come un diritto venire in Europa? Cer­care di capirlo è impor­tante per coglierne meglio por­tata e durata, per cer­care le rispo­ste adeguate.
La prima causa riguarda natu­ral­mente le guerre, le desta­bi­liz­za­zioni dei paesi per ragioni mili­tari e geo­po­li­ti­che, le poli­ti­che eco­no­mi­che e ambien­tali. La fuga dalla Siria è emble­ma­tica. Il popolo siriano ha resi­stito e sop­por­tato di tutto in que­sti anni. Adesso l’Isis con­trolla una parte del paese, con ter­ri­tori den­sa­mente popo­lati e inten­sa­mente bom­bar­dati. Si è persa ogni spe­ranza, non si intra­vede più una via di uscita in tempi uma­na­mente accet­ta­bili. Non resta, quindi, che fug­gire in cerca di un futuro per sé e per i figli.
Ma se così è pos­siamo limi­tarci, anche se già sarebbe tanto, a cer­care solu­zioni digni­tose di acco­glienza? Non dob­biamo porci nello stesso tempo il pro­blema della paci­fi­ca­zione e della tran­si­zione poli­tica in quel paese? La pro­po­sta Putin che pre­vede un governo tran­si­to­rio che pro­ceda ad ele­zioni con­trol­late è pro­prio fuori dal mondo? Ed in alter­na­tiva cosa pro­pone l’Onu? E l’Europa, quan­to­meno adesso che sta diven­tando il ter­reno sul quale si sca­ri­cano tutte le con­se­guenze, vuole dotarsi di una sua poli­tica verso quell’area, una poli­tica magari un po’ indi­pen­dente, se serve, da quella sta­tu­ni­tense? Insomma que­sto flusso di pro­fu­ghi non si fer­merà se non si trova la forza di paci­fi­care quel paese. L’esempio della Siria, con le dif­fe­renze che cono­sciamo, si può esten­dere ad altri flussi migra­tori (Iraq, Afgha­ni­stan, Africa e nord Africa..). E, nel caso spe­ci­fico dell’Africa, fughe da guerre, dit­ta­ture, per­se­cu­zioni reli­giose si intrec­ciano for­te­mente con esodi da cam­bia­menti cli­ma­tici, da impo­ve­ri­mento di aree agri­cole e del mare.
C’è poi un altro fat­tore che tutte le migra­zioni sto­ri­che hanno cono­sciuto. Quando parenti ed amici si sono sta­bi­liti in altri paesi tro­van­doci un futuro ed un lavoro si è regi­strato un natu­rale effetto di tra­sci­na­mento. Come negare a chi è rima­sto nel paese di ori­gine il desi­de­rio legit­timo di rag­giun­gerli? Abbiamo dimen­ti­cato i nostri con­cit­ta­dini del Sud emi­grati nelle Ame­ri­che ed in Austra­lia con le lun­ghe catene dei ricon­giun­gi­menti? Que­sto feno­meno è ine­lut­ta­bile ed in Ita­lia si è fer­mato solo quando le nostre con­di­zioni di vita si sono avvi­ci­nate a quelle dei paesi di emi­gra­zione ed è comin­ciato un flusso di ritorno.
C’è, infine, anche un feno­meno nuovo deter­mi­nato dalla rete: cel­lu­lari, tablet, inter­net con­fe­ri­scono alle migra­zioni del secondo mil­len­nio un carat­tere asso­lu­ta­mente ine­dito. Avendo por­tato nei paesi più poveri gli stru­menti e le tec­no­lo­gie più avan­zati della comu­ni­ca­zione, abbiamo faci­li­tato il con­fronto tra livelli di vita e di con­sumo. Que­sto con­fronto non solo rende intol­le­ra­bili disu­gua­glianze prima accet­tate, ma crea nell’immaginario una appar­te­nenza comune al pia­neta, uni­fica il mondo e genera un nuovo diritto di cit­ta­di­nanza uni­ver­sale che pre­scinde dai con­fini fisici ter­ri­to­riali. E non è pos­si­bile sen­tirsi tutti cit­ta­dini del mondo vir­tuale e poi accet­tare di esserne esclusi in quello materiale.
C’è stata una fase, all’inizio della rivo­lu­zione infor­ma­tica, in cui filo­sofi e socio­logi, scuola fran­cese in testa, hanno teo­riz­zato che con la rivo­lu­zione digi­tale i paesi più pri­mi­tivi avreb­bero sal­tato il per­corso sto­rico tra­di­zio­nale di tutte le civiltà — dall’agricoltura all’industria al ter­zia­rio — e sareb­bero appro­dati diret­ta­mente nell’economia imma­te­riale ed infor­male del ter­zia­rio avan­zato. Que­sto non è acca­duto per­ché quelle teo­rie hanno tra­scu­rato gli inte­ressi eco­no­mici e la loro potenza. Così si sono por­tati in quei paesi i nuovi stru­menti in una sorta di colo­niz­za­zione digi­tale solo per ven­dere i pro­dotti e per dif­fon­dere la nostra cul­tura. Ed in qual­che caso siamo andati nei loro mari con navi-fabbriche che pescano, tra­sfor­mano, insca­to­lano e lasciano nelle acque, prima fonte di vita per i pesca­tori locali, lische e resi­dui di lavo­ra­zione. L’economia imma­te­riale si è mate­ria­liz­zata nella fame.
Di tutto que­sto dob­biamo pren­dere con­sa­pe­vo­lezza per gover­nare il feno­meno. Guido Viale ha avan­zato pro­po­ste inte­res­santi ed orga­ni­che per gestire que­sti flussi. Sarebbe utile che i poli­tici (nazio­nali ed euro­pei) le faces­sero pro­prie. Soprat­tutto a sini­stra, per rilan­ciare l’idea di un’altra Europa anche nello scac­chiere poli­tico medio orien­tale e medi­ter­ra­neo. Noi Europa non pos­siamo accet­tare che l’area del mondo sulla quale si sca­ri­cano i con­flitti tra potenze (sulle risorse e di natura reli­giosa), sia pro­prio quella a noi più vicina eppure priva di una fun­zione auto­noma nelle rela­zioni inter­na­zio­nali, orfana di un pro­ta­go­ni­smo pacifista.
Se c’è vita a sini­stra, che qual­cuno batta un colpo.

Fonte: il manifesto 

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