di Daniela Preziosi
Un’istituzione «narrata con tale agiografica esaltazione da coprire con un velo pietoso la sua vera storia». Non solo nel passato, anche in un presente sconfortante. «La tumultuosa e tragica cronaca quotidiana è lì a dimostrarlo: un susseguirsi di decisioni unilaterali dei singoli stati membri che, in un sussulto sovranista, procedono ad elevare, allestiti dalle proprie forze militari, muri su confini che sembravano aver perduto significato. Misure cui Bruxelles tenta, invano, di porre riparo adottando decisioni non solo del tutto inadeguate a fronteggiare il fenomeno, ma a loro volta del tutto illegali, come gli hotspot». Il ragionamento è tratto dal Manuale antiretorico dell’Unione europea di Luciana Castellina appena uscito per manifestolibri (p.172, 18 euro), indispensabile vademecum per tutti quelli che parlano a vanvera delle virtù dell’europeismo, e per tenere a mente da dove viene (e capire dove va) l’istituzione meno popolare del continente, ogni giorno messa a rischio dalla sue decisioni e ancora di più dalle indecisioni.
Alla vigilia del sessantennale del Trattato di Roma (il 25 marzo 1957, nascita della Comunità economica europea che nel ’93 diventerà Unione) Castellina riprende in mano un saggetto uscito dieci anni fa e lo aggiorna con una prefazione che copre il tratto mancante. Il primo libro raccontava la «non brillante storia» di come in mezzo secolo «non si è data realizzazione ai sogni europeisti di Ventotene». Dieci anni dopo «non si può che essere assai meno ottimisti», l’istituzione non costruita o malcostruita è stata investita da crisi e da «giganteschi processi di destabilizzazione» che a sua volta ha contribuito a fomentare. Fra il primo e il secondo tempo il film va sempre peggio.
Ma il manuale è tutt’altro che euroscettico né lo sono le conclusioni. Per raggiungere le quali però Castellina non ingentilisce la storia di errori, fallimenti e occasioni mancate. Senza retorica, appunto, con il piglio della giornalista e protagonista politica (la fondatrice del manifesto è stata più volte europarlamentare) ricostruisce il brillante futuro ormai dietro le spalle dell’istituzione considerata da subito «un mostriciattolo» da Altiero Spinelli che ben altrimenti l’aveva immaginata. Infatti i suoi la contestano sin dall’annuncio del ministro Segni al Teatro Adriano, nel ’57, con un volantinaggio dal loggione. C’è lo scetticismo della sinistra su quella che veniva ritenuta una figlia degli Stati Uniti. (Tutta da leggere la parte sull’atteggiamento delle sinistre europee e l’integrazione, tanti spunti interessanti: fra i comunisti solo il trozkista Mandel capisce le potenzialità del processo contro «le sciocchezze» del Pcf francese; nel Regno unito del ’71 è la minoranza laburista a votare sì all’unificazione, vedasi oggi la posizione antiBrexit di Corbyn, veterano della sinistra New Labour).
Poi la Ceca, la Ced, l’Euratom, i Trattati fino allo shock del «no» alla Costituzione pronunciato nel 2005 da Francia e Olanda.
Saltando ai nostri giorni, agli anni della crisi, il giudizio è drastico. L’Ue si ritrova «rinchiusa nella gabbia che essa stessa ha costruito, le mani legate per affrontare solidalmente le difficoltà dei più deboli». La gabbia viene dal compromesso che negli anni 90 ha fatto nascere il Sistema monetario. E poi l’euro. «La Germania, non fidandosi del rigore dei partner, non lo voleva. Ma aveva bisogno del pieno avallo all’unificazione del paese», così finisce per accettare ma chiede «in cambio misure di salvaguardia: il divieto per ogni stato membro di intervenire per salvare l’altro in caso di crisi, il no bail out. Fiduciosi nelle virtù taumaturgiche del mercato, gli ortodossi comandanti dell’Unione accettarono». Il resto è cronaca dei nostri giorni. L’istituzione economica non ha e non si vuol dare gli strumenti per ristrutturare i debiti dei paesi in crisi e quindi non ha nessuna intenzione di rimetterli e rimettersi in equilibrio. Ai quali paesi chiede di fare le «riforme strutturali», tradotto tagliare il welfare, il meglio del modello europeo. La questione dei migranti: non «un fatto emergenziale» ma «un’irreversibile tendenza mondiale di lungo periodo» che dovrebbe portare – altro che muri – «a una ridefinizione del difficile concetto di popolo, nel senso di soggetto sovrano». Ma come potrebbe, se il concetto di popolo europeo non c’è e proprio per questo non c’è né può esservi una struttura di cui esso sia sovrano? Di qui la questione cruciale, quella dell’Europa ormai postdemocratica e irrecuperabile alla democrazia: governance non è governo, la crisi di fatto ha esautorato «sia il parlamento europeo che quelli nazionali» e gli entusiasti facciano attenzione a invocare più Europa, «ci sono due modi di realizzarla: uno, attraverso un federalismo manageriale esecutivo postdemocratico, uno dotando l’Unione di poteri politico-legislativi. Data l’eterogeneità dei paesi che compongono l’Unione è fatale che prevalga il primo modello».
E la domanda è ineludibile: «vale ancora puntare sull’Europa»? Se quest’Europa è incompatibile con la democrazia, essere europeisti “da sinistra” non finisce per essere un atto di fede? E non è un paradosso che il senso comunitario sia rimasto esclusiva delle culture critiche? Per la risposta si segue un percorso fra tesi opposte, ottimisti e pessimisti, da Balibar a Said, a Moretti, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Toni Negri, passando per i gramsciani nordamericani, i Grundrisse e lo «speciale movimento operaio che (…) non è mai stato, come altrove, mero soggetto economico (…) ma anche portatore di valori di solidarietà che hanno inciso sulle istituzioni». Alla fine Castellina non ha dubbi. Centra e definisce la posizione della «sua» sinistra: nei «piani B» – ce n’è ormai diversi, tutti prevedono l’uscita dall’Europa – c’è comunque «un rigurgito di sovranismo». O almeno «un’illusione»: «che a livello nazionale saremmo in grado di fare ciò che a livello europeo non ci riesce». La conclusione è obbligata, ha un uomo-simbolo, Alexis Tsipras, europeista malgrado le condizioni in cui versa la Grecia causa Europa. «Buttare all’aria questi quasi sessant’anni di integrazione, pur considerando tutti i suoi tratti negativi, non aiuterebbe. Questa storia travagliata ha creato un terreno di scontro» che è almeno un punto «da cui ricominciare». «Non è molto», ammette Castellina, ma è l’essenziale, giura. E non è un atto di fede, è la condizione senza la quale qualsiasi nuova battaglia sarebbe impossibile. Questo implica una riorganizzazione delle sinistre europee, ovviamente. Ma uscire dall’Europa, assecondarne l’implosione, sarebbe decidere di «navigare nel vuoto», che vuol dire alla deriva.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.