di Achille Lollo
Nelle capitali europee si è aperto il dibattito sull’eccessivo numero d’immigrati africani che stanno abbandonando i propri paesi per sottrarsi alle conseguenze delle guerre, ma soprattutto per sfuggire alle perenni carestie e a una povertà endemica sempre più generalizzata. In Italia, poi, come del resto in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, questo dibattito è stato trasformato in palinsesto dei principali programmi televisivi, dove il marketing elettorale, la logica del razzismo e le tradizioni culturali xenofobe, riescono a occultare perfettamente i ritardi, gli errori, gli abusi e l’opportunismo della cosiddetta cooperazione europea con i paesi africani.
L’ultima riunione, realizzata il 12 novembre nella capitale di Malta, La Valletta (Malta) tra l’Unione Europea e trentacinque paesi africani non ha risolto il problema del perché, oggi, in molti paesi africani esiste un consistente flusso emigratorio, che, in realtà, è la fuga in massa dei giovani dai paesi africani.
Infatti, nel summit di La Valletta i leader europei si sono preoccupati soltanto di impedire o di attenuare questo flusso emigratorio. Per questo sono stati firmati degli accordi con i rappresentanti dei paesi africani che non modificano l’attuale contesto socio-economico, ma si limitano a contenere (per non usare la parola reprimere) la fuga verso i paesi europei.
In realtà, la principale preoccupazione delle eccellenze dell’Unione Europea era di salvare il protocollo di Schengen, che è uno dei tasselli decisivi per l’andamento delle politiche comunitarie, che non può essere né smontato e tantomeno modificato. Farlo potrebbe significare l’inizio di un pericoloso processo di revisione, primo fra tutti i programmi di austerità imposti dalla BCE e dalla Germania. Per questo motivo il presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk ha ricordato che “…gli ultimi sviluppi registrati in Svezia e Slovenia sono la prova dell’enorme pressione che l’Europa oggi vive. Perciò salvare Schengen, è una corsa contro il tempo e noi siamo decisi a vincerla. Senza controlli efficaci alle frontiere, Schengen non sopravvivrà. Dobbiamo accelerare, ma senza cadere nel panico…".
L’inefficacia del summit di La Valletta risulta sempre più evidente quando analizziamo i budget dei programmi di cooperazione dei singoli paesi europei e quelli della propria Commissione dell’Unione Europea. Programmi e progetti che rispondono, appena, alle richieste e soprattutto alle pressioni dei gruppi transnazionali e dei conglomerati finanziari che continuano a considerare il continente africano un insieme di regioni dove è ancora possibile fare ottimi affari, mettendo la questione sociale, vale a dire il destino dei popoli africano all’indice della cosiddetta cooperazione.
Un contesto che è praticamente censurato nei principali telegiornali europei, per poi, in nome della libertà di stampa, aprire le porte ai teorici del nuovo “nazionalismo” che trasformano i suoi interventi in autentici spot televisivi con base il razzismo, il rigetto dell’extra-comunitario africano, per poi amplificare la cultura dell’odio razziale associando le azioni del terrorismo fondamentalista islamico al degrado in cui vivono gli immigrati. Di conseguenza, la partecipazione nei principali programmi televisivi dei vari Matteo Salvini, Marine Le Pen, Victor Orban, Geert Wilders, Pia Kjarsgaand, Christofer Bocher e tanti altri, per assurdo che sembri, sono divenuti gli strumenti mediatici più in voga per far aumentare gli indici di ascolto. Una realtà che è, poi, esplosa dopo gli attentati di Parigi, nonostante i direttori dei telegiornali sanno perfettamente che uno degli obbiettivi della retorica razzista e xenofoba è, innanzitutto quello di provocare la paura per dare sfogo alle manifestazioni di odio e, in secondo luogo sviare il dibattito sulla storica povertà del continente africano e sulle responsabilità politiche ed economiche dei paesi europei.
