di Luca Bizzarri
A fronte dei grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il sistema pubblico, e il suo rapporto con i cittadini, possiamo oggi proporre una nuova riflessione attorno al ruolo dell’ente pubblico, che potremmo chiamare di modello diffuso. In sintesi l’azione pubblica si sostanzierebbe come quell’attività collaborativa fra amministrazione pubblica e privati dove massima attenzione viene posta agli strumenti di ascolto attivo e di creazione di fiducia, ma anche a procedure codificate atte a garantire la progettazione collaborativa sugli aspetti generali e di dettaglio dei servizi, la facilitazione al confronto sulle diverse esigenze e, non da ultimo, la promozione di responsabilità condivise sull’attuazione delle decisioni.
Va da sé che il modello qui prospettato nasce più dallo stretto confronto con il privato e da un cambiamento di mentalità, a volte anche in ottica manageriale e di etica lavorativa, che caratterizzerebbe una parte degli amministratori locali del Paese.
Questo per dire che l’orizzonte del modello diffuso dell’azione pubblica qui evocato spesso si scontra con realtà amministrative diversificate ispirate il più delle volte a logiche verticistiche a servizio dell’interesse dei pochi a scapito dei più. Ma questa è la storia del servizio pubblico in Italia che ciononostante si scontra oggi con una cittadinanza più sensibile e pronta al confronto, anche sulle responsabilità pubbliche.
Pensiamo – fra i tanti esempi oggi a disposizione – ai gruppi organizzati di guerilla gardening che invitano all’azione partecipata per abbellire zone urbane degradate spesso a causa dell’incuria o incapacità dell’ente pubblico. È vero che parlando di modello diffuso di azione pubblica ci si permette il lusso della sperimentazione su bisogni concreti e spesso vitali delle persone, ma è altrettanto vero che laddove non è arrivata la riforma di un sistema complesso come quello pubblico e istituzionale è stata proprio la comunità (qualcuno direbbe la “società civile”) a mettere in campo forze e energie di reazione che hanno generato il cambiamento dei contesti nei quali viviamo.
Il modello diffuso riprende, e a volte ne esalta l’aspetto più retorico, il discorso che, da qualche anno ormai, viene portato avanti sul piano delle rivendicazioni gestionali da parte della società organizzata e che riguarda l’affermazione del cosiddetto bene comune. Il tema è stato al centro delle lotte civili più importanti di questi ultimi anni ed è stato spesso sbandierato senza cognizione per sostenere richieste, per quanto legittime, in gran parte legate alla gestione degli spazi deputati alla cultura. C’è da dire comunque che il concetto, per quanto logorato, ha assunto una riconoscibilità a livello popolare mai avuta prima e allo stesso tempo ha riportato a galla le riflessioni che avevano accompagnato il progetto di riforma dell’articolo 810 del Codice civile ovvero di quell’articolo che tratta la nozione di bene giuridico.
Tradizionalmente il nostro legislatore ha sempre riconosciuto la distinzione tra bene pubblico e bene privato recependo così la classica contrapposizione tra proprietà privata e demanio pubblico. Nei primi anni del ventunesimo secolo però si registra l’istituzione di una commissione di studio, istituita dal Ministero di Giustizia e presieduta da Stefano Rodotà, per la riforma di questa impostazione classica e che proponeva l’introduzione nel codice della nozione di bene comune. Concetto che non appare mai esplicitamente nella Costituzione, sebbene il senso venga espresso da altre formule, altrettanto efficaci, quali interesse generale, funzione sociale, interesse della collettività e quant’altro.
Ciononostante la definizione che la commissione Rodotà ne dà nel 2007 risulta precisa: «Si è prevista, anzitutto, una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali. Sono beni che […] soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche.
La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità. Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare, la possibilità di loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela restitutoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione».
Al di là della sua carica rivendicativa, la nozione giuridica di bene comune è conosciuta fin dai tempi più lontani e non coinvolge esclusivamente prese di posizione del mondo laico, ma anche di quello cattolico. Si pensi ad esempio alle indicazioni contenute nell’enciclica Pacem in terris dove l’allora Pontefice Giovanni XXIII invitava tutti gli esseri umani a portare il loro specifico contributo all’attuazione del bene comune e ricordando come questo fosse «un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri di una comunità politica, anche se in grado diverso a seconda dei loro compiti, meriti e condizioni. I poteri pubblici quindi sono tenuti a promuoverlo a vantaggio di tutti senza preferenza per alcuni cittadini o per alcuni gruppi di essi».
