di Claudia Fanti
È apparso un evento di grande valore simbolico quello della firma, nella sede delle Nazioni Uniti a New York, lo scorso 22 aprile, durante la Giornata mondiale della Terra, dell'Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Che a firmarlo siano stati i rappresentanti di 175 Paesi - un fatto indubbiamente senza precedenti - vuol dire tuttavia ancora poco. Perché l'Accordo entri in vigore, infatti, non basta la firma: è necessaria la ratifica di un minimo di 55 Paesi che coprano perlomeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra. E sono stati solo 15 piccoli Paesi in via di sviluppo, responsabili di una percentuale insignificante di emissioni, ma anche i più drammaticamente esposti all'impatto del cambiamento climatico, a depositare la loro ratifica durante la cerimonia del 22 aprile: Barbados, Belize, Figi, Granada, Maldive, Isole Marshall, Mauritius, Nauru, Palau, Palestina, Samoa, Saint Christopher e Nevis, Santa Lucia, Somalia e Tuvalu.
Non a caso, esprimendo soddisfazione per il record del numero di firme in un solo giorno stabilito dall'Accordo di Parigi, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, nel suo intervento di apertura, ha ricordato ai governi presenti, sollecitandoli a ratificarlo nel minor tempo possibile, che nel frattempo altri record vengono inesorabilmente registrati: «Temperature record nel mondo. Perdita record di ghiaccio. Livelli record di anidride carbonica nell'atmosfera». Cosicché «i margini per mantenere l'aumento globale della temperatura al di sotto dei 2° C, e tanto più entro 1,5° C, si stanno riducendo rapidamente».
Sulle prospettive dell'accordo, tuttavia, non mancano certo gli scettici, come per esempio Gerardo Honty, del Centro Latino Americano de Ecología Social, secondo cui è proprio la storia del Protocollo di Kyoto a dimostrare come il periodo tra la firma e la ratifica sia quello in cui il gioco si fa più duro e i compromessi al ribasso più eclatanti. E se, rispetto a quello, che almeno stabiliva obiettivi vincolanti di riduzione per i Paesi industrializzati, l'Accordo di Parigi è ancora più debole, prevedendo solo impegni volontari, è facile prevedere come nei prossimi mesi i Paesi maggiormente responsabili delle emissioni climalteranti «avranno un potere negoziale senz'altro più grande» (Alai, 23/4). Ancora più critico il fondatore di Other News Roberto Savio, il quale pone l'accento sul fatto che, fino al 2030, non si attiverà alcun meccanismo di verifica sul compimento o meno dell'accordo e che comunque, neanche allora, saranno previste sanzioni in caso di mancata applicazione: l'unica misura possibile «sarà rendere noto chi non ha mantenuto gli impegni» (www.other-news.info).
Non a caso, esprimendo soddisfazione per il record del numero di firme in un solo giorno stabilito dall'Accordo di Parigi, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, nel suo intervento di apertura, ha ricordato ai governi presenti, sollecitandoli a ratificarlo nel minor tempo possibile, che nel frattempo altri record vengono inesorabilmente registrati: «Temperature record nel mondo. Perdita record di ghiaccio. Livelli record di anidride carbonica nell'atmosfera». Cosicché «i margini per mantenere l'aumento globale della temperatura al di sotto dei 2° C, e tanto più entro 1,5° C, si stanno riducendo rapidamente».
Sulle prospettive dell'accordo, tuttavia, non mancano certo gli scettici, come per esempio Gerardo Honty, del Centro Latino Americano de Ecología Social, secondo cui è proprio la storia del Protocollo di Kyoto a dimostrare come il periodo tra la firma e la ratifica sia quello in cui il gioco si fa più duro e i compromessi al ribasso più eclatanti. E se, rispetto a quello, che almeno stabiliva obiettivi vincolanti di riduzione per i Paesi industrializzati, l'Accordo di Parigi è ancora più debole, prevedendo solo impegni volontari, è facile prevedere come nei prossimi mesi i Paesi maggiormente responsabili delle emissioni climalteranti «avranno un potere negoziale senz'altro più grande» (Alai, 23/4). Ancora più critico il fondatore di Other News Roberto Savio, il quale pone l'accento sul fatto che, fino al 2030, non si attiverà alcun meccanismo di verifica sul compimento o meno dell'accordo e che comunque, neanche allora, saranno previste sanzioni in caso di mancata applicazione: l'unica misura possibile «sarà rendere noto chi non ha mantenuto gli impegni» (www.other-news.info).
