di Fabio Tarzia
1. L’islam in corsia di sorpasso
Le ultime statistiche, sebbene non perfettamente coincidenti, sembrano non lasciare scampo alla religione cristiana e cattolica soprattutto. Secondo l’incrocio delle varie fonti i cristiani sarebbero circa due miliardi e cento milioni e di questi solo un miliardo e cento potrebbero essere annoverati tra i cattolici. I restanti sarebbero ulteriormente distinguibili in: cinquecento milioni circa di protestanti, duecentoventicinque milioni di ortodossi, settantatré milioni di anglicani, settantadue milioni di cristiani orientali. Sull’altro versante, i musulmani ammonterebbero a circa un miliardo e seicento milioni, di cui un milardo e trecentocinquanta milioni sunniti.
Tali dati parlano da soli in quanto la salute di una religione monoteistica, e allo stesso tempo universalistica, si basa appunto sulla sua capacità di propagazione: senza espansione non c’è identità1.
Tali dati parlano da soli in quanto la salute di una religione monoteistica, e allo stesso tempo universalistica, si basa appunto sulla sua capacità di propagazione: senza espansione non c’è identità1.
Tutte le proiezioni demografiche danno un sorpasso chiaro e definitivo da parte dell’islam ai danni dell’intero mondo cristiano nei prossimi cinquant’anni. Le spiegazioni sociologiche di questo trend, e in particolare dell’attuale rapporto di forze islam/cattolicesimo, sono ricollegate alla superiore capacità di sviluppo demografico musulmana rispetto a quella della civiltà occidentale cristianizzata. Il quadro si acuisce se si tiene conto della perdita di terreno del cristianesimo nei continenti tradizionalmente cattolicizzati (America Latina, soprattutto, e Africa), dove cioè il controllo delle nascite è meno forte. Come al solito, però, queste spiegazioni non rendono giustizia a una realtà ben più complessa e mostrano tutte le carenze interpretative della sociologia e della sociologia della religione, discipline ormai piegate al puro dato quantitativo, slegato dai fattori storici, culturali e ideologici.
Quello che andrebbe meglio considerato è che le cifre sul cattolicesimo sono in se stesse sfumate e incerte perché il processo di laicizzazione ha raggiunto in Occidente livelli tali che sarebbe difficile oggi dare una definizione sicura di chi sia il vero cattolico: chi è battezzato e dunque accede automaticamente alla chiesa cattolica? Chi frequenta la messa? Chi non la frequenta ma ha fede nel Dio trinitario? Chi non crede in tale Dio ma si rifà a un insieme di valori cristiani? I dati sull’islam sono al contrario molto più univoci: un islamico è colui che fa determinate cose, che rispetta determinate regole. Chi crede nel Dio profetizzato da Maometto ma non rispetta tali regole semplicemente non è un vero islamico.
Bisognerebbe dunque ben ponderare non tanto, o non solo, l’incremento demografico dei popoli islamici, quanto la capacità detenuta da questa religione di “toccare” le nuove generazioni, di islamizzarle, secondo una tendenza che, questa sì, si rivela immensamente superiore a quella cristiana. Da dove prende l’islam questa forza? In cosa consiste la sua naturale potenza “espansionistica”?
2. Una religione semplice e rituale
Carlo Tullio Altan2 ha sottolineato il carattere sostanzialmente rituale dell’islam. Mentre il Corano appare come un lungo elenco di precetti, i Vangeli, basati sulla narrazione, svelano subito il loro carattere interpretativo. Ripensiamo a quando, alla fine di ogni predicazione, i discepoli immancabilmente si avvicinano al Cristo, chiedendogli lumi circa il senso delle parabole che hanno appena ascoltato. Lo slittamento metaforico è costitutivo nella predicazione del Cristo. Maometto no: il Profeta non sollecita l’interpretazione, piuttosto asserisce, regolamenta, organizza. Forse anche per questo grossi scismi o riforme sono assenti nella tradizione islamica, se si fa eccezione per il ramo sciita, peraltro assai minoritario3.