Un discorso che Emma Bonino, subito dopo essere eletta al Parlamento Europeo nel 1986, cercò di sviluppare organizzando il convegno internazionale "Manifesto dei Capi di Stato contro lo sterminio per fame e in difesa del diritto alla vita e della vita del diritto". Un’iniziativa lodevole in termini teorici, che, però, nella pratica non modificò il “modus vivendi” dei governi europei, anche perché la svolta politica prodotta dal neoliberalismo accelerò “…la privatizzazione dell’assistenzialismo e della cooperazione degli stati europei con l’introduzione delle Ong/Onlus/Fondazioni che in pochissimo tempo hanno creato un vasto universo imprenditoriale, dove - salvo alcune eccezioni - il concetto di solidarietà è normalmente usato per fomentare l’aumento del “business” dei mercati.
In seguito, per contrastare questa tendenza, l’allora presidente del Brasile, Inàcio Lula da Silva, invitato nella Conferenza di Davos del 2003, sempre nel quadro dell’assistenzialismo di stato, tentò di stimolare l’interesse dei primi ministri e dei presidenti presenti nell’evento, cercando di dare all’assistenzialismo pubblico ai paesi del Terzo Mondo una lettura non imprenditoriale, trattando quindi il problema della fame come una questione da risolvere di uno sviluppo economico globale. Purtroppo, Lula non era stato invitato a Davos per questo motivo ma per dimostrare al mondo intero la nuova essenza dell’ortodossia liberale e cioè il social-neoliberalismo in cui un lider di sinistra può governare se contempla i suoi programmi di sviluppo socio-economico con quelli del mercato, delle transnazionali e dei conglomerati finanziarie. Per questo, l’appello e la proposta di Inàcio Lula da Silva per un coinvolgimento mondiale in favore della lotta contro la fame, rimase lettera morta, poiché non riuscì a ottenere nulla di concreto dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.
Oggi, come nel 2003 e nel 1986, tutti conoscono le cifre della fame in Africa, però quasi nessuno vuol sapere perché nella maggior parte dei paesi africani bambini, giovani e anziani continuano a morire per effetto della denutrizione o di malattie che in Europa sono state debellate da circa un secolo. Nessuno si chiede perché le differenze sociali hanno raggiunto dimensioni stratosferiche. A nessuno interessa sapere perché le multinazionali hanno sempre più potere e proprietà terriere. Praticamente, nei paesi europei, la stragrande maggioranza dei politici questiona l’operato delle “eccellenze” dell’Unione Europea, che hanno fatto di tutto per legittimare l’affermazione nel continente africano del cosiddetto “neocolonialismo liberale”. Un contesto che, però, non avrebbe potuto affermarsi senza la complicità delle nuove e delle vecchie oligarchie africane che, oggi, spadroneggiano avendo trasformato il concetto di stato in riserva o proprietà di gruppi di interesse e clan tribali.
Oligarchie e povertà
Negli atlanti geografici il continente africano è suddiviso in quattro grandi aree: Mediterranea, Sub-sahariana o Sahel, Centrale e Australe. Aree che, in realtà, corrispondono all’antica planimetria geografica concepita dal colonialismo europeo, in base alla quale, nel 1890, furono disegnati i confini degli stati africani ignorando, per completo, le questioni etniche, quelle linguistiche, le culturali. L’unica priorità erano gli interessi geostrategici delle potenze coloniali e delle rispettive “società di investimenti ultramarini”. Gruppi finanziari che poi, con i guadagni realizzati in Africa e in Asia, diverranno la spina dorsale del sistema finanziario mondiale, oltre che, in tempi recenti, promuovere la creazione delle multinazionali e dei conglomerati.
