di Checchino Antonini
“Cammina leggero in primavera; Madre Terra è incinta”, raccomandavano i nativi americani. E cammina leggera, quasi a carezzare la sua terra, Nicoletta Dosio. Passeggia per le vie di Bussoleno oppure si arrampica sui sentieri della via Francigena sbarrati dalle barriere che blindano il cantiere del Tav. Non vuole che anche qui diventi uno scenario di fiumi prosciugati, borgate senza più acqua, resti di cave e di cantiere come quelli che Wu Ming 2 ha trovato nel Mugello o camminando a piedi da Piazza Maggiore fino a Milano seguendo i binari dell’alta velocità (“Il sentiero luminoso”, Ediciclo).
E’ dal neolitico che la Valle vede passare viandanti. Il ronzio dell’autostrada del Frejus si fa più rombo col procedere del cammino. Su un pilone, l’immagine di San Rocco: è il protettore della Valle ma pure della polizia e anche delle ‘ndrine che si sospettanno controllare cantieri come questo, proprio sotto il viadotto, sulla terra molle dello scavo e su vecchie vigne lasciate andare perché avvelenate dai fumi della benzina: il vino al piombo fa venire il saturnismo, insomma fa diventare cretini.
Il cantiere ha sradicato le 1500 piante – pino, sorbo e biancospino – che gli abitanti della Libera Repubblica della Maddalena avevano seminato. La sede del museo preistorico è diventata il bivacco per i manipoli, reduci da altri fronti della guerra globale. Costano 98mila euro al giorno per un’occupazione militare che dura ormai da cinque anni. Tutto intorno è un fragile ecosistema e un museo a cielo aperto con vasi, spade, punte di freccia, corredi funebri che risalgono a 6mila anni fa più modernissimi bossoli di candelotti (ne sono stati sparati oltre 40mila), più ciò che resta del villaggio di casette sugli alberi sgomberato con la violenza alla fine del febbraio 2012, dopo due anni di presidio. E infine lo “Zigurrat” tossico, monumento alla ferocia dell’alta velocità rappresentato dai cumuli dei materiali dello scavo esplorativo, intrisi di uranio e amianto, che nessuno porta via. «Un posto senza pace e senza notte», commenta, osservando i fari potenti delle polizie sui reticolati, Nicoletta, che ha l’età di chi ha militato in Lotta continua, in Dp e infine in Rifondazione.
Camminare è un dispositivo di conoscenza: serve a portare il corpo con tutti i sensi a riappropriarsi del paesaggio. Una relazione sempre politica. Ma perfino il passeggio può essere un atto di ribellione se vivi nella giurisdizione della Procura di Torino. Quella «con l’elmetto», come dicono i No Tav: oltre mille denunciati – erano 200 quattro anni fa – molti dei quali alle prese con accuse abnormi (si pensi a quattro ragazzi incolpati – finora invano – di terrorismo, all’antropologa Roberta Chiroli, al romanziere Erri De Luca o al giornalista Davide Falcioni, processati perché troppo empatici con i soggetti di cui dovevano scrivere).
All’inizio di questa estate, Nicoletta spiccava in una lista di 23 persone destinatarie di misure cautelari per una manifestazione dell’anno scorso: 3 andranno in carcere, 9 ai domiciliari con le restrizioni, per tutti gli altri obblighi di firma quotidiani. «Ero presente anche alla camminata del 28 giugno di un anno fa da Exilles a Chiomonte – rivendica Dosio – per ricordare la Maddalena. Una grande giornata popolare, un serpentone colorato e gioioso di tutte le età, interrotto ad un certo punto da barriere inaccessibili ed inaccettabili, avvelenato dal fumo dei lacrimogeni, dagli spruzzi degli idranti. Siamo tornati indietro ma abbiamo trovato il ponte sulla provinciale sbarrato. E loro dall’altra parte a deriderci. A un certo punto le reti sono venute giù. C’ero ed ero davvero incavolata!».
