di Maurizio Disoteo
Il 3 maggio si è svolto a Milano, nella sala della Casa della Cultura, il convegno di formazioneLa scuola della valutazione e del merito: un modello sbagliato, indetto dal Cestes (Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali) e dall’USB scuola-pubblico impiego, coordinato da Pietro Cusimano dell’USB. Un’iniziativa molto utile, che finalmente vede un sindacato della scuola allargare il dibattito ai grandi temi della formazione e della pedagogia e non solo a quelli, pure importanti, ma ormai troppo ristretti, della pura azione sindacale. Infatti, agire nella scuola oggi richiede di saper saldare la tutela dei diritti dei lavoratori, della loro figura professionale e del loro salario con i temi più generali del modello di scuola e di educazione che si vorrebbe.
Una scuola il cui personale è fortemente gerarchizzato e stratificato come vogliono le ultime disposizioni e segnatamente la legge 107 non può che proporre agli allievi dei modelli egualmente competitivi, gerarchici e infine non educativi.
Una scuola il cui personale è fortemente gerarchizzato e stratificato come vogliono le ultime disposizioni e segnatamente la legge 107 non può che proporre agli allievi dei modelli egualmente competitivi, gerarchici e infine non educativi.
Inoltre, le iniziative di formazione promosse dall’amministrazione sono a senso unico e sembrano motivate più dalla volontà di mettere in riga il personale su autonomia, competenze, valutazione, che non quella di offrire una reale formazione in servizio.
Un tema centrale della mattinata, trattato nell’intervento di Lucia Donat Cattin della USB scuola, è stato quello dell’ossessione della valutazione che è stata imposta, nell’arco dell’ultima ventina d’anni, nella scuola italiana. Una valutazione che si articola a più livelli: la valutazione degli alunni in classe, l’autovalutazione d’istituto (il RAV, obbligatorio, per non passare in una lista “rossa” di scuole inadempienti), e infine la valutazione dei docenti. Tutto ciò confluisce poi nella valutazione di sistema, in cui hanno un ruolo importante i test Invalsi, che sempre più appaiono smascherati nella loro vera intenzione di voler valutare scuole e insegnanti, a prescindere dalle differenze di base e dalle condizioni di partenza degli alunni che esistono tra le varie scuole. L’idea antipedagogica che risiede nei test Invalsi è evidentemente quella che possa esistere un alunno “standard” che risponde efficacemente all’orrenda e interminabile sequenza dello stupidario di tali test.
Tutto questo contrasta con ogni principio di educazione individualizzata e di attenzione al contesto di provenienza degli alunni che viene poi sbandierato nei documenti ministeriali, soprattutto quando si chiede agli insegnanti di compilare schede e griglie di piani personalizzati d’insegnamento anche per ragazzi per i quali basterebbe adottare un po’ di sana sensibilità pedagogica, come per molti BES. Resta comunque evidente che non esistono bambini o ragazzi “standard” ma esistono tanti diversi ragazzi, con differenti storie di vita e di apprendimento, capacità, interessi e stili cognitivi che non possono essere considerati attraverso i test Invalsi.
Un aspetto che solo in parte si è potuto approfondire nel convegno è che i test Invalsi ormai sono entrati a pieno titolo nella valutazione degli alunni e non sono un semplice accertamento statistico. Se così fosse, essi sarebbero anonimi e probabilmente limitati a qualche scuola campione. Al contrario, essi sono proposti, per esempio, come prova d’esame per la licenza media. Questo fatto influenza, con un effetto di retroazione, tutta la didattica poiché molti insegnanti, per preparare gli alunni alla prova d’esame Invalsi, propongono dei test improntati allo stesso stile durante tutto l’anno scolastico e, quasi ovviamente, la didattica si modella per preparare a quelle modalità di valutazione. Il tutto con la pronta collaborazione delle case editrici che propongono libri aggiuntivi per la preparazione al test Invalsi che si aggiungono ai testi in adozione. Resta poi evidente l’espropriazione della libertà d’insegnamento e nullo il loro senso ai fini della valutazione del processo d’apprendimento poiché la valutazione viene fatta e restituita alle scuole direttamente dall’Invalsi. Chiunque abbia minimamente approfondito i temi della valutazione ben sa che essa include forzatamente anche l’osservatore-valutatore, che in questo caso è totalmente escluso dal processo.
