di Stefania Barca
Le risposte alla crisi ecologica non sono mai tanto tecniche quanto politiche. Esse presuppongono – come scriveva Laura Conti – una idea di quali obiettivi soddisfare primariamente e come: in altre parole, presuppongono scelte. Nell’era del cambiamento climatico, la scelta politica non consiste, come il senso comune vorrebbe, tra lavoro e ambiente tout court, bensí tra diversi tipi di lavoro e dunque diversi rapporti di produzione (e di riproduzione), ciascuno correlato con diverse ecologie possibili. Insomma, la domanda da porci è che tipo di lavoro, che tipo di occupazione sia desiderabile, e in relazione a quali obiettivi di sostenibilitá ecologica.
Tra i costrutti ideologici piú potenti del nostro tempo vi è quello dell’incompatibilitá tra lavoro (occupazione) e ambiente (salute), diabolicamente concepito per oscurare la presenza di un terzo incomodo – l’accumulazione – ossia la vera causa della crisi ambientale e sociale. Senza accumulazione, ci assicura il pensiero unico neo-liberista, non ci sará piú crescita economica, dunque neanche piú occupazione (e tanto meno welfare).
Questo naturalmente terrorizza tutti perché viviamo in un mondo in cui lavoro e natura (ossia, le persone e i loro mezzi di sussistenza) sono radicalmente e violentemente separati, mentre la solidarietá in quanto strategia di resistenza è stata smantellata da decenni di crisi della sinistra: un mondo, dunque, in cui siamo (quasi) tutti dipendenti da qualche agenzia occupazionale che ci garantisca la sopravvivenza, per via diretta o indiretta. E tuttavia, se questo lungo processo storico, che continua oggi con lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici (i ‘mezzi di sussistenza’ che ci erano rimasti) e con il land grabbing (al fine di impedire la sovranitá alimentare), fosse messo realmente in crisi e fermato, non sarebbe certo una perdita ma un vantaggio, anche (e soprattutto) per il lavoro.
Questo naturalmente terrorizza tutti perché viviamo in un mondo in cui lavoro e natura (ossia, le persone e i loro mezzi di sussistenza) sono radicalmente e violentemente separati, mentre la solidarietá in quanto strategia di resistenza è stata smantellata da decenni di crisi della sinistra: un mondo, dunque, in cui siamo (quasi) tutti dipendenti da qualche agenzia occupazionale che ci garantisca la sopravvivenza, per via diretta o indiretta. E tuttavia, se questo lungo processo storico, che continua oggi con lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici (i ‘mezzi di sussistenza’ che ci erano rimasti) e con il land grabbing (al fine di impedire la sovranitá alimentare), fosse messo realmente in crisi e fermato, non sarebbe certo una perdita ma un vantaggio, anche (e soprattutto) per il lavoro.
La fine dell’accumulazione permetterebbe infatti di immaginare possibilitá realmente sostenibili di organizzazione del lavoro, del denaro, delle relazioni sociali e del rapporto con l’ambiente bio-fisico. Ció non garantirebbe automaticamente una transizione post-carbonio, ma costituirebbe la possibilitá perché questa sia pensata e realizzata secondo parametri di equitá ed efficacia. Smontare la logica del ricatto occupazionale, svelarne il carattere fittizio (sebbene drammaticamente e materialmente reale per chiunque non abbia difese contro di esso) è dunque il passo fondamentale per poter legittimare e rafforzare politicamente alternative economiche basate su principi di solidarietá e interdipendenza socio-ecologica.
Ma cos’è che ci impedisce di abbandonare il binomio accumulazione/occupazione, e sperimentare modelli alternativi?Ovviamente, ce lo impediscono le forze in campo, che includono un formidabile apparato tecno-economico, politico-giuridico-poliziale, e ideologico-massmediatico, costruiti per lo piú in supporto all’accumulazione e votati a difenderla fino alla morte (di chi gli si oppone, è superfluo aggiungere). Date le dimensioni immani della sfida, è bene che ciascuno/a acquisti consapevolezza del posto che vi occupa, delle possibilitá di contribuire alla lotta, e dei mezzi a disposizione. Per quanto mi riguarda, intendo con questo articolo contribuire a smantellare l’apparato ideologico che sostiene il ricatto occupazionale, e per farlo ricorreró al mezzo che trovo piú appropriato, quello della critica eco-femminista del capitalismo.