Nico è tra chi decide di non firmare. Le misure cautelari dovrebbero servire a evitare inquinamento delle prove o evasioni. Invece, a un anno dai fatti, sono solo l’ennesima misura punitiva, come sta accadendo a centinaia di persone a Torino e nel resto del Paese. «Lo fanno con noi, con chi lotta per la casa, con gli antifascisti e gli antirazzisti, senza alcun giudizio e senza prove». Per questo Nico non firmerà mai continuando a girare la Valle per le iniziative estive del movimento. Ma alcune settimane dopo la digos bussa ancora alla sua porta: stavolta è un inasprimento delle misure. Due attivisti che hanno violato i domiciliari saranno trasferiti in carcare, per Nico si tratta dell’obbligo di dimora a Bussoleno, con prescrizione di non allontanarsi dall’abitazione di residenza dalle ore 18 alle ore 8. «Amo troppo la mia casa e il mio paese per doverci stare forzatamente. Libera sono, libera resto».
Le motivazioni dell’ordinanza puntano l’indice contro “una personalità estremamente negativa, intollerante delle regole e totalmente priva del minimo spirito collaborativo”. «Sì, non tollero la loro arroganza, non accetto le regole del potere che vorrebbe l’uomo e la natura proni al suo dominio, non collaborerò mai con coloro che si credono padroni del mondo, della vita di ognuno di noi, del futuro di chi verrà dopo di noi. Mi sento libera e felice».
Anche stavolta continua le sue passeggiate ribelli dopo il coprifuoco e il lavoro quotidiano alla “Credenza”, un po’ sede politica, un po’ osteria. Il riferimento è all’eresia dolciniana dei vignaioli in fuga dal Trentino che trovarono rifugio qui dalle persecuzioni dell’ultima crociata. La “regola della credenza” – « Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» – anticipa di 600 anni il marxiano Programma di Gotha. In questo palazzetto nel centro medievale di Bussoleno ci sono una sede di Rifondazione, un centro di documentazione, gli studi della radio, una palestra e stanze per i frequenti ospiti del movimento. Ovunque bandiere e adesivi di ogni tipo di organizzazione. E’ uno dei luoghi di un movimento popolare che non sembra soffrire di liquidità o di riflussi da venticinque anni.
«Se le misure sono ingiuste bisogna rifiutarle – spiega decisa questa professoressa di greco in pensione – quando la partita è truccata c’è bisogno di rivoltare il tavolo. Non dimoro affatto! Non faccio la carceriera di me stessa se i tre poteri, oggi, non è più possibile distinguerli».
Quando questo articolo uscirà la libertà di Nicoletta potrebbe essere stata ulteriormente colpita. Lei lo ha messo in conto come tutti coloro che si sono messi in gioco contro il Tav, da anni, marciando in valle, sabotando il cantiere, battendo le reti, arrampicandosi su pali, alberi, tralicci, ruspe, costruendo presìdi, organizzando assemblee, feste, in una contrapposizione frontale al “partito trasversale degli affari”. «Ribellarsi è liberatorio, spontaneo, naturale. Ribellarsi è giusto, non è mica folklore: è amore per il diritto a vivere di tutti i viventi. E’ cuore e ragione. Sì, vorrei essere una ribelle. Ma è solo il primo passo, il sogno vero è la rivoluzione», dice a Left recitando versi di Nazim Hikmet: “Non vivere su questa terra come un inquilino, o come un villeggiante stagionale. Ricorda: in questo mondo devi vivere saldo, vivere come nella casa paterna”. Poi ammette: «Certe volte, come diceva Rosa Luxemburg, sembra di mordere il granito. Ma proprio perché è terribile è il momento che può rinascere qualcosa».
