La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 29 agosto 2016

Il paese che ci vuole

di Angelo Ferracuti
Fare cinquecento chilometri per attraversare l’Abruzzo, tagliare la Puglia in direzione Potenza, e perderci negli avvolgenti paesaggi lucani verso Aliano per me e il poeta Adelelmo Ruggieri è stato un gesto politico. Arrivare in un paese di poche anime e tra queste terre dove le strade si perdono dentro i calanchi chiari e argillosi, strade che incrociano altre strade, fin quando dal basso delle lingue di asfalto non sali seguendo l’indicazione perché le case, i borghi, le piccole piazze sono in alto, bisogna conquistarli, espugnarli curva dopo curva.
Confinato qui dal fascismo Carlo Levi vedeva il paese «bianco vicino ad un alto colle desolato, come una piccola Gerusalemme immaginaria nella solitudine di un deserto», così scriveva in uno dei nostri libri civili, Cristo si è fermato a Eboli, che ad Aliano ha dato un po’ di notorietà letteraria.
Settant’anni dopo la sua pubblicazione un altro scrittore visionario quanto quello torinese, Franco Arminio, è giunto in questo luogo simbolico della Lucania interiore per organizzare «La luna e i calanchi», qualcosa che ricorda più i raduni situazionistici degli anni ’70 che le paludate rassegne festivaliere con i filosofi o gli scrittori, l’orizzontale contro il verticale insomma.
Lui, che si definisce un «Capitano» whitmaniano, quando arriviamo è già in Piazza Garibaldi padrone della scena. Pantaloncini corti da paesologo camminatore, stringe mani, incita e sfotte, cerca di risolvere anche i problemi di alloggio nelle case diffuse prive di asciugamani, carta igienica, dove non c’è neanche uno specchio per potersi guardare. Ma qui è così, e nessuno si lamenta, tutto è provvisorio come la comunità che si raccoglie ogni anno intorno all’autore irpino difensore dell’Italia interna, quello che visita da anni i paesi disabitati di un sud disperso per fare quello che chiama «turismo della clemenza». Mentre un’altra Italia, quella centrale, negli stessi giorni era straziata da un terremoto apocalittico, quindi un festival di una urgenza molto forte, diretto da uno scrittore nato nella ferita del sisma che colpì la sua Irpinia d’Oriente negli anni ‘80, che ha raccontato in un libro indimenticabile, Viaggio nel cratere (Sironi, 2003).
In Piazza Garibaldi, di lato alla sede del Comune, è allestito il circo dei Calanchi, un clown calvo e corpulento ammaestra i bambini seduti sulle balle di fieno, per strada Claudia Fabris, le cui ciocche di capelli nerissimi e rigogliosi sono alzate da palloncini colorati, gira con un cesto da cui si possono pescare poesie, in paese il clima è rilassato, si passeggia in lungo e il largo la via principale, i giovani arrivati qui e accampati in tenda stanno seduti ai tavoli dei due baretti bevendo birre, o vagano per i vicoli che da qui scendono verso Piazzetta Panevino. È l’agorà dove dalle dieci di sera alle sette del mattino c’è sempre qualcuno che recita, canta, suona, oppure come me e Adelelmo alle due passate conversa sui destini sociali del Sulcis-iglesiente ma anche sulla morte, tema al quale il festival della paesologia quest’anno dedica una stanza dove si può lasciare una testimonianza scritta. Ce ne sono alcune struggenti e umanissime. Mi colpisce quella scritta a mano con una grafia elegante di un mancato incontro davanti al mare di Posillipo: «Non sei arrivato e io ero a cinque minuti e non t’ho potuto abbracciare mentre morivi». Tra i vicoli molte istallazioni nelle cantine delle case, come la piccola ma preziosa mostra Cellophane armato di Pietrantonio Arminio, appoggiate a un muro che dà verso i calanchi le tavole in terracotta con le parole cadute in disuso: Umiltà, Rispetto, Altruismo, Tolleranza, Solidarietà, Ascolto e Pietà.
Per essere un piccolo paese, Aliano ospita un museo della civiltà contadina, la casa di Levi e i suoi luoghi, ricordati con delle targhe in terracotta in diversi punti del borgo, un auditorium e la Sala personale Paul Russotto, un pittore newyorkese di origini alianesi, esponente di spicco dell’espressionismo astratto americano. Sotto al museo c’è «La stanza delle voci», curata da Claudia Fofi e Silvana Kühtz, con giochi di lettura e il lascito delle voci. Sono voci di chi ha tradito, oppure è stato abbandonato. Quando mi siedo, Silvana legge una poesia però mi chiede di ascoltarla ad occhi chiusi. «Ci sono troppe immagini, troppe fotografie», mi spiega Claudia. «Bisogna dimenticare i visi e mantenere le voci, la voce è la vera anima delle persone». Quando va nelle scuole cerca di insegnare ai bambini di non parlare con la voce alta ma ad alta voce, spiega, «quella che si usava nei campi, che era una voce selvatica, vera» racconta commossa.