Il vero musulmano è tenuto a seguire cinque pilastri essenziali: testimoniare l’unicità e verità di Allah e del suo Profeta; pregare cinque volte al giorno rivolto alla Mecca; compiere il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita; digiunare nel Ramadan; effettuare l’elemosina rituale. Con questi presupposti, già nel suo nascere, la potenza accentratrice e propagatrice del nuovo credo si impose quasi miracolosamente, come spiega Toufic Fahd:
"C’era, dunque, qualcos’altro in questa nuova religione che rispondeva alle speranze degli uomini e corrispondeva allo spirito dell’epoca. Finalmente una religione che offre le stesse garanzie di salvezza eterne, con molte meno sottigliezze teologiche, cristologiche, e mariologiche di quelle che dividevano i cristiani d’Oriente, con infinitamente meno precetti di quello che non comportasse il giudaismo rabbinico […]4"
Questo elemento era valido nel VI secolo, ma paradossalmente oggi appare ancora più valido. Nella trasformazione del mondo l’islam si scopre assai versatile e adattabile. Il mondo attuale, soprattutto occidentale, ma non solo, ha subìto (negli ultimi trent’anni) un profondo processo di ricostruzione basato sui linguaggi del consumo. Tale processo ha delineato sempre più un tipo di conoscenza orizzontale, slegata dai media tipografici e collegata a quelli visuali della televisione e virtuali della rete. L’islam, è vero, è basato sul testo scritto, cioè sul Corano, ma quel testo è costruito in maniera apodittica e assiomatica: non si apre ad alcuno sviluppo narrativo e dunque metaforico e polisemico. Fuori da esso, cioè dal suo nucleo ideale preservato, il mondo musulmano non rifiuta, e oggi meno che mai, la narrazione e la rappresentazione per immagini. La sua tradizionale impostazione iconoclastica riguarda infatti soprattutto il suo nocciolo teologico5.
Può sembrare surreale, ma una religione precettistica semplice ed essenziale è l’ideale per una società dei consumi. La rapidità del consumo non è ostacolata né dall’impegno a rispettare mille norme comportamentali né dall’impegno analitico rispetto alla coscienza, elementi tipici rispettivamente dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il fedele islamico può tranquillamente aderire alle “norme” del consumo, all’esplodere delle sollecitazioni visuali, emotive e irrazionali del mondo attuale, proprio perché il sistema normativo della sua identità è immutabile e imperturbabile. Il riferimento costante (giornaliero e annuale) a tale sistema ri-purifica le fondamenta profonde del suo credo e della sua essenza identitaria, rendendola impermeabile a qualsiasi contaminazione. A questo punto egli può avviarsi totalmente verso un tipo di consumo, che naturalmente sia controllato e abolisca preventivamente gli eccessi: alcol, cibo “immondo”, pornografia etc. Il mondo globalizzato è immensamente complesso, ma i linguaggi del consumo lo semplificano: potervi accedere da una posizione di forza (mantenendo salda l’identità ideale essenziale) non è cosa da poco.
Il fatto è in certo senso paragonabile a taluni tratti della diaspora ebraica. Prima dello stato di Israele, la lingua ebraica era purissima in quanto adoperata solo nelle cerimonie rituali; allo stesso tempo proprio perché il riferimento era inattaccabile l’ebreo era libero di aprirsi a tutte le lingue, parlarne il più possibile.
3. Islam e consumo
Tradizionalmente l’islam nasce contro quello che oggi definiremmo “grande capitale”, che nel VI e VII secolo era rappresentato da una sorta di potere finanziario di stampo aristocratico. L’islam emerge come religione dei mercanti, che si alleano con le masse più deboli. Il pilastro dell’elemosina rituale è per l’appunto una sorta di primitivo meccanismo di welfare, che ridistribuisce la ricchezza eccedente. In cambio dell’unità della Umma, Maometto offre giustizia sociale.
L’odierno assetto economico di alcuni paesi arabi, quelli del golfo per capirci (Arabia Saudita, Emirati etc.) è un incredibile paradosso, perché è difficile perseguire i princìpi della ridistribuzione quando il divario sociale e l’ampiezza delle ricchezze è così estrema. La figura di Osama Bin Laden, da questo punto di vista, è emblematica. Egli proviene da una ricchissima famiglia saudita, e appunto da essa si distacca per tornare all’essenza originaria. Qualche anno fa Alessandro Amadori paragonò la figura di Bin Laden a quella di Francesco d’Assisi6. Naturalmente si trattava in buona parte di una provocazione. C’è però una cosa in comune tra i due: il ritorno all’assetto primitivo della fede, che non accetta né rese né compromessi rispetto al mondo economico.
