La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 maggio 2016

Se il suolo rimane una merce

di Paolo Pileri 
Guardare la realtà attraverso la risorsa ambientale più necessaria, vitale e scarsa che abbiamo, il suolo, per scoprire come stanno le cose. Questa la sfida nell’era dove, nonostante il-tutto-smart, ci ritroviamo più lontani dall’intimità con la terra e meno capaci di prendercene cura. Non è un invito a tornare contadini, ma solo più responsabili. Un invito ad aprire gli occhi. Slogan come “il cemento è il volano dell’economia” sono rimasti veri solo per quell’economia che ci ha strappato dalla terra e gettato nella crisi, e che ora pretende spavaldamente di suggerirci ricette. Non di arroganza abbiamo bisogno, ma di umiltà (da humus) per capire cosa stiamo perdendo e di onestà per mettere in dubbio l’economia del cemento, la sua ossessione per il profitto e la sua nuova suadente (e deresponsabilizzante) formula magica: la tecnologia ci salverà. La tecnologia può aiutare, ma non rinnegando quel codice che ha inventato la parola uomo raccogliendola da terra, da humus appunto. 
Questi legami non sono da rottamare, ma sono la base indelebile per una coscienza responsabile e leale nel rapporto con la natura. Una natura che non può essere solo rapinata in nome di un’idea di mercato che mette i prezzi alle risorse come alle cose, basandosi solo su domanda, offerta ed esigenze di bilancio. Natura, suolo, aria, acqua hanno il diritto di essere conosciuti e rispettati per le risorse che sono e per la loro capacità di generare vita e vitalità per tutti. Da questa visione siamo ancora lontani. Le nostre regole e i nostri sistemi amministrativi in realtà ancora facilitano e legittimano lo sfruttamento della Terra con modi sempre più sofisticati e con tecniche di persuasione sempre più furbe. I nostri progetti di legge sono farciti di se, di ma e di deroghe. Sono affidati a grovigli di soggetti incontrollabili. Fissano scadenze troppo lontane. Si inventano definizioni legali snaturando concetti naturali con il solo scopo di costruirsi un alibi per continuare a depredare. Una politica che rifiuta ciò che la natura è veramente, raramente giova alla società e, soprattutto, è una politica che costruisce povertà e iniquità. Se il suolo rimane una merce, inevitabilmente rimarrà un bene esclusivo e rivale, ovvero solo per alcuni e sempre meno numerosi. 
A noi decidere di iniziare a cambiare rotta, e imparare a pensare diversamente. È sia un dovere sia un diritto capire cosa abbiamo sotto i nostri piedi, scoprendolo diverso da quel che ci vogliono far credere. Ricongiungerci al suolo non è velleità, ma un progetto culturale che ridà dignità e radice al nome che portiamo da sempre: umanità. Certo, per fare questo bisognerà darsi un po’ di coraggio e saltare fuori dalla nostra comfort zone. Re-imparare a indignarci e non aver vergogna a farlo. Indignarci non solo perché cementificano il campo davanti a casa, ma perché cementificano. Far capire che nessuno può persuaderci della necessità di altro asfalto, dopo tutto quello che ci è colato addosso. Dire con fierezza che c’è bisogno solo di recuperare. Non aver paura a spiegare che piani urbanistici e norme che riconoscono natura ed eco-servizi solo seguendo definizioni legali ingiuste e incomplete sono dannosi. Una legge ingiusta, non è una legge (Jacques Maritain, 1942). È ora di riscattarci con orgoglio dagli impianti di pensiero che sono timidi davanti alle sfide del cibo, del cambiamento climatico, dell’equità, del lavoro dignitoso, del rispetto per il suolo, che invece richiedono coraggiose rivoluzioni culturali (Papa Francesco, Laudato si’, 2015). Non siamo qui per il gusto del partito preso, né per chiedere cose impossibili, ma solo per ampliare gli spazi per rivoluzioni possibili.

Fonte: Altreconomia.it 

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