Mentre la procura di Torino costruisce “teoremi” contro i No Tav, il Tribunale permanente dei popoli, un tribunale d’opinione fondato da Lelio Basso, animato da giuristi di rilievo come Livio Pepino, ha definito il movimento (destando l’irritazione di Caselli) come “sentinelle che lanciano l’allarme, che indicano il cammino”. E ha chiesto di sospendere i lavori come fanno da venticinque anni migliaia e migliaia di persone. Sempre di più.
All’inizio erano solo in cinque alla stazione di Bussoleno per contestare il passaggio del primo Tgv, treno francese superveloce inaugurato in pompa magna da Pininfarina, allora presidente di Confindustria. Ricorda Nicoletta che il Piano Necci (era ad delle Fs) aveva desertificato la stazione di Bussoleno chiudendo il polo ferroviario dove lavoravano in mille. «Saperi, conoscenze, amicizie che se ne andavano dalla valle». Cominciava la privatizzazione delle Ferrovie, lo “spezzatino” aziendale, le dismissioni di stabili e aree, lo smantellamento di 11mila km di linee locali e il potenziamento di 5mila km per l’alta velocità. La polizia tentò di cacciare quelle cinque persone dalla stazione ma avevano tutti comprato un biglietto per Susa. «Così fecero sistemare dei vagoni merci per nasconderci dalla vista di chi sfrecciava sul Tgv».
Ma col tempo quei cinque sono diventati sessantamila come l’8 dicembre 2005: «La liberazione di Venaus dopo le bastonate di due giorni prima». Le manganellate le avevano mezzo rotto il naso e lesionato l’occhio destro. Ma lei tornò a manifestare, «senza occhiali e, per fortuna aveva nevicato così da poter mettere manate di neve sul naso dolorante». Caso archiviato, come ogni querela, denuncia o esposto per gli abusi anche quelli gravi compiuti in Valle dalle forze dell’ordine.
La lotta no tav è diventata il motore di una più generale battaglia in difesa dei beni comuni. Proprio per questo il salto di qualità senza precedenti nella repressione. Un sociologo, Loris Caruso, ha individuato (“Il territorio della politica”, Franco Angeli) gli elementi che hanno permesso la transizione tra un’azione collettiva condotta da alcune minoranze attive a un’azione di massa. La forza dei No Tav consiste nel fatto che il ciclo di vita di un movimento – dal flusso al riflusso – è stato incepppato da azioni innovative che hanno inventato spazi inclusivi, di desiderabilità dell’azione collettiva. Il movimento è stato in grado di rendere costante l’intensità della mobilitazione, di bloccare la competizione interna di aree, di unire la protesta alla prassi (dai progetti di agricoltura biologica fino allo sciopero bancario), di elaborare autentica cultura popolare connettendosi alla storia della Valle e alle sue tradizioni. La convocazione di consigli comunali aperti nei luoghi dei cantieri e la nascita dei presìdi permanenti hanno prodotto la dilatazione dello spazio pubblico istituzionale e la messa al lavoro dei saperi di ciascuno nella gestione quotidiana del presidio e del conflitto. «E’ la regola della credenza», ripete Nicoletta. Senza attendere indicazioni dall’alto, centinaia di singoli parteciperanno alla lotta coi propri trattori, ad esempio, e la forma stessa dei presìdi (progettati come vere baite) contribuirà a fissare una continuità tra casa, quotidianità e partecipazione finalizzata al conflitto. La socialità diventa una risorsa per il conflitto (forse è anche l’antidoto al leaderismo) e i presìdi sono luoghi di cooperazione e ricostruzione del nuovo legame sociale. Nei presìdi si gioca alle bocce, si mangia insieme, si festeggiano compleanni, si commemorano i morti, si fa la rassegna stampa. Nei presìdi si allacciano alleanze con altri territorie e altre lotte, si accumulano risorse per l’azione e l’«attivismo – scrive Caruso – diventa capace di subordinare a sé la routine della vita quotidiana».
Una versione di questo articolo è uscita con Left nr.33 del 13 agosto 2016
Fonte: popoffquotidiano.it
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