Per esempio, l’assurdità storica più evidente della formazione degli stati africani è constatabile analizzando la geografia e la storia dell’indipendenza del Mali. Infatti, quando il presidente francese, Charles de Gaulle, nel 1960, decise di offrire l’indipendenza alle sue colonie lo fece con l’intento di continuare a esercitare il controllo geo-politico ed economico delle regioni che aveva colonizzato. Per questo, il processo di indipendenza non comportò l’acquisizione della definitiva sovranità nazionale, ma il compromesso con il gruppo politico dell’etnia maggiormente compromessa con gli interessi della metropoli coloniale e predisposto a garantire un controllo sociale su tutte le etnie. Quindi nel Mali, come pure negli altri paesi africani, le frontiere restarono quelle coloniali e il potere fu offerto ai rappresentanti delle etnie Bambara, Malinke e Songai, poiché erano quelle che controllando il sud e il centro del paese potevano contenere e soprattutto reprimere il ribellismo indipendentista dei Tuareg (di origine araba) che occupavano il nord e il centro-nord del Mali.
Comunque, prima di addossare tutte le responsabilità politiche ed economiche alle antiche potenze coloniali e alle multinazionali – che tra l’altro non furono poche – bisogna capire perché in Africa, il colonialismo europeo non sia riuscito a creare società capitaliste moderne con:
1) un proletariato alfabetizzato;
2) una borghesia nazionale capace di sviluppare una cultura politica basata sui principi della sovranità nazionale;
3) una classe di imprenditori seguaci della tecnologia;
4) governi tecnicamente preparati per amministrare le enormi ricchezze;
5) partiti in grado di definire le riforme costituzionali e di promuovere riforme strutturali, atte a sviluppare a livello nazionale la crescita economica di tutte le componenti sociali.
Bisogna, comunque ricordare che partire dagli anni sessanta, le transnazionali europee e statunitensi, subito dopo la concessione dell’indipendenza ai paesi africani colonizzati dalla Francia e dall’Inghilterra si precipitarono in Africa per fare affari appoggiando la vertente del progetto neocolonialista che, con il tempo si rivelò un autentico disastro per il continente africano. Infatti, la congiuntura politica del continente è stata animata da continui colpi di stato, dittature sanguinarie e repubbliche presidenziali della peggiore specie, basti pensare ad Amin Dada (Uganda), Mobuti Sese Seko (ex-Zaire), Jean-Bédel Bokassa (Rep. Centrafricana), Robert Mugabe (Zimbabwe). Soltanto nel 1975 il continente africano fu scosso dal torpore del neo-colonialismo con la vittoria dei movimenti di liberazione nelle colonie portoghesi (Angola, Mozambico, Guiné-Bissau, Cabo Verde e Sao Tomé e Principe.
Però, a partire dal 1990, il capitalismo europeo ha nuovamente riconquistato il continente africano realizzando un’alleanza strategica con i gruppi oligarchici di ogni paese che, immediatamente diventavano i tutori dei progetti e degli interessi delle transnazionali, assumendo la difesa dei programmi neoliberisti.
Oggi molti vorrebbero porgere al primo Ministro britannico, Nick Cameron e al presidente degli USA, Barak Obama, due domande:
a) perché il costante monitoraggio politico degli USA e dell’Inghilterra non ha introdotto in Nigeria le norme della convivenza pacifica e della democrazia rappresentativa, nonostante la tragica esperienza della guerra civile del Biafra?
b) perché un paese come la Nigeria, che fu colonizzato dall’Inghilterra e che oggi è membro del Commonwealth, dell’ONU e dell’Unione Africana rischia la frammentazione istituzionale, politica ed economica, religiosa ed etnica a causa dell’attività terrorista di Boko Haram?
Purtroppo le risposte sono sempre le stesse: il fondamentalismo islamico è il principale fomentatore dei gruppi terroristi, responsabili di sanguinosi attacchi nei quartieri cristiani di diverse città negli stati nigeriani del nord e del centro-est.