Eppure il tempo è agli sgoccioli: come afferma José Eustáquio Diniz Alves, docente della Scuola Nazionale di Scienze Statistiche dell'Ibge (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística; EcoDebate, 27/4), i primi tre mesi del 2016 hanno registrato un aumento della temperatura estremamente elevato, «non previsto da alcun modello statistico», pari a 1,04º C a gennaio, 1,21º C a febbraio e 1,22º C a marzo. Vale a dire che, «in relazione alla fine del XIX secolo, l'aumento della temperatura, nel 2016, sarà di quasi 1,5ºC», che è per l'appunto il limite indicato dall'Accordo di Parigi per il 2100. Un obiettivo, questo, chiaramente irraggiungibile, evidenzia Diniz Alves, «senza una discontinuità rispetto ai combustibili fossili» e soprattutto senza l'avvio urgente di un «dibattito sui mezzi per promuovere la decrescita delle attività antropiche e la decrescita delle disuguaglianze sociali»: «L'economia dipende dall'ecologia e non il contrario. (…). Un mondo ricco in un pianeta povero è un assurdo. Non è la natura che sta minacciando l'essere umano. È l'essere umano che si sta autodistruggendo nel distruggere la natura».
E intanto i governi...
I governi, tuttavia, come ha evidenziato ancora Roberto Savio, non sembrano ancora averne preso atto: da quello italiano che ha boicottato in ogni modo il referendum sulle trivelle (senza contare che nel nostro Paese la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è scesa - ed è la prima volta dal 2007 - dal 43 al 38%, e il complesso della produzione energetica da rinnovabili è aumentato solo dello 0,2% annuo in tre anni) a quello britannico che, appena due settimane dopo la Cop21, ha preso l'iniziativa di estendere le concessioni per l'estrazione di carbone con la motivazione che erano a rischio 10mila posti di lavoro; da quello indiano che ha annunciato un aumento delle autorizzazioni per le centrali a carbone a quello polacco che di riduzione delle emissioni da carbone non vuole neppure sentirne parlare, per finire con tutti i candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti, ben decisi, in caso di vittoria, a sconfessare l'accordo raggiunto a Parigi. E tutto ciò malgrado una recente ricerca pubblicata sulla rivista Nature abbia calcolato che, per evitare che l'aumento di temperatura superi i 2 gradi, dovrebbero restare sottoterra un terzo delle riserve di petrolio, metà delle riserve di gas e l'80% delle riserve di carbone.
Di fronte a questo sconsolante scenario, di appelli ai governi ne sono stati comunque rivolti tanti, in ogni parte del mondo, come per esempio quello di oltre 80 organizzazioni della società civile dell'America Latina e dei Caraibi, firmato anche da Pax Christi International, che - richiamandosi anche all'appello di papa Francesco, contenuto nell'enciclica Laudato si', a fermare il riscaldamento climatico e a promuovere stili di vita in armonia con la natura - chiede a ogni governo di assumere «il compito e la responsabilità etica di portare a termine i propri piani di azione e di operare per la necessaria e imminente decarbonizzazione delle economie e per la ridefinizione delle relazioni con la natura secondo nuovi modelli di produzione e consumo». O quello di Caritas Internationalis, che sollecita i governi a un'immediata ratifica dell'Accordo di Parigi, sottolineando come questo, pur essendo venuto meno al compito di «affrontare più fermamente le cause strutturali del cambiamento climatico» e di operare una trasformazione del «modello economico dominante basato su mercati», rappresenti comunque «l'unico strumento internazionale oggi esistente e su cui si baseranno le politiche nazionali nel futuro». O, ancora, la dichiarazione interreligiosa sul cambiamento climatico diretta dai leader religiosi dell'umanità ai capi di governo di tutto il mondo che vi proponiamo in una nostra traduzione dallo spagnolo, insieme alle riflessioni sul nesso tra capitalismo e collasso climatico dello ricercatore della Unam (Universidad Nacional Autónoma de México) John Saxe-Fernández, pubblicate in più parti su La Jornada (3/3, 1/4 e 14/4).
Fonte: Adista News
Originale: http://www.adista.it/articolo/56256
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