Lucia Donat Cattin ha inoltre denunciato il persistere negli orientamenti scolastici della valutazione numerica nella scuola dell’obbligo, introdotta da Maria Stella Gelmini e mai ridiscussa dai successivi ministri. Quanto sia inadatto questo tipo di valutazione nella scuola elementare e media è sotto gli occhi di tutti gli insegnanti e tra l’altro il Movimento di Cooperazione Educativa ha promosso anche una raccolta di firme per abolirla. Tuttavia, dal Ministero, tutto tace.
Quanto alla valutazione degli insegnanti, è stato ricordato, sempre da Lucia Donat Cattin, che essa esisteva già nella scuola italiana e fu abolita grazie alle lotte degli anni settanta, poiché in realtà era usata frequentemente come strumento di repressione politica sui metodi, e i contenuti dell’insegnamento e i comportamenti sindacali degli insegnanti. Oggi la situazione si presenta riverniciata nella sua facciata rispetto ai vecchi giudizi di insufficiente-sufficiente- etc, ma, nella sostanza, sarà sempre più difficile opporsi alle pretese dei presidi, per effetto dell’attuazione dei contratti triennali e della possibilità di essere collocati dai dirigenti in classe oppure nelle attività di “potenziamento”, vale a dire, in pratica, di essere marginalizzati a fare supplenze. E’ evidente, a questo proposito, che dopo la 107, gli spazi per una reale libertà d’insegnamento e non solo quelli sindacali, sono ristretti poiché il dirigente scolastico può decidere di offrire un contratto all’insegnante in base alla sua adesione al PTOF d’istituto, magari infarcito di petizioni ideologiche sull’autonomia scolastica, le competenze, la valutazione.
L’aspetto della valutazione dei docenti è stato ripreso, a livello di università, da Luciano Vasapollo che ha denunciato la pratica della valutazione delle pubblicazioni scientifiche secondo il criterio dell’impact factor, cioè del valore che ad esse viene attribuito in base alla rivista o al paese in cui una ricerca è pubblicata. Ciò evidentemente a tutto vantaggio delle riviste più in linea con i criteri capitalisti e pubblicate nei paesi del nord del mondo, soprattutto gli USA e la Gran Bretagna. Vasapollo ha anche denunciato l’assurdo criterio di valutare i docenti universitari in base alla quantità e ai voti degli esami del loro insegnamento e al numero delle tesi di laurea che vengono accordate da ciascuno di essi. Un meccanismo evidentemente assurdo, che incentiva a sopravvalutare gli esami e ad accettare tesi senza poi seguirne efficacemente lo sviluppo e la stesura.
La situazione della valutazione dei docenti, ma più in generale dei dipendenti pubblici, è stato un tema ripreso da Luigi Romagnoli della USB pubblico impiego, che ha segnalato come l’attuale ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia stia riprendendo pressoché totalmente l’idea della stratificazione dei lavoratori della P.A. nelle tre fasce di livello già previste dalla riforma Brunetta mai andata in porto. Come è noto, tale riforma prevede che i dipendenti pubblici siano collocati in tre fasce: una d”eccellenza” composta dal 25% dei lavoratori, una intermedia di personale “normale”, pari al 50% e infine una fascia del 25% di lazzaroni, assenteisti e incapaci. C’è da chiedersi perché mai quest’ultima fascia debba essere fissata nel 25% dei lavoratori, visto che i “lazzaroni” potrebbero essere il 10 o il 12% o anche, in molti casi, non esistere.