Comunque, la verità è che l’affermazione del fondamentalismo islamico in Nigeria, come in altri paesi del Sahel africano e quindi il passaggio alla lotta armata, deriva dal fatto che una parte importante della popolazione di religione mussulmana, nutre una certa simpatia per i gruppi fondamentalisti islamici a causa della miseria e dell’indigenza in cui sono costretti a vivere. L’abbandono socio-economico, quasi per completo da parte dello Stato è, oggi, il migliore combustibile per giustificare e promuovere la crescita dei gruppi terroristi nei paesi africani islamici. Infatti, in Nigeria, in Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Niger, Senegal, Chad etc. etc., più la miseria è ampia, più le disuguaglianze diventano sempre più evidenti e insormontabili, maggiori saranno i rischi per l’esplosione di un conflitto interno, che come negli anni settanta, può evolvere in aperta guerra civile come accadde in Nigeria con la secessione del Biafra.
Una funesta guerra civile che, dopo la pacifica transizione da colonia britannica a stato federale, cominciò nel 1967, sconvolgendo il paese durante tre lunghi anni pieni di violenze e massacri, poiché il Biafra - uno stato della federazione nigeriana, interamente popolato dall’etnia Igbo convertita interamente al cristianesimo - non voleva condividere con gli altri stati il potere centrale poiché 95% dei campi petroliferi della Nigeria erano localizzati nel Biafra.
La guerra civile terminò con un saldo di più di tre milioni di morti, in maggioranza Igbo del Biafra, senza, però riuscire a trovare un “trait d’union” nazionale e, soprattutto un equilibrio etnico. Vale a dire le oligarchie degli stati del nord e del centro della Nigeria, appartenenti alle etnie Yoruba e Hausa di religione mussulmana, utilizzarono la vittoria dell’esercito federale per imporre uno stato controllato esclusivamente dai dignitari delle oligarchie Yoruba e Hausa. Uno stato che, con il tempo, è diventato una proprietà di pochi eletti legati o membri dei suddetti gruppi oligarchici, che in meno di venti anni hanno trasformato la Nigeria nel paese con maggiori differenze e contraddizioni sociali, represse e controllate dai militari durante quindici anni che hanno governato con il pugno di ferro.
Oggi, analizzando l’evoluzione dell’attività terrorista di Boko Haram, risulta evidente che la tragica esperienza della guerra del Biafra non è servita a creare uno stato moderno, con una giusta distribuzione della ricchezza e un minimo di giustizia sociale. Per questo, la Nigeria - che è la 26ª economia mondiale, la prima del continente africano, capace di garantire il 5,7% della produzione mondiale di petrolio - è anche il paese dove la corruzione è all’ordine del giorno in tutti i livelli della società. Da sottolineare che la corruzione è diventata l’arma preferita dei gruppi oligarchici, che in questo modo sono riusciti a esercitare un potere tentacolare, grazie al quale riescono a controllare le strutture del governo centrale e anche quelle degli stati federati. Anzi è proprio nei singoli stati che i gruppi oligarchici si sono appropriati delle principali fonti di ricchezza. Basti pensare che negli anni ottanta, la Nigeria era un grande esportatore di prodotti agricoli, perché al lato delle grandi “farm” agricole delle multinazionali esisteva una forte produzione agricola sviluppata dai piccoli proprietari. Oggi, questo settore è praticamente scomparso e la Nigeria deve importare quasi tutto. L’agricoltura che nel 1980 rappresentava il 35% del PIL della Nigeria, oggi è scesa fino al 18%, di cui l’11,5% dipende dalla produzione delle grandi imprese agricole create dalle multinazionali.
Il principale motivo della crisi del settore agricolo è una conseguenza delle opzioni politiche ed economiche deigruppi oligarchici. Infatti, avendo scoperto che lo sviluppo irrazionale del settore terziario offriva guadagni in assoluto soprattutto con salari bassissimi, i gruppi oligarchici decisero di creare un duplo esercito di riserva provocando la fuga dei giovani dalle campagne per avere nelle città un eccesso di mano d’opera e quindi, la possibilità di pagare sempre meno i salari. Un contesto che spiega perché, oggi le capitali europee sono piene di immigranti nigeriani, ma anche di gruppi mafiosi nigeriani specializzati nel commercio umano e nel narcotraffico (cocaina ed eroina).
