di Stefano Galieni
Proseguiamo con la storia dei 35 euro che tanto tiene banco nel dibattito pubblico in quanto “privilegio dei richiedenti asilo” accolti in Italia. Si preannunciano grandi novità che porteranno fine a questo sistema secondo il Ministro Angelino Alfano, ma quali sono? Come scrivevamo giorni fa gran parte dei richiedenti asilo sono accolti nei centri emergenziali di fatto gestiti tramite le prefetture, i CAS e solo una percentuale minima nel sistema Sprar in cui sono i Comuni a decidere. Su 8000 comuni italiani solo un decimo ha accettato di avere uno o più Sprar e per diverse ragioni.
Fino a oggi questo ricade per il 5% nel bilancio locale, il controllo delle voci di spesa è puntuale, ogni euro utilizzato va comprovato e soprattutto l’accoglienza molto spesso, in particolare in aree critiche, toglie consenso alle amministrazioni locali “accusate”, non solo da destra purtroppo, di “portare immigrati. Delegando tutto alla gestione emergenziale del Viminale, della ripartizione di richiedenti asilo, le giunte, che non possono opporsi agli organismi statali, vengono così deresponsabilizzate.
Fino a oggi questo ricade per il 5% nel bilancio locale, il controllo delle voci di spesa è puntuale, ogni euro utilizzato va comprovato e soprattutto l’accoglienza molto spesso, in particolare in aree critiche, toglie consenso alle amministrazioni locali “accusate”, non solo da destra purtroppo, di “portare immigrati. Delegando tutto alla gestione emergenziale del Viminale, della ripartizione di richiedenti asilo, le giunte, che non possono opporsi agli organismi statali, vengono così deresponsabilizzate.
Dallo staff di Alfano sono giunte proposte di modifica, alcune interessanti altre estremamente preoccupanti che si sono concretizzate in un Decreto Legge pubblicato su Gazzetta Ufficiale in data 10 agosto scorso. Si dispone che in ogni comune non debbano essere accolti nel sistema Sprar più di 3 richiedenti asilo per ogni mille abitanti e questo sembra un ragionamento utile. Si dispone che nei comuni che accetteranno un progetto Sprar (che prevede, nel quadro di una “accoglienza integrata”, insegnamento di italiano, tutela legale, psicologica e sociosanitaria, formazione al lavoro e percorsi di avviamento all’autonomia, oltre che vitto e alloggio) saranno esentati dal dover accettare i centri della prefettura (CAS) in cui il controllo sulla gestione e sui servizi erogati è prossimo allo zero. Degli ormai famigerati 35 euro al giorno per ospite, nulla dovrà provenire dalle esangui casse comunali che anzi avranno, se aderiranno, la possibilità di avere indirettamente incentivi tali da compensare alcuni vincoli dei patti di stabilità. Alla voce cofinanziamento, a cui si impegnano i comuni ci sarà anche l’assunzione di personale per la gestione dei progetti. Peccato che la gestione dei progetti sia per forza di cose appaltata a soggetti attuatori (privati) e riesce difficile immaginare processi di internalizzazione dei lavoratori dell’accoglienza. Difficile ad oggi capire come questo passaggio verrà realizzato: saranno solo alcune figure ad essere assunte? O come è più scontato pensare, resteranno gli enti attuatori a farlo con contratto a termine, al massimo triennale? Il decreto prevede che anche numerose altre voci di spesa indiretta, dalle strutture per l’accoglienza, alle utenze eccetera risultino come parte del cofinanziamento e che quindi il comune che accoglie tragga vantaggio da tale progetto. A trarne vantaggio sono anche le economie locali, posti di lavoro, esercizi commerciali, strutture che divengono poi di pubblica utilità, ma per contentare il montare del furore leghista e non solo questo non basta.
Come abbiamo già avuto modo di spiegare, dei 35 euro al giorno, solo 2,5 finiscono nelle tasche dell’ospite per spese considerate voluttuarie, una sorta di paghetta giornaliera. Orbene, 50 centesimi ad ospite al giorno, verranno tolti per essere destinati al comune ospitante. Diciamo che in questa maniera un Comune che accoglie 50 persone riceverà “ben” 25 euro al giorno per migliorare il proprio bilancio. Nessuna delle altre voci di spesa risulta intaccata. Ma, nei progetti, il “pocket money” così viene chiamata la cifra destinata al richiedente asilo, potrà subire variazioni di ordine premiale (di più per chi frequenta i corsi di lingua o di avviamento professionale) o potrà essere del tutto eliminato qualora l’ospite trovi un inserimento lavorativo.