La risposta è semplice: attraverso questo marchingegno l’amministrazione si riserva di colpire i lavoratori ritenuti meno utili, ma anche di colpire quelli politicamente “oppositivi” poiché al terzo anno di collocazione in tale fascia potrebbe scattare il licenziamento. Inoltre, l’erogazione dei miseri aumenti previsti dai futuri contratti (si parla di 5 euro lordi al mese) è completamente orientata verso il salario aggiuntivo, e non verso quello di base, con una discrezionalità totale da parte dei dirigenti. Romagnoli ha anche messo in luce come ormai nella gestione dei servizi pubblici viga completamente una logica economica e non di qualità. Anche i lavoratori, di conseguenza, non sono valutati in base alla qualità effettiva del loro lavoro, bensì sulla quantità delle loro prestazioni e su quanto fanno risparmiare all’amministrazione.
Anche se in altre forme, la logica economica domina anche la ricerca universitaria. Luciano Vasapollo ha denunciato che l’estrema scarsità dei fondi che tutti i governi hanno destinato alla ricerca, porta all’irruzione dei finanziamenti privati in questo importante settore dell’università. Ciò significa l’asservimento della ricerca alle aziende, poiché un lavoro finanziato da un’impresa non può, evidentemente, contrastare con gli interessi della stessa. Questo fatto raggiunge i suoi effetti più negativi negli ambiti medico-farmaceutici, ma tocca comunque tutti i settori di ricerca.
La conquista della scuola e dell’università da parte del potere economico si traduce anche nel linguaggio: nelle scuole di parla, a proposito dei test Invalsi, di “valore aggiunto” ottenuto dagli allievi, mentre nell’università, dopo la pasticciata riforma del 3+2 voluta dall’Unione Europea il percorso universitario degli studenti è tracciato dalla discutibile logica dei “debiti” e “crediti” formativi.
Tornando a una valutazione generale del convegno, due temi sono rimasti, purtroppo, impliciti, anche a causa del tempo ridotto a disposizione. Il primo riguarda l’autonomia scolastica. L’autonomia scolastica, promossa dal ministro Berlinguer alla fine degli anni 90, sostenuta anche dai sindacati CGIL CISL e UIL, è stato il grimaldello per la distruzione del sistema pubblico nazionale di istruzione. Proprio l’introduzione dell’autonomia scolastica, che non a caso fu accompagnata dalla parità tra istituti pubblici e privati, segnò la nascita della concorrenza tra le scuole, con l’abolizione dei bacini d’utenza e il sorgere della visione aziendalista della scuola.
L’autonomia scolastica aprì il varco per la privatizzazione e l’aziendalizzazione della scuola attraverso cui sono potute passare tutte le iniziative mercatiste di Gelmini, Fioroni, Moratti, Carrozza e Giannini. E’ evidente che anche la legge 107/2015 non potrebbe esistere se non all’interno del contesto dell’autonomia scolastica. Sino all’introduzione dell’autonomia, il sistema scolastico italiano post- resistenziale garantiva una formazione uguale a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalla loro appartenenza a regioni ricche o povere e alla frequenza di scuole che in seguito si definirono di “élite” oppure considerate meno prestigiose sino a essere valutate come “ghetti”. Questo sistema è stato progressivamente distrutto dalla logica aziendale dell’autonomia, a cui è stata formata dall’amministrazione una generazione d’insegnanti a cui, attraverso le scuole e i corsi preposti a rilasciare l’abilitazione, essa è proposta come l’unica possibilità di organizzazione scolastica nazionale. Un pensiero unico a cui è difficile sfuggire.
Un’altra questione che è stata, forzatamente, solo sfiorata dall’intervento di Luciano Vasapollo è quella dell’abbassamento del livello dei saperi acquisiti nella scuola secondaria. Un dato che purtroppo è piuttosto evidente. Tuttavia, invece di ironizzare, come spesso capita, su questo dato, quasi che i colpevoli fossero gli studenti troppo pigri e poco motivati allo studio, ci si dovrebbe interrogare sui danni che sta producendo nella scuola la mistificazione pedagogica delle “competenze”, vale a dire di quell’impostazione didattica e pedagogica funzionale al capitale, volta a creare una mano d’opera “flessibile” e corriva alla logica per cui il “posto fisso” sia in realtà quasi una vergogna.
