di Guido Moltedo
Mancano 185 giorni all’Election Day. Dopo le primarie nell’Indiana, martedì scorso, l’establishment e i media hanno già emesso il verdetto. Saranno Donald Trump e Hillary Clinton gli sfidanti. E sarà Hillary, secondo i sondaggi, a succedere a Barack Obama, diventando la prima Madam President della storia americana. Al tempo stesso, senza argomentare la previsione, in tanti sui media parlano di The Donald come fosse già seduto nello studio ovale sulla poltrona di Obama. Andrà davvero così? Probabile, ma solo perché, allo stato attuale, non si vede un altro scenario plausibile. Non si vota però domani, e sono davvero tanti i nodi da sciogliere, gli interrogativi ancora aperti, lungo il tragitto dei prossimi mesi, e sono tali che è azzardato saltare già oggi alle conclusioni.
Certo, c’è un dato politico di enorme rilevanza che va comunque preso in considerazione, al di là dell’esito finale di questa corsa presidenziale. È il successo di Donald Trump, non un successo di misura, ma una vera e propria investitura da parte della base del Partito repubblicano contro il volere dei suoi capi.
Il fenomeno Trump andrà studiato bene. Adesso è oggetto di curiosità, soprattutto perché ha spiazzato il commentariat che fin dall’inizio l’ha presentato come un palazzinaro ignorante e pittoresco, un po’ come fu trattato Berlusconi quando annunciò la sua “discesa in campo”. Ma questo ha a che fare con il distacco dalla realtà e con l’autoreferenzialità dell’establishment politico-mediatico liberal che deride e bolla come effimera anti-politica ogni fenomeno che si sviluppi al di fuori del suo recinto.
Trump è dunque in campo, ben piazzato, ma è adesso che deve mettere sul tavolo le sue carte presidenziali, rivolgendosi non più ai repubblicani e alla destra ma a tutta la platea degli elettori. Non gli basteranno né il suo istinto politico né le sue doti istrioniche per conquistare i giovani che votano per la prima volta, i millennial (all’80 per cento con un’opinione sfavorevole nei suoi confronti, secondo un sondaggio Wp/Nbc), le donne bianche (68 per cento contro), gli ispanici (85 per cento), i laureati bianchi (74 per cento). In stati in bilico e in stati ad alta presenza etnica, la matematica resta l’inesorabile nemica di Trump.
Non solo. La forte “negatività” di un candidato presidenziale in segmenti elettorali cruciali si riflette sui candidati alla camera dei rappresentanti e al senato. Già, perché l’8 novembre si voterà anche per il rinnovo della House e di un terzo del senato, dove il Gran Old Party ha una solida maggioranza. Che potrebbe perdere, nel risucchio di una sconfitta di Trump. Questo dicono da tempo i sondaggi locali in diverse circoscrizioni-chiave, un rischio che rende ancora più difficile da digerire a parti consistenti del partito la sua candidatura. Per i repubblicani c’è il rischio del “cappotto”. Molti boss del Grand Old Party, la dinastia Bush in testa, non intendono salire sul carro di The Donald. Né spingerlo. I donor sono divisi. Insomma, la nomination di Trump non è ancora cosa fatta.
Le sue prossime mosse saranno importanti per capire come e fino a che punto è in grado di costruire una “postura” presidenziale in grado di combinare l’energia “naturale” su cui ha finora fondato la sua fortuna con l’esigenza di parlare a tutta l’America e di poter contare, anche per questo, sull’aiuto di quell’establishment repubblicano che finora ha coperto di contumelie.
Potrebbe fare il calcolo opposto, e procedere sulla sua strada, ignorando le compatibilità politiche, anzi valorizzando a suo favore la presa di distanze dei Bush e degli altri mandarini della destra. Una simile scelta potrebbe però mettere in moto un processo che non può ancora essere escluso. Non una convention che punti a porre in discussione la sua nomination, come pure hanno cercato di fare i suoi nemici, dal tandem Romney-Rubio a Cruz. Ma una simile aggregazione potrebbe smarcarsi dalla convention e lanciare in pista un terzo candidato. La scelta dei due Bush non è solo un no a Trump. Non è solo un’astensione. Può indicare un’altra opzione.
Sul versante democratico si prospetta una dinamica analoga, nel senso che il quadro è ancora lontano dal “Rien ne va plus, les jeux sont faits”.
Bernie Sanders resta in corsa non per testardaggine improduttiva, non solo perché spinto da un movement che gli chiede di proseguire fino alla convention di Filadelfia. Ma perché i sondaggi lo indicano come lo sfidante più adatto e capace di ottenere più sostegni di Hillary in una sfida in campo aperto con Trump. Non è dunque il suo un ragionamento velleitario ma una posizione politica che ha diversi solidi punti di sostegno.
I sondaggi, come si è detto, danno come favorita Hillary in un confronto diretto con Trump (con numeri non dissimili rispetto a quelli che vanta Bernie fosse lui lo sfidante dem), specie in certi settori demografici decisivi. Ma che cosa avverrebbe in un duello feroce, personale, come quello che potrebbe mettere in atto Trump, il quale già allude a una serie di colpi bassi di infimo livello da assestare contro la rivale? Se la campagna diventerà nasty, cattivissima, sempre più duramente polarizzata, e di segno nettamente misogino, Trump potrebbe finire per generare un effetto boomerang, attivando intorno alla rivale il sostegno anche degli elettori più riluttanti del campo democratico. E se invece avvenisse il contrario, se la sua furia anticlintoniana alimentasse l’affluenza alle urne della destra e della maggioranza silenziosa, con la sinistra riluttante a votare comunque per Clinton, fosse pure sott’assedio di un lestofante?
Il successo di Sanders – solo in questo speculare a quello di Trump – è nell’attivazione di molti elettori “indipendenti” o in disparte. Bernie è andato molto bene negli stati dove le primarie sono “aperte”, è andato male negli stati dove sono riservate agli iscritti. Può giustamente rivendicare il merito di aver risvegliato l’interesse di tanti elettori che si astengono o che sono inclini a farlo perché insofferenti al ricatto del voto per il minore dei mali pur di non far passare il candidato conservatore e reazionario.
Coinvolgimento che potrebbe fermarsi se sarà Hillary la candidata del Partito democratico. Certo, contro l’ipotesi di Sanders nominee democratico c’è lo spauracchio di una candidatura socialista verso cui si scatenerebbe un’offensiva repubblicana di stampo maccartista. Ma è un fatto che finora questo non è avvenuto, e non certo per generosità dei suoi avversari, segno che nell’America d’oggi, lontana dalla guerra fredda, il riformismo all’europea di Sanders non può essere liquidato con etichette propagandistiche.
In ultimo, su Hillary c’è la spada di Damocle dell’inchiesta sull’uso di un account privato di email quand’era segretario di stato. Sulla vicenda continua a indagare l’Fbi. Quando gli agenti federali interrogheranno l’ex segretario di stato e i suoi più stretti collaboratori non sarà una formalità. E le ripercussioni sulla sua corsa sono facilmente immaginabili.
Questi vari punti interrogativi che incombono sulla parte restante della corsa vanno visti nella loro interazione, e in rapporto a scelte strategiche difficilmente modificabili nella fase finale dello scontro, in un clima di confronto di fronte al quale quanto si è visto è ormai storia vecchia e apparirà come un torneo di fioretto.
Fonte: il manifesto
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