Multinazionali e neoliberalismo
La decolonizzazione del continente africano, avvenuta in grande parte tra il 1958 e il 1975, ha determinato la creazione degli attuali stati nazionali del continente africano, di cui le rispettive costituzioni, i parlamenti e la metodologia dell’istituzione parlamentare, nella maggior parte dei casi sono copie degli ordinamenti giuridici degli stati colonizzatori. Per questo la questione della sovranità politica e soprattutto quella dell’indipendenza economica sono sempre stati il “tallone d’Achille” degli stati africani, che hanno avuto innumerevoli difficoltà, dirette e indirette, nel moralizzare le relazioni con le antiche potenze coloniali. Di conseguenza, le decisioni dei parlamenti, le sentenze dei tribunali e l’attività dei partiti di governo non sono mai riusciti a produrre elementi istituzionali capaci di rompere lo strapotere delle multinazionali. Anche in quei paesi che durante una ventina di anni sono stati governati da partiti socialisti e che hanno riecheggiato esperienze istituzionali marxiste (Angola, Mozambico, Guiné-Bissau, Etiopia, Eritrea, Somalia, Congo-Brazzaville, Madagascar, Burkina Faso) le relazioni con le multinazionali, nonostante i momenti conflittuali, si sono sviluppate seguendo e accettando i canoni della silenziosa dipendenza. Basti pensare a quello che è accaduto in Angola, negli anni ottanta, quando le delegazioni locali delle multinazionali del petrolio (Exon, Mobil, Britsh Petroleum, Shell, ELF-Aquitaine, Total, Agip) ufficialmente firmavano contratti con il governo marxista del MPLA-PT, per lavorare nei blocchi dell’Off-Shore angolano insieme all’impresa nazionale SONANGOL, però nello stesso tempo, le direzioni delle stesse transnazionali decidevano di mantenere aperto il contatto con i gruppi controrivoluzionari (UNITA e FLEC), facendogli giungere importanti contribuzioni finanziarie attraverso organismi internazionali (Freedom House, Atlantinc Convention , etc. etc.).
L’assurdità di queste relazioni risultarono evidenti nell’enclave di Cabinda, dove i distaccamenti dell’esercito angolano (FAPLA) e di quello cubano (FAR) garantivano la sicurezza alle stazioni di pompaggio off-shore della compagnia statunitense Cabinda Oil (associata alla EXXON), da sempre minacciate dai combattenti del FLEC, un’organizzazione “fantoche” (fantoccio) creata dal governo zairese di Mobutu (oggi Congo) e, quindi appoggiata dalla CIA con il beneplacito della Casa Bianca.
Altro esempio di anacronismo istituzionale fu la travagliata esistenza del “Caminho de Fer de Beira” (Ferrovia di Beira), che univa la città zimbabwana di Bulawaio fino al porto mozambicano di Beira. L’unica via per l’esportazione dei prodotti agricoli dello Zimbabwe (arachidi, mais, canna da zucchero, frutta, caffè, cotone, tè, tabacco e carne bovina) e dei suoi minerali semi-lavorati (oro, nichel, argento, antimonio, platino, cobalto, tungsteno, amianto e cromo). Una ferrovia, che dopo l’indipendenza del Mozambico e dello Zimbabwe (ex-Rhodesia) continuava a essere amministrata da un consorzio in cui partecipavano le stesse imprese sud-africane e multinazionali dell’epoca coloniale. Imprese che poi, nel 1983, appoggiarono la decisione del governo razzista sudafricano di punire (con il beneplacito degli Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Olanda, Francia e Israele) i governi rivoluzionari del Mozambico e dello Zimbabwe, sostenendo e monitorando militarmente il movimento di opposizione mozambicano RENAMO di Afonso Dhlakama, di cui, durante dieci anni, la principale attività terrorista fu il sabotaggio della ferrovia del Caminho de Fer de Beira.
