La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 4 gennaio 2016

Resistenze, dal basso

di Annarita Esposito
Che succede se in un piccolo e poverissimo paese africano preda degli interessi dei narcos sudamericani e dove l’economia illegale supera quella legale, una classe politica troppo impegnata ad alimentare i suoi affari privati non mostra preoccupazione alcuna per l’ambiente? Che succede della Guinea Bissau, dei suoi corsi d’acqua e dell’avvolgente Rio Corubal, dei suoi parchi Cacheu a nord e Cantanhez a sud e dell’imponentepoilão de Amilcar Cabral, dei suoi matos sagrados(le foreste sacre), dell’arcipelago delle isole Bijagos e della meravigliosa e ricca biodiversità floristica e faunistica?
Succede che la popolazione si mobilita, rifiutandosi di rimanere imbrigliata nelle maglie dell’indifferenza di chi gestisce la politica. E non lo fa attraverso manifestazioni nella capitale Bissau, ma “silenziosamente” nei piccoli villaggi dove le decisioni vengono prese attorno all’arvore da palavra.
E proprio il bisogno di proteggere un bene prezioso ha spinto le comunità di Sansalé (Guinea Conakry) e Sanconha (Guinea-Bissau) accompagnate da altri villaggi, una decina in totale, a dare avvio a un percorso virtuoso per la costituzione dell’area protetta transfrontaliera di N’Compa, una foresta sacra ubicata sulla punta meridionale del paese al confine con la Guinea Conakry. Uno spirito costruttivo e un’emozione tangibile hanno animato quelle giornate di confronto.
Rappresentanti della legalità (prefetti e governatori), rappresentanti della legittimità (regulos e capi tradizionali) e poi ong africane e non, uomini, donne, giovani e anziani, si sono ritrovati “Unidos por uma zona transfronteiriça dinâmica, cooperativa e sustentável”. Questo il tema dell’atelier transfrontaliero. Tra le questioni più insidiose, il disboscamento e lo sfruttamento abusivo della foresta, ma allo stesso tempo la volontà e la necessità di impegnarsi per custodire questa ricchezza. Ci ricorda il regulo di Gadamael: «Parlare di protezione significa parlare della nostra vita e quindi del nostro futuro».
L’esperienza di N’Compa, in termini di conservazione partecipativa, è la più recente e non l’unica in Guinea Bissau. Rappresenta l’evoluzione di un percorso iniziato 35 anni prima e conclusosi nel 2011 con la costituzione del parco nazionale di Cantanhez, custode dell’ultimo lembo di foresta densa sub-umida e ancora uno dei casi più illuminanti di valorizzazione conservativa. Grazie al lavoro costante, zelante e infaticabile delle ong locali, le comunità sono state messe al centro delle decisioni, evitando di sviluppare una “cultura da supermercato” basata sulla mera negoziazione, ma coinvolgendole a pieno titolo nelle scelte e rendendole protagoniste della gestione.
E così di fronte all’emergere di interessi economici e finanziari sempre più pervasivi e a un progressivo indebolimento dello stato, la sensibilità delle comunità locali sta crescendo. Si accorgono della necessità di preservare e proteggere in prima persona i beni comunitari non cedendo alle invitanti offerte delle compagnie straniere, ma al contrario ribellandosi e difendendo i propri diritti ancestrali.
Chi paga il conto
Accanto alle forme di organizzazione politica viste per la foresta di N’Compa, si profilano anche forme di resistenza come nel caso del piccolo villaggio di Colbuià nella regione Quinara. Il governo ha concesso a terzi lo sfruttamento delle foreste comunitarie non tutelate dal diritto di proprietà privata con il rischio di un collasso irreversibile degli ecosistemi. Così la popolazione, impossibilitata a dimostrare sul piano legale la propria giurisdizione sulle risorse, contrasta come può (sottraendo motoseghe o bloccando i mezzi pesanti), lo sfruttamento – legale forse, ma certo illegittimo – della foresta da parte della società a cui sono stati concessi i diritti d’uso. Concessioni che si stanno diffondendo anche nelle aree protette dove il taglio intensivo di qualsiasi tipologia di legna dovrebbe essere assolutamente proibito.
E dunque, mentre governi e comunità internazionale non si assumono le loro responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza. È qui infatti che nasce una maggiore consapevolezza e un forte senso comunitario, capace di prendersi cura del “bene comune”. È una strada obbligata, visto che i summit mondiali sull’ambiente non sono riusciti finora (stiamo a vedere con COP21 di Parigi) a definire trattati vincolanti e si accontentano delle “promesse” dei singoli stati.
E mentre in un mondo in crisi economica l’emergenza ambientale diventa un po’ meno emergenza, a pagare il conto sono i paesi più poveri. Anzi, sono le genti più povere dei paesi poveri. Gli effetti di questa inerzia ad agire si riversano in fenomeni allarmanti come appunto il climate change, con conseguenze tragiche.
Il Malawi sta pagando duramente i cambiamenti climatici. Nel gennaio 2015 piogge e alluvioni hanno colpito villaggi e campi. Pochi mesi dopo, la siccità ha avuto effetti disastrosi sulle colture. Ne deriva un’acuta crisi alimentare che riguarda 2,8 milioni di persone. Se a tutto questo aggiungiamo l’instabilità dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità, l’estrema dipendenza del paese dalla rainfed agriculture (acqua piovana decisiva per le coltivazioni) e una crescita della popolazione incalzante con conseguente diffusa malnutrizione, si comprende la gravità della situazione.
E così, i piccoli contadini delle zone più remote, stremati dalla penuria di cibo e dalla tardiva e inadeguata risposta da parte del governo, cercano di sopravvivere come possono, talvolta ricorrendo anche a pratiche piuttosto allarmanti (box). Del resto, come dice Chikumbu, la donna-capo del distretto di Mulanje: «Abbiamo bisogno di un cambiamento di mentalità. Ma non possiamo sperare di vedere cambiamenti se continuiamo ad andare nella solita direzione».

Articolo estratto dall'ultimo dossier di Nigrizia dedicato all'ambiente dal titolo "Chi paga il conto. Africa esausta" pubblicato nel numero di dicembre 2015.

Fonte: Nigrizia

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