Se lo osserviamo da vicino, infatti, ci accorgiamo che il ricatto occupazionale si fonda su un fattore che sfugge all’attenzione proprio per la sua evidenza lampante: la divisione sessuale del lavoro, e l’indiscusso primato concettuale della ‘produzione’ sulla ‘riproduzione’. Secondo l’economista politica australiana Ariel Salleh, il nesso genere/lavoro/natura va considerato come chiave di volta della crisi ecologica contemporanea. In un articolo pubblicato nella rivista spagnola Ecología Política nel 1993, questa autrice descriveva la divisione sessuale del lavoro che, attraverso un lungo percorso storico, ha assegnato alle donne compiti per lo piú riproduttivi, di cura del vivente e dell’ambiente fisico, e di trasmissione della cultura, in quanto agli uomini sono state riservate le mansioni produttive, sia in termini fisici che intellettuali. Tale divisione del lavoro poggia su una concatenazione dei dualismi concettuali che – secondo quanto dimostrato da tutta la letteratura economica femminista – caratterizzano il discorso economico, a livello sia scientifico-accademico che politico: Societá/natura, Agenzia/passivitá, Produzione/riproduzione, Maschile/femminile.
Il risultato è stato un modello economico androcentrico, che ha a lungo invisibilizzato e devalorizzato tanto la natura quanto le donne, trasformate in risorse passive prive di agenzia storica, definendo il loro lavoro come ‘riproduzione’ per renderlo subalterno alla produzione, attivitá suppostamente superiore in termini economici. Tale modello è stato naturalizzato dentro un ordine simbolico acriticamente assunto anche dal marxismo ortodosso e persino da una parte del femminismo liberale – che punta ad una maggiore valorizzazione economica delle donne nel sistema capitalista, senza peró mettere in discussione le logiche di competizione e produttivitá su cui questo si basa. La teoria eco-femminista si è assunta perció il difficile compito di smascherare e decostruire tale visione androcentrica dell’economia, mostrandone il nesso con la crisi ecologica contemporanea.
Questo approccio, che è rimasto pressoché sconosciuto in Italia, si iscriveva dentro un piú ampio percorso intellettuale, quello della economia politica femminista, che, a partire dagli anni 70, aveva elaborato una analisi critica della svalorizzazione congiunta di natura e lavoro delle donne (Marilyn Waring), e dei dualismi concettuali ad essa associati (Carolyn Merchant), proponendo visioni alternative centrate sulla sussistenza (Maria Mies e Veronika Bennholdt-Thomsen), e sulla sovranitá alimentare (Silvia Federici) come basi della rivoluzione anti-capitalista. Basandosi su quella tradizione, Salleh ed altre autrici del pensiero eco-femminista hanno tracciato una logica connessione tra la divisione sessuale del lavoro e la crisi ecologica: questa sarebbe una conseguenza della subordinazione della riproduzione – attivitá storicamente femminilizzata – alla produzione, attraverso processi di valorazione economica/monetaria centrati sulla trasformazione della natura in merce, per mezzo di lavoro salariato, e sulla esternalizzazione dei costi socio-ecologici.
L’approccio politico economico femminista veniva per lo piú costruito a partire dalla prospettiva delle donne del Sud del mondo, e specialmente della componente rurale e indigena, intese come il gruppo numericamente piú rappresentativo in termini demografici, e al tempo stesso piú fortemente sfruttato e oppresso, tanto materialmente quanto culturalmente, della classe lavoratrice mondiale. L’oggetto polemico di queste autrici era principalmente il lungo processo storico conosciuto come ‘rivoluzione verde’, causa principale – con il supporto della Banca Mondiale – di una ‘accumulazione originaria’ permanente nel Sud globale, che separava le donne dai mezzi di sussistenza attraverso i quali esse assicuravano la produzione di cibo per la comunitá di appartenenza, al tempo stesso compromettendo irrimediabilmente la sostenibilitá ecologica dell’agricoltura mondiale con l’immissione massiccia di erbicidi, pesticidi e fertilizzanti chimici. Una ‘rivoluzione’, questa, portata avanti in nome del principio della produttivitá, ossia del maggiore rendimento economico dell’agricoltura industrializzata – ma in realtá guidata principalmente dalla logica dell’accumulazione. L’agricoltura industrializzata infatti presenta un bilancio energetico, ecologico ed economico altamente negativo rispetto a quella di sussistenza: il vantaggio principale che essa offre è quello di garantire alti profitti al capitalismo agrario – via sfruttamento del lavoro agricolo salariato, alle multinazionali della chimica, agli istituti di credito agricolo ed agli speculatori sul mercato alimentare mondiale.
È importante notare che, sebbene con diverse sfumature culturali e sociali dipendenti dal contesto, la divisione sessuale del lavoro è statisticamente rilevante anche nel Nord, con le donne fermamente relegate in posizioni subordinate nell’economia e nella societá, ma soprattutto viene mantenuta intatta sul piano concettuale: ossia, non è il lavoro delle donne in quanto tale ad essere svalorizzato e subordinato, ma il lavoro di riproduzione sociale (scuola, sanitá, servizi sociali, cooperazione, lavoro domestico, agricoltura familiare, etc) ed il valore d’uso ad esso associato, indipendentemente dal genere delle persone che lo praticano. Nonostante i diritti conquistati dalle donne nel corso dell’ultimo secolo, la dicotomia tra produzione e riproduzione si è dunque mantenuta ben ferma attraverso la sfera ideologica, che continua ad attribuire un primato sociale indiscutibile alla prima, dentro un sistema di valorazione basato sull’accumulazione.