La logica delle “competenze”, almeno nella visione che è proposta oggi dal Ministero penalizza, forzatamente, i saperi. Ciò è normale, perché sono i saperi che servono per cambiare il mondo, per immaginare una società diversa, per ribellarsi allo sfruttamento capitalista. Su questi temi andrebbe aperta una riflessione profonda sul modello di scuola necessario a dare consapevolezza ai giovani della possibilità di cambiare la società. Probabilmente si dovrebbe pensare a una scuola politecnica, in cui vita e scuola, lavoro manuale ed elaborazione intellettuale si accompagnano.
A questo proposito è stato illuminante, nel convegno che commento, l’intervento del prof. Efrain Echevarria, dell’Università di Pinar del Rio che ha presentato il sistema scolastico cubano che prevede, proprio nel suo settore intermedio, una formazione di tipo politecnico. La relazione del prof. Echevarria è stata perfetta nel mettere in luce la differenza tra il sistema pubblico cubano e quello italiano. Tra i tanti spunti offerti dall’intervento di Echevarria mi sembra importante citare il fatto che anche nell’ambito del processo di riforma economica in atto nel paese, un settore in cui non è previsto alcun investimento da parte dei privati è proprio quello della scuola e della formazione. Questo è un segno della volontà del governo cubano di mantenere il controllo di un sistema formativo egualitario e laico, libero da sottomissioni al mercato. Tale scelta peraltro ben s’inquadra nell’interesse che il governo rivoluzionario cubano ha sempre prestato ai problemi dell’educazione sin dal 1961 quando avviò la prima grande campagna di alfabetizzazione popolare che riguardò il 12% della popolazione del paese. Cuba investe molto nell’istruzione, tanto che la spesa in questo settore raggiunge il 12% del PIL nazionale (contro l’1,7 dell’Italia) e il 25% della spesa pubblica totale. Tutto ciò, evidentemente, seguendo la traccia di José Marti che affermò: “Essere colti è l’unico modo di essere liberi”.
A questo proposito è stato illuminante, nel convegno che commento, l’intervento del prof. Efrain Echevarria, dell’Università di Pinar del Rio che ha presentato il sistema scolastico cubano che prevede, proprio nel suo settore intermedio, una formazione di tipo politecnico. La relazione del prof. Echevarria è stata perfetta nel mettere in luce la differenza tra il sistema pubblico cubano e quello italiano. Tra i tanti spunti offerti dall’intervento di Echevarria mi sembra importante citare il fatto che anche nell’ambito del processo di riforma economica in atto nel paese, un settore in cui non è previsto alcun investimento da parte dei privati è proprio quello della scuola e della formazione. Questo è un segno della volontà del governo cubano di mantenere il controllo di un sistema formativo egualitario e laico, libero da sottomissioni al mercato. Tale scelta peraltro ben s’inquadra nell’interesse che il governo rivoluzionario cubano ha sempre prestato ai problemi dell’educazione sin dal 1961 quando avviò la prima grande campagna di alfabetizzazione popolare che riguardò il 12% della popolazione del paese. Cuba investe molto nell’istruzione, tanto che la spesa in questo settore raggiunge il 12% del PIL nazionale (contro l’1,7 dell’Italia) e il 25% della spesa pubblica totale. Tutto ciò, evidentemente, seguendo la traccia di José Marti che affermò: “Essere colti è l’unico modo di essere liberi”.
L’iniziativa tenuta a Milano sarà ripresentata a:
Bologna 9 maggio ore 10 – 14 via Saffi 9 (sede USB)
Roma 11 maggio (informazioni scuola@usb.it)
Alba 16 maggio ore 14.30 – 17.30 presso l’istituto Umberto I (scuola enologica), corso Enotria 2
Fonte: Contropiano
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