di Ivan Cavicchi
«Hanno rotto il patto» e cittadinanza attiva con questo slogan si mobilita contro i tickets e lancia una petizione popolare per la loro abolizione. L’allusione è al tanto chiacchierato Patto per la salute (14 luglio 2014) al quale non abbiamo mai creduto definendolo su questo giornale un «pacco« più che un «patto» e che soprattutto ai cittadini ha fatto tante promesse senza mantenerne nessuna. Anzi ha loro regalato un superticket sulla ricetta di 10 euro. La realtà nuda e cruda è che in Italia si campa meno di quello che si potrebbe campare e guarda il caso questo dato coincide con quello che registra la crescita di coloro che a causa dei ticket rinunciano alle cure (nel 2015 l’11% dei cittadini) La grande mobilitazione di cittadinanza attiva ha coinvolto 110 città del nostro paese e avrebbe meritato una complicità politica più grande soprattutto da parte dei sindacati confederali, dei pensionati e dei consumatori.
Acquista quindi particolare significato l’adesione alla mobilitazione del M5S. Nel frattempo Active Citizenship Network, la rete europea di Cittadinanza attiva ha incentrato la celebrazione del decimo anniversario dell’European Patients’ Rights Day su tre punti: la salute come bene comune; lotta agli sprechi in tutti i sistemi sanitari; i cittadini, le istituzioni, le professioni, i servizi cioè i multistakeholder comeproblem solvers.
Acquista quindi particolare significato l’adesione alla mobilitazione del M5S. Nel frattempo Active Citizenship Network, la rete europea di Cittadinanza attiva ha incentrato la celebrazione del decimo anniversario dell’European Patients’ Rights Day su tre punti: la salute come bene comune; lotta agli sprechi in tutti i sistemi sanitari; i cittadini, le istituzioni, le professioni, i servizi cioè i multistakeholder comeproblem solvers.
Ecco il paradosso tragico: da una parte sistemi sanitari che sprecano, spendono male, non sono capaci di innovarsi, e dall’altra la risposta della politica anche di quella nostrana: tagliare sulle tutele pubbliche, definanziarle e mettere un ticket per compensare le diseconomie dei sistemi sanitari facendolo pagare ai cittadini. Ma cosa è un ticket? Cosa è uno spreco? Il primo è una tassa per definizione iniqua sui bisogni e sulle necessità cioè sulla domanda di cura, il secondo è un costo ingiustificato dell’offerta di cura che tradisce tanto i bisogni che le necessità. Ma oltre ai ticket ci sono le liste di attesa, diventate di fatto sistemi subdoli per selezionare la domanda in barba a quanto dice la nostra Costituzione. L’universalismo selettivo già oggi passa per le liste di attesa. Chi ha i soldi non aspetta in lista di attesa ma va nel privato o accede alla libera professione intra moenia. Chi resta nella lista sono i più deboli quelli che devono avere fortuna per cavarsela. Un cittadino su quattro non riesce ad avere accesso ai servizi pubblici.
La prospettiva è fosca. Anche l’ultimo Def ha confermato l’intenzione del governo di procedere con il definanziamento progressivo della sanità pubblica. Il che vuol dire che nel giro di tre anni il fabbisogno finanziario della sanità dovrà ridursi di imperio di un punto e mezzo in rapporto al Pil. Dopo i riordini regionali sulla riduzione del numero delle Usl e le misure che hanno eliminato migliaia e migliaia di posti letto, e la grande operazione di decapitalizzazione del lavoro, è la volta del taglio dei consumi. Rispetto al definanziamento del governo i ticket non bastano, non bastano le liste di attesa , il blocco del turn over il taglio dei servizi. Il cosiddetto decreto appropriatezza ha riducendo diagnostiche e terapie privatizza anche in questo caso un pezzetto di tutele. E il peggio il grosso deve ancora venire e si chiama «medicina amministrata».