La cosa consente una considerazione. E cioè che è qui il nodo problematico di tutte le religioni, e soprattutto di quelle monoteistiche. Neanche il più disumano dei capitalisti, quello dotato di meno coscienza, può accumulare e reinvestire denaro senza che questa operazione detenga un qualche senso. E ciò perché esso, come tutti gli uomini, è mortale, e dunque impotente. La ricerca materiale della felicità, della pienezza, della completezza non può che essere un surrogato della perfezione, quindi è necessario attribuirgli un significato sublimante.
Nel cattolicesimo il dissidio è risolto alla radice: sebbene le vicende storiche abbiano preso spesso direzioni all’inizio inimmaginabili, non c’è nella Chiesa del Cristo un vero tentativo ideologico di mediare tra i due poli. Nell’immaginario cattolico il ricco continua a trovare sbarrata la porta del regno dei cieli. Del resto il cristianesimo spezza e inverte tutta la tradizione antica pagana secondo la quale il facoltoso è il prediletto dagli dèi mentre il povero, il lebbroso, l’emarginato porta il segno dell’abbandono da parte degli immortali.
C’è però tutto un ramo del mondo cristiano che si sviluppa in altra direzione. Con la spinta verso la predestinazione propugnata da Lutero le cose cambiano, consentendo a Calvino di rovesciare a sua volta l’antica tradizione cristiana, attribuendo al successo e alla ricchezza il valore segnico dell’ “attenzione” di Dio. È la grande alleanza cinquecentesca tra religione e denaro che consentirà al capitalismo di esplodere e svilupparsi. Tale alleanza l’islam non l’ha mai veramente tentata. Nella sua idea di convergenza tra classi ricche e masse povere, in fondo Maometto riforma l’assetto sociale, ridistribuisce appunto le ricchezze, ma non tenta una rivoluzione, un rovesciamento come quello propugnato dal Cristo. Non ha bisogno insomma né di legittimare i ricchi né di ripudiarli.
Negli ultimi trent’anni, però, il profondo mutamento avvenuto nel mondo ha cambiato le cose, modificando non tanto l’assetto ideologico dell’islam, quanto il suo realizzarsi sul territorio. Attraverso le dinamiche della globalizzazione l’islam è venuto a contatto con i processi neocapitalistici centrati sulla massificazione estrema e soprattutto sul consumo. Le masse arabe nei loro paesi, ma anche dentro l’Europa secolarizzata, si sono trovate davanti per la prima volta a diffuse occasioni di benessere. A questo punto il nucleo dei cinque pilastri si è naturalmente rivitalizzato riposizionato e rifunzionalizzato, e allo stesso tempo ha riposizionato l’islam rispetto alle altre religioni monoteistiche. Il “patto” calvinista tra religione e capitale7, sbilanciato dal motore consumistico, ha da tempo cominciato a mostrare delle crepe, evidenziando una specie di scissione tra i due poli in favore di un’idea di identità esclusivamente economica nella quale l’elemento religioso perde progressivamente valore. Sull’altro versante il cattolicesimo risponde, nell’attuale impostazione di papa Bergoglio, con un ritorno allo spirito primitivo e con una sottovalutazione dell’elemento economico: una chiesa povera per i poveri. Su un altro versante ancora, il mondo islamico estremista e jihadista rifiuta l’accumulazione di denaro e soprattutto il consumo, e opta per un mondo esclusivamente basato sulla precettistica capillare della Sharia.
