di Giuseppe Onufrio
La ratifica di Stati uniti e Cina dell’Accordo di Parigi sul clima globale, alla vigilia del G20, è un segnale forte per tutto il mondo e in particolare per i Paesi più industrializzati. Perché entri in vigore legale l’Accordo firmato lo scorso dicembre a Parigi deve essere ratificato da Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Finora lo avevano ratificato una ventina di Paesi che rappresentano però l’1% circa delle emissioni globali. Cina e Usa – i primi due emettitori di gas serra del pianeta – «pesano» il 38% delle emissioni globali.
La ratifica dell’Ue – che rappresenta circa il 12% delle emissioni – ha un percorso più complesso – va ratificata anche dagli Stati membri – e ci aspettiamo l’esempio sino-americano aiuti l’Ue a sveltire il processo.
La ratifica dell’Ue – che rappresenta circa il 12% delle emissioni – ha un percorso più complesso – va ratificata anche dagli Stati membri – e ci aspettiamo l’esempio sino-americano aiuti l’Ue a sveltire il processo.
Se il segnale politico è forte e dunque un messaggio positivo per la salvaguardia del clima globale, va visto come un punto di inizio – necessario per dare valore legalmente vincolante ai contenuti dell’Accordo – ma non sufficiente di per sé. Infatti, com’è noto, gli «impegni volontari» presentati a Parigi non consentono in alcun modo di raggiungere gli obiettivi fissati – mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C e meglio entro il 1,5°C.
L’accelerazione impressa da Cina e Usa, se da una parte può velocizzare l’entrata in vigore legale dell’accordo implica anche una seria revisione degli obiettivi di riduzione, che vanno rafforzati e non poco per tenere il pianeta sotto la soglia dei 2°C per non parlare dell’obiettivo più rigoroso del 1,5°C.
Se le emissioni globali di CO2 hanno smesso di crescere negli ultimi due anni – grazie soprattutto alla riduzione dei consumi di carbone registrata in Cina – è necessario che presto inizino a diminuire e rapidamente. Gli investimenti in fonti rinnovabili sono per fortuna cresciuti, ma non sono ancora sufficienti, secondo le stime di Greenpeace, dovrebbero quadruplicare nel prossimo decennio rispetto a oggi. Inoltre molti dei Paesi del G20 continuano a pianificare la costruzione di nuove centrali a carbone che invece vanno progressivamente chiuse.
La «grande trasformazione» energetica che è necessaria a salvare il clima globale è oggi più praticabile di quanto si creda o di quanto lo fosse anche solo fino a pochi anni fa. In questi giorni una gara d’appalto in Cile per la costruzione di una centrale da 120 MW è stata vinta con un prezzo dell’elettricità pari alla metà del costo dell’elettricità da carbone. Una cosa impensabile solo 5 anni fa e che oggi si va ripetendo in diversi Paesi.
Nel rapporto Brown to Green di Climate Transparency – preparato per valutare il comportamento dei Paesi del G20 sul clima globale – se da una parte si riconosce lo sforzo sulle rinnovabili che vede tra i Paesi con le quote maggiori Brasile, Canada, India, Sudafrica, l’Eu e l’Italia – dall’altro valuta tra i peggiori Paesi per le politiche del clima a scala nazionale proprio Italia, assieme a Giappone e Turchia, mentre dà atto alla Francia di aver condotto in porto l’Accordo di Parigi e alla Germania di aver posto il tema della decarbonizzazione nell’agenda del G7.
La serietà dell’impegno cinese è corroborata da alcuni fatti precisi avvenuti nel 2015: la produzione da eolico (31GW) e solare (15GW) è cresciuta più della domanda di elettricità, il consumo di carbone è diminuito per il terzo anno consecutivo. Inoltre, i nuovi obiettivi rinnovabili per la Cina equivalgono ad aggiungere in 5 anni elettricità verde pari all’intera produzione della Gran Bretagna.
La pochezza delle politiche in Italia la si vede nella flessione nel settore delle rinnovabili, come anche nella totale mancanza di interlocuzione del governo con il settore e le misure per bloccare l’autoconsumo da rinnovabili.
Come evidenziato dal rapporto di Greenpeace Rinnovabili nel mirino, siamo passati dai 150 mila impianti solari entrati in esercizio nel 2012 ai 722 del 2015; il settore eolico – che in uno scenario di crescita moderata potrebbe portare a oltre 60mila occupati – nel 2014 ne ha invece persi 4000. Allo stesso tempo, secondo il Fmi, i sussidi alle fossili in Italia sono in aumento.
All’indomani del referendum sulle trivelle, il presidente del consiglio ha tenuto una conferenza stampa con Eni ed Enel per riproporre cose già decise o già nei piani industriali, oltre che per annunciare gli investimenti solari di Eni. Alcune centinaia di MW solari sono una cosa in sé positiva ma che rimane del tutto marginale rispetto agli investimenti dell’azienda e che soprattutto non ne modifica la logica industriale.
Un messaggio sostanzialmente di greenwashing, peraltro fortemente sostenuto dalla campagna pubblicitaria dell’azienda petrolifera in queste settimane.
In piena campagna referendaria, il presidente del consiglio ribadì sui social nella diretta #matteorisponde l’obiettivo di portare al 50% la produzione da rinnovabili di elettricità entro la legislatura. È così scandaloso chiedere se e come questo obiettivo concreto proclamato da Renzi – obiettivo in linea con la grande trasformazione necessaria per dar seguito agli Accordi di Parigi – verrà messo in pratica? Attendiamo da tempo risposta.
Fonte: il manifesto
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