Questo ci racconta come il tema della titolarità diffusa di alcuni beni sia una questione di democrazia che coinvolge tutte le istituzioni del nostro Paese, da quelle laiche a quelle confessionali e come l’affermazione di questa titolarità e delle connesse responsabilità che ne derivano, debba nel tempo passare da un’affermazione di principio di carattere politico alla pratica quotidiana nella vita delle nostre città. Una lettura moderna di questo tipo di bene ci dice addirittura che esso esiste, al di là delle formule, solo e in quanto prodotto da una relazione di carattere qualitativo con uno o più individui all’interno di una comunità.
Come dire che questo tipo di bene non lo si può possedere, ma se ne può fare parte e quindi centrale diventa il ruolo della manutenzione e della gestione. Anche la gestione dei beni comuni deve essere organizzata in modo da consentire a tutti i potenziali utilizzatori di potere – e non necessariamente di dovere – partecipare alle decisioni relative al modo in cui il bene viene utilizzato o fruito. E su questo punto, quello della gestione, arriviamo al nodo della questione.
Un segno concreto: il Regolamento sui beni comuni
Chi regola la gestione di questi beni, il cui accesso migliora le condizioni di vita dei cittadini? Chi ne è il soggetto attivo? E soprattutto qual è il filo rosso che unisce la gestione dei beni comuni con il modello diffuso dell’azione pubblica e la voglia di condivisione che caratterizza parte del nuovo movimento sociale dello sviluppo locale? Sono tutte domande legittime, le cui risposte spesso non possono essere codificate in procedure o normative.
Gli enti pubblici, quelli più sensibili almeno, cercano di dare risposte di impulso, mentre il terzo settore agisce anche in autonomia per colmare il vuoto normativo e per sperimentare nuove vie da condividere in seconda istanza con gli altri. Il fine è pressoché comune e riguarda il potenziamento del welfare urbano ovvero di quell’insieme di condizioni che consentono a cittadini e comunità di “stare bene” sul proprio territorio e permettono il pieno accesso alle risorse del territorio affidando la loro manutenzione e cura alle capacità delle comunità e dei cittadini.
In quest’ottica il Comune della città di Trento, così come in precedenza il Comune della città di Bologna, ha adottato nel 2015 un Regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani che ha lo scopo di disciplinare la collaborazione fra cittadini e amministrazione pubblica nell’ambito della cura di alcuni beni o spazi pubblici. A fondamento di un atto di questo tipo ci sono dei valori imprescindibili, primo fra tutti quello di cittadinanza attiva e di bene comune urbano: i cittadini attivi sono tutti coloro che, singoli o associati, si attivano per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani ovvero di beni materiali, immateriali e digitali funzionali al benessere individuale e collettivo.
Nel farlo sono disposti a condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la funzione collettiva. In questa enunciazione si legge appieno la portata di ciò che viene prescritto a livello nazionale dall’articolo 118 della Costituzione ma calato nel contesto locale e soprattutto proceduralizzato grazie a un intervento più dettagliato e preciso. Il ruolo innovativo del Regolamento consiste proprio nella scrittura di un processo codificato dal punto di vista amministrativo che permette a tutti di accedere ai servizi pubblici, ma con un atteggiamento diverso: non quello tradizionale dell’attesa di ciò che il pubblico può fare per te, ma viceversa quello che posso fare io per il pubblico.
Lo strumento individuato dal Regolamento è quello del patto di collaborazione ovvero di un accordo fra cittadini e Comune in cui vengono definiti fra le altre cose gli obiettivi dell’azione, la durata e la modalità di intervento, la fruizione collettiva del bene successivamente all’intervento, la varie forme di garanzia nonché le forme di sostegno (economico e di servizi) messe a disposizione dall’ente.
La formazione di tale patto risponde a criteri democratici che considerano la volontà dei cittadini, che si impegnano attraverso questo strumento, e dei loro interessi purché contribuiscano al perseguimento dell’interesse generale. Gli interventi previsti possono essere di diversa natura: si va dalla cura occasionale fino all’intervento estremo della rigenerazione, passando per possibilità di interventi di cura costante e continuativa o di gestione condivisa.