Ebbene, a differenza di tutte queste impostazioni l’islam nel suo complesso risulta invece assolutamente predisposto a sostenere una sorta di alleanza, o forse un patto di non belligeranza, tra mondo economico e mondo dello spirito. Esso appare oggi attrezzato più di ogni altra religione a questo fine. Anzi, l’integralismo è probabilmente nei recessi più profondi della mente dei suoi ideatori la risposta a tale pericolosa tendenza, il tentativo di non consentire alla religione di Maometto di occidentalizzarsi. Gli immigrati di seconda e terza generazione hanno fatto esperienza dei “piaceri” del capitalismo e hanno percepito che proprio la struttura forte ed essenziale dei cinque pilastri rituali consente di poter accedere al consumo rimanendo puri. Il punto è che l’importanza del rituale identitario elimina il problema di compiere pericolosi viaggi di discesa nella coscienza e dunque di porsi scabrose domande sulla ricchezza e sulla povertà, su quale sia la vera felicità, quella su questa terra o quella in paradiso. Una volta adempiuto il rituale quotidiano e annuale, una volta affidatosi totalmente nelle mani e nella mente del suo Dio che, lo ricordiamo, regge il mondo in ogni particolare e lo crea ogni giorno istante per istante, il fedele musulmano è in pace con se stesso, e dunque può anche “arrendersi” ai piaceri (non agli eccessi naturalmente) della vita.
Ne è una prova l’attuale polemica sul burkini. Dal momento in cui è stato inventato, tale bizzarro abbigliamento ha venduto milioni di pezzi nel mondo, ed è in assoluto uno degli oggetti di consumo più desiderati del mondo musulmano. Se si pensa che una delle prime iniziative dei talebani entrati a Kabul nel 1996 fu quella di trasformare il campo di calcio in piazza delle esecuzioni capitali, cioè il divertimento in terrore, le cose appariranno più chiare. Tra integralismo islamico e islam diffuso la differenza fondamentale la fa proprio la volontà di consumo, cioè l’apertura alla vita. Il burkini è letto da alcune esperienze femministe come un oggetto di discriminazione, ma non si può misurare tutto con lo stesso metro. Marx stesso pensava che il comunismo non fosse una soluzione matura per società ancora legate a strutture feudali e che dunque in quei casi bisognasse favorire lo sviluppo capitalistico per condurlo alle sue contraddizioni finali e aprire le porte a una società nuova. Così il consumo islamico è oggi ancora alla ricerca delle sue forme, ma cosa accadrà tra cinquant’anni? Del resto: perché non ricordare i ridicoli costumi da bagno europei di primo Novecento che praticamente coprivano tutto il corpo soprattutto femminile?
Ne deriva una considerazione semplice ma strategica, che potrà essere verificata solo nel corso del secolo, soprattutto in Europa. Se la civiltà cristiana mondanizzata e laicizzata, non riuscirà a garantire la parità di consumo ai nuovi “occidentali” islamici, essi scivoleranno inevitabilmente sull’altro pendio, quello irrazionale e spiritualistico. L’integrazione basata solo su questo terreno, me ne rendo conto, è pericolosa. L’Europa dovrebbe garantire anche altre coordinate, ideali, laiche, democratiche, e dovrebbe allo stesso tempo, lavorare per una società basata anche su altri valori, in grado di riequilibrare la libertà senza le catene di una civiltà del consumo. Non so se al momento sia in grado di farlo compiutamente. So però che il terreno del consumo, quello che ha in gran parte determinato il crollo del muro di Berlino, è un terreno sul quale l’islam si muoverebbe assai agevolmente e sul quale due mondi per molti versi così diversi potrebbero incontrarsi.
Note
Note
1 Il monoteismo ebraico, attestato stabilmente sui 14 milioni di fedeli, è sostanzialmente conservativo, il suo scopo sociale infatti non è quello di espandersi ma di sopravvivere.
2 C. T. Altan, Le grandi religioni a confronto. L’età della globalizzazione, Feltrinelli, Milano, 2002.
3 Gli sciiti sarebbero circa duecentotrenta milioni. Come si vede, dunque, l’universo islamico è sostanzialmente sunnita. L’unico vero scisma della storia musulmana ammonta a un settimo del totale, mentre l’insieme scismatico cristiano nella sua complessità raggiunge quasi la metà del totale.
4 T. Fahd, in H.-Ch. Puech, Histoire des Religions, Paris 1970-1976, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 59.
5 M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006 e R. Debray, Vie et mort de l’image, Gallimard, Paris, 1992, trad. it. Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano, 1998.
6 A. Amadori, Bin Laden. Chi è, cosa vuole, come comunica il profeta del terrore, Scheiwiller, Milano, 2002.
7 F. Tarzia e E. Ilardi, Spazi (s)confinati. Puritanesimo e Frontiera nell’immaginario americano, manifestolibri, Roma, 2015.
Fonte: Il Ponte Rivista
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