Approfondimento
No alla tassa che «finanzia» il privato
di Riccardo Chiari
«Aboliamolo». Nella Giornata europea dei diritti del malato, Cittadinanzattiva ha puntato i riflettori su uno dei più impopolari lasciti dell’ultimo governo Berlusconi: il «superticket», che dalla legge finanziaria del 2011 ha disposto il pagamento di 10 euro su ogni ricetta per prestazioni di diagnostica e specialistica. Una misura mantenuta dagli altri governi (Monti, Letta, Renzi) che si sono succeduti in questi anni, di fronte alla quale l’associazione ha avviato una raccolta di firme – anche online con una petizione su Change.org – partita ieri anche grazie alle iniziative che sono state organizzate in 110 città della penisola
«Il superticket – si sottolinea nella petizione – è una tassa iniqua sulla salute che ha alimentato le disuguaglianze esistenti, ha aumentato i costi delle prestazioni sanitarie, gravando ancor più sulle tasche delle persone che sempre più spesso rinunciano a curarsi, pur avendone bisogno. E non ha rimpinguato le casse del Servizio sanitario nazionale, anzi paradossalmente le ha impoverite, spingendo i cittadini, snervati dai costi maggiorati e dalle lunghissime liste di attesa, ad andare nel privato, che spesso diventa persino più conveniente per alcune prestazioni, come ad esempio gli esami del sangue».
A riprova, Cittadinanzattiva sottolinea che nel report della Corte dei Conti del marzo scorso si segnala come nel 2015 gli italiani abbiano pagato 2 miliardi e 857 milioni di euro di superticket, oltre naturalmente al costo dei ticket per le singole prestazioni. La quota pro-capite di compartecipazione del superticket è stata in media di 47 euro, anche se nell’applicazione dell’impopolare provvedimento le regioni hanno preso all’epoca posizioni diverse.
Le piccole (e ricche) Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige hanno deciso di non farlo pagare. All’opposto Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria e Sicilia hanno fatto pagare i 10 euro a tutti. Ancora: Emilia Romagna, Umbria, Toscana, Veneto e Marche hanno modulato il superticket in base al reddito. Infine Lombardia, Piemonte, Basilicata e Campania hanno modulato il superticket sulla base della complessità della prestazione richiesta dal paziente di turno.
Alcune categorie sono state esentate dal pagamento. Si va dai bambini e dagli anziani con redditi familiari sotto i 36mila euro annui; ai disoccupati, pensionati sociali e pensionati al minimo e i loro familiari a carico, con basso reddito (8.260 euro, aumentato in base al numero dei familiari). Esentati anche i malati cronici, quelli affetti da malattie rare attestate dall’Asl, e gli invalidi civili, di guerra, per lavoro e per servizio.
Comunque sia, l’associazione va all’attacco: «Quella che doveva essere una manovra transitoria e straordinaria è diventata invece la normalità. Quindi chiediamo al presidente del consiglio, al governo, ai ministeri di competenza, al parlamento e alla conferenza Stato-Regioni di abolire il superticket di 10 euro sulla ricetta, e di introdurre misure che ripristinino l’equità. Perché è evidente che ai cittadini si chiede sempre di più di sopperire di tasca propria al costante taglio di risorse destinate al Servizio sanitario nazionale, come conferma anche il Documento di economia e finanza 2016. Il superticket – chiude Cittadinanzattiva – è una tassa sulla salute, che danneggia non solo i cittadini ma anche il sistema pubblico, spingendo le persone a rivolgersi al privato, o a rinunciare a curarsi».
Sul primo punto denunciato, la conferma arriva dal Tribunale dei diritti del malato, pronto a segnalare: «La spesa sostenuta privatamente dai cittadini per prestazioni sanitarie in Italia è al di sopra della media Ocse: 3,2% in Italia, a fronte di una media del 2,8% negli altri paesi industrializzati». Il motivo è semplice: fra ticket, superticket e liste d’attesa, alla fine il privato diventa più conveniente – e tempestivo – del pubblico.
Quanto alla rinuncia alle cure, la stessa Cittadinanzattiva ricorda che un italiano su quattro non riesce ad accedere a servizi e prestazioni sanitarie a causa di liste di attesa e ticket, e in parallelo il Censis ha registrato che il 41% delle famiglie ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria nel corso del 2015.
Infine lo stesso ministero della salute ha certificato che, nel 2014, solo solo 8 Regioni su 21 hanno garantito il rispetto dei Lea, i livelli essenziali di assistenza.
Fonte: il manifesto
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