La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 28 ottobre 2015

Dov’è finita la redistribuzione di Renzi?

di Marta Fana
La legge di sta­bi­lità fa il suo corso, tra appa­ri­zioni in tv e metodo del tele­voto per sta­bi­lire quali prov­ve­di­menti modi­fi­care, a seconda degli umori di quella parte di ita­liani che ancora guarda i talk show e che almeno in parte non riem­pie le sac­che dell’astensionismo. Quel che pare sfug­gire al dibat­tito ani­mato in que­sti giorni, è il carat­tere redi­stri­bu­tivo della mano­vra.
Innan­zi­tutto, il governo ha accan­to­nato la que­stione occu­pa­zione, nono­stante i tre milioni di disoc­cu­pati, una ripresa occu­pa­zio­nale stan­tia e una nota Euro­stat che indica come, nel secondo tri­me­stre del 2015, l’Italia vanti non sol­tanto il pri­mato per la per­cen­tuale di disoc­cu­pati diven­tati inat­tivi, ma si col­lo­chi in basso alla clas­si­fica tra gli Stati euro­pei per la quota di disoc­cu­pati che rie­scono a tro­vare un lavoro tra il primo e secondo tri­me­stre del 2015, il periodo del Job­sAct.
Delle poli­ti­che per l’occupazione riman­gono gli sgravi con­tri­bu­tivi, ridotti a un limite di 3.250 euro annui per dipen­dente per due anni: la spesa pre­vi­sta per il 2016 è di 831 milioni (e di oltre 1,5 miliardi nel 2017) che vanno a som­marsi agli sgravi già in essere. Il governo stima un milione di nuove assun­zioni a tempo inde­ter­mi­nato (ormai sta­bil­mente pre­ca­rie dato il con­tratto a tutele cre­scenti). La con­ferma del bonus avviene all’oscuro di una vera e rigo­rosa valu­ta­zione di que­sta misura, non ci si è chie­sto infatti quanti sono gli sgravi dati alle imprese con meno di 15 dipen­denti, per cui l’articolo18 non si appli­cava nep­pure in pre­ce­denza, ren­dendo lo sgra­vio un tra­sfe­ri­mento netto a que­sta tipo­lo­gia d’impresa, oppure quante tra le assun­zioni bene­fi­cia­rie degli sgravi sono già ces­sate. A con­ferma che il governo non è inte­res­sato ai risul­tati reali, ma sen­si­bile alle sirene della propaganda.
Ancora più grave appare la deter­mi­na­zione del governo a elar­gire sgravi senza nes­sun vin­colo né in ter­mini di occu­pa­zione netta e non mera sosti­tu­zione tra lavo­ra­tori, né tan­to­meno in ter­mini di nuovi inve­sti­menti per aumen­tare almeno in parte la com­pe­ti­ti­vità delle imprese piut­to­sto che farle soprav­vi­vere sem­pre e sol­tanto gra­zie ai tagli sul costo del lavoro, misti­fi­cando il con­cetto stesso di produttività.
La legge di sta­bi­lità inter­viene sul wel­fare spo­stando l’asse della con­trat­ta­zione dal piano nazio­nale a quello azien­dale, prin­ci­pal­mente dere­spon­sa­bi­liz­zando rispetto alla tutela dei biso­gni mate­riali dei cit­ta­dini, occu­pati e non.
Men­tre si defi­sca­lizza il wel­fare azien­dale, viene meno quello pub­blico: ad esem­pio, nulla si sa dei famosi 1000 asili in mille giorni annun­ciati a fine ago­sto 2014 dal pre­mier. Nes­sun inter­vento per il diritto alla casa per cui l’Italia con­ti­nua a spen­dere lo zero per­cento del Pil, nono­stante l’aggravarsi delle con­di­zioni abi­ta­tive a cui si risponde sem­pre più spesso con un aumento ver­ti­gi­noso della repres­sione nei con­fronti di tali riven­di­ca­zioni dal basso. Infine, nono­stante gli sgravi per le assun­zioni e il mag­gior potere con­trat­tuale accor­dato alle imprese in ter­mini sala­riali rispetto al con­tratto nazio­nale, il governo ha pen­sato di pre­miare ulte­rior­mente la classe impren­di­to­riale ita­liana con il taglio dell’Ires (con­di­zio­nato al parere di Bru­xel­les sulla clau­sola migranti): altri 3,5 miliardi alle imprese come ridu­zione delle tasse sui red­diti da capi­tale, quelli che un tempo avremmo chia­mato senza mezzi ter­mini pro­fitti. Un chiaro esem­pio di come la distri­bu­zione dei red­diti e della ric­chezza con­ti­nui a pre­miare il capi­tale a disca­pito del lavoro, nono­stante sia ormai chiaro anche alla Troika che la ridu­zione della quota salari sia una delle deter­mi­nanti dell’aumento delle disu­gua­glianze negli ultimi trent’anni. Sarebbe bastato poco per capire che quei tre miliardi spesi per il soste­gno al red­dito delle fasce di popo­la­zione vul­ne­ra­bili alla povertà avreb­bero com­por­tato non sol­tanto un aumento della domanda interna, ma almeno in parte un rias­sor­bi­mento delle disu­gua­glianze, feno­meno cre­scente di cui il governo non sol­tanto si disin­te­ressa, ma anzi pare favo­rirne l’ascesa.
Che la poli­tica del governo in carica sia anti­te­tica all’articolo 3 della Costi­tu­zione, che rimanda al prin­ci­pio di ugua­glianza sostan­ziale da per­se­guire attra­verso l’intervento dello Stato, è infine con­fer­mato dal taglio dell’Imu sulla prima casa e lo sconto ai pro­prie­tari di ville, castelli e abi­ta­zioni di lusso, che costerà alle casse pub­bli­che altri 3 miliardi. Un taglio lineare che col­pe­vol­mente non tiene conto del prin­ci­pio di pro­gres­si­vità delle impo­ste. Se da un lato, l’Italia vanta una per­cen­tuale di pro­prie­tari supe­riore alla media euro­pea, dall’altro la distri­bu­zione del patri­mo­nio immo­bi­liare non riguarda tutti allo stesso modo, di con­se­guenza un taglio indif­fe­ren­ziato andrà neces­sa­ria­mente a bene­fi­cio di chi pos­siede di più, non solo per il rispar­mio mone­ta­rio legato alla detas­sa­zione, ma soprat­tutto per la cor­ri­spon­dente ridu­zione della spesa pub­blica, per ser­vizi come la sanità, di cui mag­gior­mente bene­fi­ciano le fami­glie meno abbienti.
Se c’è una cosa che carat­te­rizza que­sto governo, attento a non urtare l’umore di una parte della popo­la­zione, quella meno col­pita dalla crisi, è la totale avver­sione nei con­fronti della giu­sti­zia sociale e della redi­stri­bu­zione, affian­cata da una palese incom­pe­tenza nel gestire esi­genze strut­tu­rali, quali gli inve­sti­menti, l’innovazione e una visione di poli­tica indu­striale di ampio respiro.

Fonte: il manifesto 

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