di Riccardo Bottazzo
Si scrive TTIP. Si legge “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, ma col “trade” e con la “partnership” non ci azzecca nulla. Nei media, l’acronimo viene comunemente tradotto con “trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti”. Da cui si evince che, in questa storia brutta assai, anche il nome è sbagliato. Il TTIP infatti, non è un trattato sul commercio e sugli investimenti. E non perché lo scrivo io.
Lo ha sottolineato, tra gli altri, anche il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in uno suo intervento al Parlamento italiano il giorno 24 settembre del 2014, che passerà alla storia per il totale disinteresse dimostrato dai nostri onorevoli. “Il TTIP non è un accordo di libero scambio, come vogliono farci credere – ha sottolineato il Nobel statunitense -. Un accordo simile potrebbe essere contenuto in tre pagine: noi eliminiamo le nostre barriere doganali e voi le vostre. Ma gli Usa non sono interessati ad un accordo di libero scambio.
Gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio per favorire particolari interessi americano che non non sono neppure gli interessi dei cittadini americani.
Ecco cosa è il TTIP. Questo è il motivo per il quale l’Ustr (United States Trade Representative, l’agenzia governativa che gestisce le trattative in materia.ndr) si è rifiutata di rivelare il testo dell’accordo anche ai membri del Congresso. Vogliono che i nostri e i vostri rappresentanti siano all’oscuro di quando contenuto nell’accordo. Figuriamoci i normali cittadini che non ne devono sapere assolutamente nulla”.
Gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio per favorire particolari interessi americano che non non sono neppure gli interessi dei cittadini americani.
Ecco cosa è il TTIP. Questo è il motivo per il quale l’Ustr (United States Trade Representative, l’agenzia governativa che gestisce le trattative in materia.ndr) si è rifiutata di rivelare il testo dell’accordo anche ai membri del Congresso. Vogliono che i nostri e i vostri rappresentanti siano all’oscuro di quando contenuto nell’accordo. Figuriamoci i normali cittadini che non ne devono sapere assolutamente nulla”.
La segretezza con la quale sono condotte le trattative su un piano economico che, nel bene e nel male, coinvolgerà oltre 820 milioni di persone tra cittadini europei e statunitensi, e alla fine dovrà essere ratificato da un parlamento europeo che, per ore, non ne sa assolutamente niente, è il primo punto che fa suonare una campanella d’allarme.
Nell’unico documento ufficiale diffuso dall’Ue si leggono obiettivi quanto meno superficiali e generici, tipo «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche…” e via discorrendo. Ma perché tanta segretezza allora? Tutti si spiega con le bozze di accordo, pubblicate e mai smentite dalla Ue, da settimanali come il tedesco Zeit o lo Huffington Post che hanno messo in evidenza come la direzione generale commercio della Commissione europea (l’unico “ministero” preposto alla trattativa con gli Usa) stia tramando – non trovo parola migliore – per portare avanti una liberalizzazione feroce che farebbe la felicità degli economisti della scuola di Chicago.
Il TTIP punta infatti ad eliminare tutti i dazi sugli scambi bilaterali di prodotti, liberalizzare tutti i servizi e gli appalti, con conseguente perdita del lavoro per delocalizzazione in mercati più convenienti (e con meno diritti sociali e ambientali) e il decadimento delle norme a favore dell’imprenditoria locale in tema di forniture pubbliche,. Inoltre, il TTIP punta a tutelare i grandi investitori con l’introduzione dell’Isds (Investor to State Dispute Settlement) che consente ai finanzieri di citare in giudizio i Governi e, di fatto, assoggetta gli Stati nazionali ad un diritto tagliato apposta per le multinazionali.
Tra le altre conseguenze denunciate da pressoché tutte le associazioni europee di consumatori e di tutela dell’ambiente, sono state evidenziate una maggior dipendenza dal petrolio (Cop21 ci fa una pippa!), la mercificazione del territorio e dei beni comuni, un aumento dei rischi per la salute perché verrebbero meno tutte le garanzie ed i controlli sui farmaci e sugli alimenti.
Senza contare che per la frammentata agricoltura europea che oggi punta sulla qualità del prodotto, la scomparsa delle protezioni doganali sarebbe il colpo finale e le culture Ogm sarebbero invocate come la sola soluzione possibile per allineare il settore a quello d’oltre oceano.
In poche parole, il Ttip altro non è che una rapina a mano armata che spazzerebbe via le piccole e medie aziende europee a favore delle grandi multinazionali. E con loro, quello che resta di una democrazia rappresentativa che già adesso, in Italia come in Europa, non rappresenta più nessuno.
Una storia, questa dei trattati Usa per il “libero scambio”, che sbarca in Europa dopo aver fatto piazza pulita dell’economia dell’America latina.
Le conseguenze di un simile accordo economico lo possiamo già vedere nell’odierno Messico dove, il primo gennaio 1994, gli Stati Uniti imposero il Nafta (North American Free Trade Agreement) e la nazione centroamericana perse, con la sua indipendenza economica, anche la sua sovranità, consegnando il suo territorio alle multinazionali minerari e la sua democrazia alle multinazionali del narcotraffico.
Quel giorno, nel Chiapas, qualcuno disse che era ora di finirla. Occupò cinque città in armi e salì sul balcone del municipio di San Cristobal per gridare “Ya basta” ed annunciare al mondo intero che, se la scelta era tra morire combattendo o morire di fame, loro sarebbero morti combattendo.
Fonte: Global Project
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