C’è da dire che dopo la creazione degli stati nazionali, le transnazionali si adattarono al nuovo “status” del continente modificando la propria attuazione. Infatti, più che cooptare i programmi politici ed economici dei nuovi governi, cominciarono a “addomesticare” alcuni settori della classe politica maggiormente legati ai settori strategici dell’economia, tali come banche, imprese pubbliche energetiche, trasporti e soprattutto i centri accademici che avrebbero dovuto formare i nuovi quadri dirigenti. Nello stesso tempo fomentavano la” voracità monetaria”, l’ambizione politica e il gusto per il lusso nei differenti clan dei gruppi oligarchici per poi trasformarli in una fatiscente borghesia nazionale capace di monitorare nelle attività del governo e nello stesso tempo rappresentare e difendere gli interessi delle multinazionali.
Una relazione che divenne più forte dopo il 1990, quando gli enunciati neoliberali del Forum di Davos divennero programmi di governo per la maggior parte dei paesi africani.
Un contesto che ha prodotto la nascita di una nuova classe dirigente, originaria delle oligarchie dei gruppi etnici tradizionali, completamente alienata dai programmi del neoliberalismo e, quindi, predisposta verso il continuo arricchimento attraverso la difesa degli interessi delle transnazionali e dei conglomerati finanziari. Di conseguenza, questa nuova e falsa borghesia nazionale ha scoperto che la miglior maniera per sopravvivere in termini politici e, quindi, per controllare i settori strategici del paese è necessario ricorrere alla corruzione per vincere le opposizioni e, soprattutto per pagare i servizi e la fedeltà canina delle unità speciali dell’esercito e dei servizi segreti. Vale a dire i nuovi pretoriani che nella storia africana hanno realizzato decine e decine di colpi di stato per assecondare il padrone più ricco.
Così facendo, nella maggior parte dei nei paesi africani il potere si è trasformato in un autentico monopolio – molte volte ereditario - esercitato da un minoritario ma poderoso triangolo formato da:
a) nuova e falsa borghesia nazionale (oligarchie/clan etnici);
b) classe politica (governo/tribunali/esercito);
c) amministratori (banche/imprese pubbliche/filiali di transnazionali), che hanno trasformato il continente africano in un insieme di paesi senza nessuna rappresentatività politica a livello internazionale, con una situazione economica che oscilla tra il tragico e il drammatico e dove i rispettivi popoli vivono un’emblematica povertà, mentre la sua “classe dirigente” sguazza nell’oro, inviando i suoi rampolli a studiare nelle migliori università americane, britanniche, francesi e svizzere!
Il Caso Burkina Faso
Il 15 ottobre 1987 i servizi segreti di Stati Uniti e della Francia autorizzavano la definitiva destabilizzazione dell’esperienza governativa di Thomas Sankara, che era ucciso dal suo stesso vice-presidente, Blaise Compaoré. Finiva così, con il vile assassinato di Sankara, l’esperienza rivoluzionaria più ideale e più autenticamente africana. Al suo posto subentrava la restaurazione del potere oligarchico che nelle mani di Compaoré e dei suoi protettori franco-statunitensi che è durata ben ventisette anni legittimata da quattro false elezioni.
Però quando Blaise Compaoré ha messo in pericolo la continuità degli interessi economici delle transnazionali e quelli geo-politici della Francia e degli Stati Uniti è scoppiata la rivolta popolare che il 31 ottobre 2014 lo ha obbligato a esiliarsi in Costa d’Avorio.
