di Alberto Di Monte
Nella clessidra la sabbia scorre vorticosa e inesorabile. La chance della Cop21, la ventunesima conferenza delle parti sui cambiamenti climatici, si è conclusa a Parigi lo scorso 11 dicembre. L’obiettivo dichiarato? La firma di un accordo vincolante ed universale per il contenimento della temperatura del pianeta entro i due gradi centigradi d’innalzamento.
A ventitré anni di distanza dal Summit della Terra, tenutosi a Rio nel giugno 1992, e a 5 anni dalla scadenza della seconda fase del Protocollo di Kyoto, i delegati di oltre 190 paesi del mondo si incontrano nella capitale francese colpita prima dalla follia di Daesh, poi dallo stato di emergenza che sta sistematicamente impedendo ogni forma di protesta e quindi di apertura del meeting ai movimenti sociali dei nord e dei sud di una terra febbricitante.
L’esito dei negoziati è più che mai incerto. A sei anni dalla cocente delusione della Cop15 (Copenhagen, 2009) e a 365 giorni dalla snobbatissima Conferenza di Lima, non si può più procedere per elencazione dei “desiderata”, dribblando una verifica dei risultati ottenuti e mancati nel succedersi delle tappe precedenti. Ciò che sino ad ora si è realizzato, ovvero il trasferimento tecnologico, il sistema della responsabilità differenziate, i mercati di emissioni e la loro in/naturale evoluzione in mercato secondario di tipo finanziario, racconta un’evidenza poco nota ai più: il paravento della sostenibilità ha sbloccato risorse e tecnologie che hanno certamente dato fiato ad un’economia piegata dalla crisi presente; tutt’altro paio di maniche è che questa profusione di investimenti pubblici e privati abbia avuto un impatto significativo anche sulle emissioni di gas climalteranti. Le evidenze a sostegno di questa lettura “non convenzionale” sono anzitutto due:
a) l’unico calo di rilievo di emissioni di gas serra in atmosfera si è registrato nell’anno (e nel solo anno) 2011, quando la locomotiva cinese subì un brusco rallentamento nella sua inarrestabile crescita;
b) tutti gli strumenti proposti nell’ambito delle Cop (sebbene differenziati e difficilmente riassumibili in questo breve contributo) sono figli della rimozione storica del successo della lotta contro i CFC, o clorofluorocarburi. Nel 1985, una decina di anni dopo le prime evidenze circa il rapido assottigliamento dello strato di ozono, specie in prossimità delle regioni polari, Stati Uniti ed Unione Europea cominciarono a lavorare ad una serie di misure sfociate nell’arco di un paio d’anni nel Protocollo di Montreal. Nel corso di una decade, il divieto alla produzione di CFC nella componentistica di elettrodomestici casalinghi si espanse a macchia d’olio, il problema venne affrontato in maniera lineare e vincente risalendo alla fonte e sostituendo i CFC con sostanze meno impattanti sull’ecosistema globale. Oggi quel successo non è replicabile, perché, negli anni successivi, quella stessa disponibilità al cambiamento, dalle tecniche agricole all’approvvigionamento energetico per mezzo di combustibili fossili, dal sistema delle grandi-opere ed infrastrutture a stili di vita basati su un modello energivoro, non è mai stato messo in discussione. All’epoca dei CFC, nessun nuovo sbocco di mercato accompagnò la cancellazione del problema, oggi si punta anzitutto ad uscire dalla spirale della stagnazione e solo in seconda battuta ad affrontare la questione ecologica.
È un problema di disponibilità (negata) anche per mezzo di una rimozione storica: nel meccanismo deliberativo della Conferenza, le evidenze scientifiche sono sistematicamente spuntate con la scure della politica per evitare che sia chiarito il profondo legame tra questione sociale, lavorativa ed ambientale. Ogni periodo o tabella scomoda può essere epurata al servizio degli interessi della classe dirigente di turno, come è stato il caso dell’Arabia Saudita che, non più di un anno fa, fece censurare un’eloquente tabella sulle responsabilità in materia di produzione di CO2 di una fascia ristrettissima e ricchissima della sua popolazione. Nessun altro paese fu in grado di impedirne la cancellazione (proprio per effetto della “dote” energetica del paese) così che oggi sappiamo che, mentre in ambito accademico i negazionisti sono ridotti al lumicino, un nuovo negazionismo si affaccia alle porte.
Siamo consapevoli che il diverso ritmo di industrializzazione pone gli Stati-nazione di fronte a responsabilità differenziate, ma non ammettiamo che anche nei singoli paesi gli squilibri sociali determinano responsabilità e conseguenze stratificate e destinate ad acuirsi nel tempo. Di tutto questo troveremo ben poco nelle Cop, eppure sono grandi le aspettative che accompagnano l’evento.
Perché? Anzitutto perché Kyoto va a scadenza a breve, poi perché la situazione del degente (la terra) lo impone, in terzo luogo perché il valore simbolico di questa Cop è accresciuto enormemente dopo i tragici fatti di Parigi. Eppure, tornando al nostro piccolo, sappiamo che il modello Expo, recepito in tempi recenti dello Sblocca-Italia, condanna il paese a decenni di investimento su trivelle, condotte e stoccaggi di combustibili fossili.
Si può riprogettare il sistema energetico a misura di grandi infrastrutture e petrolio, salvo poi assumere impegni vincolanti in materia di efficientamento e ammodernamento pagati dal pubblico?
Non sono che alcuni appunti, un invito a diffidare dalle facili speranze e dagli impegni insostenibili di chi non ha intenzione di intraprendere alcun cambio di rotta radicale. La palla e la spinta, anche di fronte allo stato di emergenza che incombe e sostiene i venti di guerra, stanno però ai movimenti... come sempre in bilico tra osservatori del processo e attori di un protagonismo collettivo, oggi più che mai urgente.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 22 di Novembre-Dicembre 2015 "System Change NOT Climate Change", scaricabile qui.
Fonte: Attac Italia
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