E qui entra in ballo la seconda “grande proposta culturale” che ha contagiato destra e centro sinistra. «Facciamo fare ai migranti lavori “volontari” così si ripagano l’ospitalità». Tante le ragioni per considerare a dir poco assurdo tale approccio. Intanto se si tratta di un volontariato obbligatorio c’è una contraddizione in termini. In seconda istanza se si tratta di Lavori Socialmente Utili perché retribuirli meno di quanto spetterebbe ad un disoccupato autoctono? Per mettere ancora una volta i penultimi contro gli ultimi? Si decida di considerare invece alcuni lavori necessari per una comunità e li si metta a bilancio come tali, permettendo di svolgerli a parità di condizioni salariali. Costerebbero di più di certo, ma almeno potrebbero re immettere persone nel circuito economico non in virtù della propria provenienza nazionale ma dei propri bisogni. In qualche maniera, soprattutto nei piccoli comuni dove è più facile costruire relazioni sociali, l’immissione di lavoro non crea conflitto ma processi di inclusione. Il discorso è certamente più complesso per le grandi aggregazioni urbane ma intanto si cominci ad invertire un processo in cui il business dell’assistenzialismo che mantiene eternamente in emergenza ha sempre imperato. Alcune operazioni di propaganda di “immigrati messi al lavoro per rendersi utili” che tanto hanno fatto breccia, di fatto rappresentano una estremizzazione del jobs act. Anche sui percorsi di tirocinio, la diffusione dei vaucher come moneta sonante, non fanno altro che fornire un’altra base di profitto a padroni pubblici o privati. Il lavoro deve essere pagato per quello che prevedono i Contratti nazionali di categoria, si potrebbe pensare magari ad agevolazioni fiscali per i Comuni ma non sulla base di una divisione “etnica” o legata allo “status di rifugiato o richiedente asilo” di chi lavora.
Questo dovrebbe portare, nel quadro dello stesso Migration Compact che prevede l’aumento di rimpatri ed espulsioni per coloro a cui è negata ogni forma di protezione e ricollocazione in altri paesi europei (finora fallita) per chi ottiene invece lo status di rifugiato, a far diminuire il ricorso ai centri emergenziali, ai CAS vero pozzo senza fondo.
Anche questo obiettivo difficilmente sarà raggiunto e per una ragione non marginale. Gli incentivi all’accoglienza tramite i progetti Sprar sono a mio avviso necessari ma non sufficienti. I Comuni che hanno poche risorse e forti problemi occupazionali potrebbero beneficiarne, in un paese di 10 mila abitanti anche 20 posti di lavoro per gli operatori dell’ente attuatore potrebbero produrre risultati positivi. Ma per i comuni ricchi, votati al turismo o le cui condizioni economiche sono meno disastrate, sono sufficienti tali incentivi? Se si pensa alla virulenza con cui a Capalbio, tanto per citare un esempio noto, ci si sta rifiutando, anche tramite ricorsi al TAR di accettare 30 persone in un centro proposto dalla prefettura, viene da immaginare che le località prestigiose si propongano per la ripartizione. Occorrerebbero strumenti legislativi tali da rendere o obbligatoria la partecipazione ai progetti per ogni comune in base a criteri quali il numero di abitanti, le opportunità occupazionali, gli stabili disponibili eccetera. Occorrerebbe (questo è previsto nel piano Sprar del 2015 ma fatica a trovare realizzazione) che si privilegiasse la sistemazione degli ospiti in appartamenti e la piena autogestione della vita quotidiana, cucina, pulizia eccetera, impedendo la realizzazione di centri periferici destinati a divenire ghetti. Occorrerebbe che fossero previste invece misure anche di carattere economico punitivo per le amministrazioni che rifiutano qualsiasi forma di accoglienza costringendo così gli altri a sobbarcarsi di ogni carico ulteriore. Occorrerebbe, poi che anche enti come quelli religiosi, votati all’ospitalità ma refrattari anche a mettere in pratica le stesse parole di Papa Francesco, mettessero a disposizione i propri spazi. Ma la volontà politica di mettere mano a questo complesso di materie, semplicemente non esiste. Se ci fosse si otterrebbero ben altri risultati.
Ci sarebbe meno emergenza e più accoglienza e la vita di un migrante non varrebbe 50 centesimi di contributo.
Fonte: Rifondazione.it
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