Diverse sono le incursioni paesologiche, come quella verso Gorgoglione, un pellegrinaggio iniziato con un serpentone di auto e finito a piedi tra i boschi fino alla Grotta del Brigante. Io e Adelelmo ci siamo andati insieme ad Antonio Selbusi e Fridanna Maricchiolo, incontrati in paese. Frida è ricercatore all’Università Roma Tre, dice che secondo lei la gente arrivata qui è spinta da un forte bisogno di identità sociale, «tutto si basa sull’appartenenza a dei gruppi che abbiano un riconoscimento sociale positivo, perché questo crea autostima». Ma c’è anche un bisogno forte di politica e di ricostruzione di un lessico, cose che questo festival comunitario interpreta con alcune lectio magistralis (Isaia Sales sulle mafie, Gianfranco Viesti su Sud e globalizzazione, tra gli altri) e i Parlamenti, sorta di confronto a più voci e aperto sulle questioni della contemporaneità. Indimenticabile «La passeggiata nei calanchi», poco sotto Aliano in un paesaggio lunare di collinette argillose e dentro il grande uliveto che si vede in alto, dal paese, la messe di alberi rigogliosi che tinteggiano le terre arse. Come in una cerimonia laica fatta di sedici stazioni, lungo la strada di polvere che serpeggia in uno scenario naturale fortemente suggestivo, riecheggiano voci e suoni di musicisti e poeti, quelle di attori. Anche grazie a queste «Azioni paesologiche», dove «l’arte sacralizza i luoghi», come dice Arminio al megafono mentre la processione avanza, «siamo sentinelle di questo paesaggio, quindi non potranno oltraggiarlo, anche grazie a noi diventerà il Parco protetto dei calanchi».
In una società dove ormai gli scrittori, gli intellettuali non hanno più un ruolo sociale, ridotti anche loro a produttori di merci seriali, divenuti entertainer spettacolari, Franco Arminio è l’ultimo dei poeti comunitari, cioè qualcuno per il quale la parola diventa concreta, la frase dà vita a una azione civile, è uno dei motivi che ha spinto me e Adelelmo ad arrivare fin qui in questa coda dell’estate, cosa che hanno fatto molti altri da ogni parte dell’Italia, poeti come Mariangela Gualtieri, critici rigorosi come Andrea Cortellessa, narratori civili come Andrea Di Consoli, reporter come Rumiz, filosofi, pensatori, politici che cercano d’invertire la rotta di un Meridione che arretra sempre di più nel mondo globalizzato. Le sue frasi liriche combattono quelle mortifere del Capitale finanziario, e al P.I.L. oppone esteticamente il B.I.L. (Bellezza interna lorda). Per i ragazzi nati in queste terre, spesso destinati alla cattività e all’esodo, Arminio ha scritto una lettera, li invita alla rivolta: «Uscite, contestate con durezza i ladri del vostro futuro: sono qui e a Milano e Francoforte, guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo. Siate dolci con i deboli, feroci con i potenti». È l’erede naturale di Rocco Scotellaro e Danilo Dolci, di cui ho comprato proprio qui ad Aliano un libro delizioso, La radio dei poveri cristi, storia brevissima della prima emittente libera italiana durata un giorno e chiusa da poliziotti e carabinieri nel marzo del 1970. Me l’ha venduto un editore coraggioso arrivato dalla Sicilia, Ottavio Navarra, pacchi colmi di volumi e banchetto al seguito. «Sono venuto perché mi piace quello che scrive Arminio», mi spiega, «l’idea di un nuovo Umanesimo, siamo qui per cercare strade nuove, parole nuove, un festival dove uno diventa veramente protagonista».
Sono tornato a Fermo, la mia piccola città, giusto in tempo per sentire il grido sotterraneo di un’altra Italia interna sfregiata dal terremoto che ha colpito piccoli paesi che erano e sono anche parte della mia geografia interiore: Arquata del Tronto, Amandola, la montagna di Montegallo. Anche nel nostro appartamento al quinto piano, è arrivata la paura a svegliarci nel cuore della notte, a ricordarci fragili come le piante, le case, gli animali dei paesi.
Essendo stato per tre giorni ad Aliano, dove pubblico e artisti si incontrano davvero per strada, nei bar, soprattutto con la gente, con una umanità semplice e mite, consumano un pasto povero alla mensa, mi è venuta in mente quella frase bellissima di Cesare Pavese da La luna e i falò che pensando ai luoghi cancellati fa venire i brividi: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Fonte: Il manifesto 

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