Senza voler, comunque, squalificare il valore politico di Zephirin Diabré (56 anni), capo dell'opposizione durante la rivolta popolare dell'ottobre del 2014 o quello di Beneveundé Sankara, che è presidente dell’UNIR ma non è parente di Thomas Sankara, bisogna dire che la Francia e gli Stati Uniti e “il mercato” fin dal 2012 avevano deciso di rompere con Baise Compaorè. Infatti, la parola fine del destino politico del “l’unique president” (presidente unico) fu data quando i giornali francesi e inglesi rivelarono che l’ex-presidente del Burkina Faso era intimamente legato al commercio illegale di diamanti utilizzati per il finanziamento della guerra civile in Sierra Leone. In seguito la stampa francese denunciò i legami di Compaorè con Laurent Gbagbo, responsabile di una sanguinaria guerra civile in Costa D’Avorio. Comunque, quando agenti dei servizi segreti francesi rivelarono alla stampa che uomini del clan di Compaoré avevano negoziato la vendita di armi ai gruppi jihadisti del Mali, dal Palais de l'Elysée, venne l’ordine di procedere al cambio, che si realizzò quando Baise Compaorè cercò, maldestramente, di imporre una nuova norma costituzionale per essere rieletto per la quinta volta.
Lo zampino della Francia nella rivolta popolare del 31 ottobre divenne evidente quando fu divulgato che i servizi segreti francesi oltre ad impedire l’arresto di Compaoré - che in questo modo ha potuto esiliarsi e trasferire le sue ricchezze in Costa D’Avorio – hanno imposto una giunta militare provvisoria presieduta dal colonnello Yacouba Isaac Zida con l’incarico di organizzare nuove elezioni il 31 gennaio 2015. Però, per allungare i tempi ed evitare le elezioni la giunta militare del colonnello Zida, il 18 novembre 2014, nominò Michel Kafando (un politico molto legato ai servizi francesi) presidente ad interim, dando poi allo stesso colonnello Zida l’incarico di formare un governo di transizione.
Passati dieci mesi, il 17 settembre 2015, il clan di Baise Compaorè ritornò all’attacco con il generale Gilbert Dienderé che realizzò un colpo di stato per “…difendere la partecipazione alle elezioni di tutti i partiti...” Soprattutto quella del nuovo partito che Roch Marc Christian Kaboré - ex-primo ministro di Compaoré – aveva creato il 25 gennaio 2014, per dare una nuova immagine di “verginità” politica al vecchio e corrotto CDP del ”l’unique president” con il nuovo “Mouvement du People pour le Progres” (MPP) .
Anche in questo colpo di stato i servizi segreti occidentali hanno agito nell’ombra, permettendo un “patto di amicizia” tra i 1500 soldati golpisti del reggimento presidenziale del generale Gilbert Dienderé e il presidente ad interim, Michel Kafando che oltre all’impunità per i golpisti ha garantito che gli ex-parlamentari del CDP di Compaoré avrebbero potuto concorrere nelle liste del MPP per l’elezione 127 deputati!
Quindi, il 29 novembre i 25.000 soldati dell’esercito fedeli al colonnello Yacouba Isaac Zida hanno garantito il primo turno delle elezioni, dove 5,5 milioni di elettori del Burkina Faso si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente e i 127 deputati del Parlamento.
Subito dopo la chiusura dei seggi, i primi sondaggi prevedono una vittoria di misura da parte di Zephirin Diabré, il lider della rivolta popolare dell'ottobre 2014 che è il candidato di un fronte politicamente ampio e progressista. Certamente, lui sarà il nuovo presidente del Burkina Faso. Però, le stesse fonti ammettono che quasi tutti i parlamentari del vecchio CDP di Campaorè saranno rieletti nelle liste del MPP. In questo modo Zephirin Diabré, in nome della governabilità e della convivenza pacifica tra i due grandi gruppi etnici (Voltaici, Mande e Grus) dovrà aprire le porte del governo e del nuovo stato agli uomini dell’MPP, di modo che tutto ritornerà come prima in mano alle oligarchie e alle transnazionali. Cioè, quello che le eccellenze della Casa Bianca e dell’Eliseo volevano!
Fonte: L'Antidiplomatico
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