L’economia politica eco-femminista ci ha permesso dunque di vedere la divisione sessuale del lavoro e i dualismi concettuali che sottendono all’economia androcentrica come radici della crisi ecologica contemporanea. Il punto, peró, è come fare a liberarcene. Sebbene parte delle autrici sopra menzionate sostenga con convinzione che la soluzione consiste nel sostituire la cultura patriarcale con la matriarcale, acriticamente assunta come risolutrice di tutte le contraddizioni, sono convinta che il punto sia invece l’elaborazione di un pensiero critico non-dualista, capace di permettere il superamento della dicotomia tra produzione e riproduzione e dunque di orientare nuove strategie, piú efficaci e politicalente radicali, di uscita dalla crisi.
Il concetto, proposto da Ariel Salleh nei suoi contributi piú recenti, di ‘lavoro meta-industriale’, costituisce un passo in avanti. Esso indica l’insieme di quei lavori ‘altri’ rispetto a ció che l’economia androcentrica considera produttivo: tra questi, l’agricoltura di sussistenza e la riproduzione biologica e sociale, largamente – anche se non esclusivamente – svolti da donne. Il lavoro meta-indutriale (salariato e non) rappresenta secondo l’autrice l’assoluta maggioranza della classe lavoratrice globale, e al tempo stesso svolge un ruolo fondamentale nel garantire la sostenibilitá ecologica. Il movimento sindacale dovrebbe dunque liberarsi di concezioni androcentriche del lavoro, dell’economia, e dell’ecologia, fondate sul primato economico del lavoratore maschio del settore industriale ad alta intensitá di capitale, e difendere al contrario la prioritá del lavoro meta-industriale in quanto via di uscita dall’impasse ecologico attuale.
Il concetto di lavoro meta-industriale riproduce tuttavia la divisione sessuale del lavoro e la dicotomia tra produzione e riproduzione, ribaltando la scala delle prioritá in una direzione piú sostenibile. Manca, in Salleh, una chiara articolazione delle forme in cui il lavoro meta-industriale e quello industriale possano unire le forze contro lo sfruttamento congiunto di natura e lavoro, e che tipo di nuovo sistema economico possa nascere da questa unitá politica. Manca, in sintesi, una chiara strategia di superamento della divisione sessuale del lavoro in quanto chiave di volta per la rivoluzione ecologica.
La divisione sessuale del lavoro e la critica eco-femminista dell’economia non si esprimono soltanto sul piano della teoria economica, ma anche su quello dell’attivismo. Ad esse sono legati in vari modi una lunga serie di movimenti, a guida o componente maggioritaria femminile, contro i rifiuti tossici, il nucleare, l’attivitá estrattiva, la deforestazione e i pesticidi, le grandi dighe e altri progetti ad alto impatto ambientale in diversi contesti geografici. Le lotte contro la deforestazione in India, originate con il movimento Chipko negli anni ‘70, quelle per la giustizia ambientale negli USA, nate verso il finire degli anni ’80, ed il femminismo indigeno/comunitario sviluppatosi in America Latina nell’ultimo decennio in reazione all’impatto territoriale del neo-estrattivismo, sono solo alcuni esempi di questo fenomeno.
Anche in Italia l’ultimo decennio ha visto un proliferare di movimenti e lotte a guida femminile per la difesa del territorio, tra cui quelle contro discariche e inceneritori in Campania, e quelle contro l’ILVA di Taranto, per citare i piú noti. Che si auto-definiscano o meno come eco-femministe, queste lotte hanno di fatto segnalato un forte protagonismo femminile nel campo della difesa della vita, che dev’essere interpretato – in modo non-essenzialista – come un riflesso della divisione sessuale del lavoro, che continua ad assegnare alle donne compiti di cura e sostegno del vivente, che vengono al tempo stesso subordinati e devalorizzati dentro il binomio accumulazione/occupazione. Una divisione del lavoro che condanna gli uomini al ruolo di bread-winners, di sostegno al reddito familiare, e dunque prigionieri di mobilitazioni difensive dell’occupazione – non importa quanto insostenibile – piuttosto che della giustizia ambientale e delle possibili alternative economiche. La divisione sessuale del lavoro rischia cosí di trasformarsi in una divisione sessuale dell’attivismo, che entra dentro le comunitá, dividendole in schieramenti interni – tra lavoratori/ici della produzione e della riproduzione sociale – e ne indebolisce le lotte,rendendole incapaci di liberarsi della logica del ricatto occupazionale.
Se il nostro obiettivo, dunque, non è la sostenibilitá del modello accumulazione/occupazione ma la rivoluzione ecologica, il punto di partenza è la messa in crisi, qui e ora, dei dualismi concettuali che reggono la divisione sessuale del lavoro a livello materiale, intellettuale, e politico, e dunque l’elaborazione di teorie e di pratiche che rendano possibile il suo superamento.
Fonte: comune-info.net
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