I principi su cui si basa questo Regolamento riprendono tutto quello che abbiamo affrontato finora e sintetizzano al meglio il nuovo modello gestionale diffuso di azione pubblica: fiducia reciproca e rispettiva volontà di collaborazione finalizzata al perseguimento dell’interesse comune; trasparenza attraverso un’azione accogliente, di apertura e di promozione delle proposte da parte dell’ente; di reciproca responsabilità per la produzione di risultati utili e misurabili; di inclusione, in modo tale che tutti possano prendere parte agli interventi; di sostenibilità economica e ambientale e infine di autonomia civica poiché l’ente pubblico deve riconoscere l’autonoma iniziativa dei cittadini e predisporre tutte le iniziative necessarie a garantirne l’esercizio effettivo da parte di tutti i cittadini attivi.
Inoltre questo regolamento non si ferma alle dichiarazioni di principio, ma individua anche le vie e le unità amministrative competenti che hanno lo scopo di coordinare le proposte di collaborazione con gli organi di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, dando un seguito di realizzabilità al principio della sussidiarietà. Addirittura l’ente prevede azioni di attivazione degli uffici interessati e di collegamento di senso e di azione fra tutti coloro che potrebbero meritatamente intervenire nella proposta.
L’ente partecipa quindi con servizi, competenze interne e alle volte anche con finanziamenti. Il punto più interessante in ottica co-progettuale è senza dubbio che, a determinate condizioni, il patto preveda l’affiancamento dei tecnici comunali ai cittadini nella fase di valutazione conclusiva e di realizzazione della proposta (articolo 23).
È evidente che un regolamento che prevede espressamente la collaborazione fra i privati e l’ente pubblico è segno di un’amministrazione matura, al passo con i tempi e dal forte sapore innovativo e al contempo di una massa critica di cittadini alla rincorsa di spazi propri e con la voglia di incidere positivamente nell’interesse della comunità di riferimento.
Diffusione verso dove?
Il Trentino Alto Adige è nell’immaginario collettivo il luogo dove tutto è possibile. In questo panorama il Trentino Alto Adige si canda ad essere laboratorio di sperimentazione di nuove idee imprenditoriali, con stimoli diversificati, visioni politiche di indirizzo a carattere innovativo e disponibilità di finanziamenti decisamente superiori alla media delle Regioni italiane. Recentemente una famosa rivista specialistica legata ai fenomeni dell’innovazione e della creatività invita ad aprire nuove imprese in Alto Adige, sostenendo che questo territorio possiede «un’economia sana e una pressione fiscale tra le più basse d’Italia.
Un ambiente plurilingue, attento alle imprese e con iniziative mirate di sostegno all’economia, settori di eccellenza e grande forza innovatrice. E una posizione geografica strategica, ponte tra il sud e il nord dell’Europa. Tutto ciò fa dell’Alto Adige il luogo ideale per fare impresa, per vivere e per lavorare». La prospettiva è certamente allettante e come ogni situazione idilliaca non è sempre così scontata la relazione fra volere e riuscire.
Esistono comunque alcune realtà interessanti che stanno prendendo piede in questa prospettiva e che hanno fra i loro interessi imprenditoriali quello dell’innovazione culturale, che ormai sappiamo non essere disgiunta da un altro tipo di innovazione, che è quella che viene più propriamente definita sociale: «Quando si parla d’innovazione culturale non si ragiona solo nei termini, pur fondamentali, dei processi economici, amministrativi e produttivi. Anche e soprattutto si ragiona a proposito di incertezze, conflitti, rinegoziazioni; di percorsi nei quali ci si assume il rischio di vivere la mutazione culturale e di provare a trasformare il senso comune attraverso la sovversione dei processi di categorizzazione della realtà; di rendere, in altre parole, possibile l’impossibile. Si ragiona, insomma, dell’esercizio della cultura nelle sue forme più fieramente bastarde di critica dell’esistente, di esercizio della possibilità, di rinvio continuo all’indicibilità ultima del senso, di tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere».
Lo stesso concetto ce lo ricorda bene Walter Santagata quando afferma l’importanza fondamentalmente per i territori di promuovere atmosfere creative: condizioni grazie alle quali si possono incrementare movimenti generativi di sviluppo locale nei settori ad alta produzione di beni e servizi culturali, i cui effetti positivi siano reciproci e condivisi da tutti gli agenti sociali in gioco. Va da sé che la formazione di queste atmosfere creative necessita di una certa predisposizione da parte degli attori coinvolti in termini di competenze, conoscenze e propensione alla sperimentazione e solo quando questo sistema di idee raggiunge una massa critica allora l’atmosfera creativa diventa operativa e visibile, il che vuol dire che «essa è in grado di autoalimentarsi grazie alla produzione di esternalità positive, all’attrazione di talenti esterni al territorio e ai vantaggi competitivi che offre all’industria e al terziario locali».
Lo strumento naturale attraverso il quale potenziare il ruolo delle atmosfere creative in chiave di sviluppo della persona, e contestualmente del territorio, è quello delle politiche giovanili ovvero di quelle politiche pubbliche che devono perseguire il doppio obiettivo da una parte di stimolare percorsi di autonomia per i giovani (condizioni materiali che consentano ai giovani di esprimere al meglio e in maniera indipendente la propria personalità) e dall’altra di incentivare lo sviluppo di eco-sistemi generativi di innovazione culturale, sociale e progresso economico. E nel farlo accreditare formule dell’autonomia che non siano semplicemente il contrario della dipendenza, ma espressione di legami scelti e accettati, le cui conseguenze e i cui valori connessi siano la responsabilità e il rispetto.
Con questo spirito si contano molte esperienze di attivazione sul territorio nazionale da parte di giovani, e ormai meno giovani, che decidono di mettersi in gioco facendo di queste atmosfere creative il proprio lavoro con un occhio aziendalistico non perdendo però di vista l’interesse comune. In Alto Adige ha preso piede, da un anno a questa parte, un interessante esperimento imprenditoriale legato proprio al tema della cultura e della creatività e che dichiara una visione di sviluppo territoriale: Weigh Station for culture. Il progetto nasce dalla collaborazione di due cooperative e un’associazione del territorio che decidono di partecipare a un bando pubblico per la riqualificazione di uno spazio in disuso nel pieno centro della città di Bolzano e che vincono con un’idea forte, che è quella di offrire un punto di incontro, confronto e supporto dedicato ai professionisti della cultura e della creatività e ai giovani che desiderano avviare percorsi professionalizzanti in questi settori.
Diventano con la loro attività collettori di giovani energie, che per diverse ragioni rimangono inespresse o non adeguatamente potenziate, e allo stesso tempo generatori di nuovo lavoro e di nuove idee che rispondono in maniera innovativa a vecchi bisogni. Tutto questo senza perdere l’orizzonte collettivo dal momento che gli organizzatori presentano il loro progetto come «luogo dove le idee hanno un peso sociale e pubblico. Nasce dalla convinzione che la creatività, la cultura, le idee del territorio contribuiscono allo sviluppo della società».
Un processo, quello appena descritto, in linea con i ritmi del nostro tempo e per questo motivo in movimento e in trasformazione che da spazio fisico sta diventando sempre più virtuale in grado di creare collegamento generativo all’interno della comunità di creativi o semplicemente di coloro che attraverso la cultura desiderano mangiare e legittimamente farne il proprio progetto di vita lavorativa. In quest’ottica il web diventa il contesto privilegiato, dove creare questi contatti e garantire a tutti l’accesso libero alle disponibilità del territorio. A ben vedere la filosofia che sottende questa attività è la stessa che ha ispirato nel 2010 la nascita del circuito Sardex, che in un diverso contesto territoriale, ha mobilitato centinaia di persone attorno a valori come l’unione, la valorizzazione, la promozione e il sostegno reciproco, portando a pochi anni dalla sua costituzione a cambiamenti sociali di portata e sostenibili nel tempo.
Mi sembra di aver tracciato con questo intervento un possibile percorso di sviluppo comune fra istituzione e tessuto sociale, letto attraverso la lente di valori quali quelli della fiducia reciproca, della condivisione, delle azioni diffuse e del punto di incontro di queste: i beni comuni. Si tratta di un punto di vista presente, ma al contempo di visione futura alla portata di tutti. Perché se è vero che la crisi ha minato le fondamenta di certe convinzioni politiche, sociali ed economiche, è altrettanto desiderabile che, passata la bufera, questa possa diventare un’utile occasione di rilancio di un intero sistema di sviluppo dei luoghi, delle persone e delle relazioni che possono costituirsi fra di loro.
Fonte: che-fare.com
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