La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 maggio 2016

Sulla verticalizzazione del governo delle cose: il caso scuola

di Leonardo Croatto
Recentemente è stata approvata l'ennesima “riforma” della scuola, su linee leggermente diverse da quanto era circolato nelle bozze che circolavano nei mesi passati. Ci eravamo già occupati, in un articolo pubblicato sul nostro sito web, della versione embrionale di questa “riforma”, partendo proprio dall'abuso del termine “riforma”, che caratterizza ogni atto normativo di importanza anche modesta degli ultimi governi.
La legge del 13 luglio 2015, n° 107 in realtà non incide direttamente sulla dimensione educativa della scuola.Interviene invece in maniera molto forte sulla gestione del rapporto di lavoro tra scuola e docenti (il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario viene totalmente ignorato dal legislatore): selezione del personale, mansioni, valutazione, durata dell'incarico.
L’analisi sindacale si è soffermata, quindi, prevalentemente sugli aspetti di natura tecnico-contrattuale, mentre l’interesse dei lavoratori, in particolare i precari, si è concentrato, ovviamente, sulle modalità del reclutamento straordinario promesso. Ma gli aspetti tecnici che caratterizzano la riforma si incardinano su un impianto ideologico molto forte che merita una riflessione politica e culturale più approfondita, e svincolata dalle dinamiche specifiche della scuola.
All'epoca delle prime bozze di legge circolanti, prima ancora dell'approvazione definitiva, nell'articolo precedentemente citato evidenziavamo quelle che per noi erano i due aspetti più interessanti (e preoccupanti) dal punto di vista del marchio ideologico della “riforma”: la creazione di un meccanismo di finanziamento differenziato che avvantaggia le scuole in zone ricche e impoverisce le scuole in zone povere (scomparso poi nella versione finale della legge) ed il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico.
Al contempo, sottolineavamo l’impianto retorico marcatamente di destra con cui si costruiva la narrazione con cui la “riforma” veniva presentata al paese. A nostro avviso, il pensiero che spinge a modificare in senso autoritario e verticistico il patto di collaborazione di un gruppo di persone si articola più o meno secondo questo principio: non possono esistere comunità di pari che si autorganizzano e si autogestiscono, non possono esistere luoghi orizzontali di composizione di istanze diverse, in cui il confronto di idee portato a sintesi produce buon governo; la complessità di opinioni è un disvalore, il confronto tra idee diverse è un processo decisionale inefficiente; strutture sociali complesse possono funzionare solo se c’è un unico centro di decisione, il più possibile ristretto, le cui deliberazioni vengono eseguite dai membri della comunità senza che ci sia spazio per il dissenso ed il conflitto.
Il percorso di costruzione del consenso
Quest’opera di chiusura degli spazi di partecipazione politica e di decisionalità diffusa non è avvenuta improvvisamente. Nel tempo è stata diffusa una pervasiva narrazione che è servita per costruire consenso rispetto a questa lettura delle relazioni sociali. La chiusura degli spazi di confronto, strumentale ad una più facile gestione del potere, è avvenuta dopo aver convinto il paese che il dissenso, l’esistenza di posizioni divergenti che devono essere portate a sintesi, non è ne’ un elemento arricchente, e neanche una dinamica naturale delle relazioni umane.
Non è, ovviamente, solo la scuola il bersaglio di questa operazione. La percezione diffusa del funzionamento della politica, del governo del paese a tutti i livelli, nella grossa parte della popolazione ed in particolari negli elettori, è che il confronto di opinioni difformi sia un problema, non una risorsa, e che la soluzione sia quella di chiudere gli spazi del confronto per consegnare al capo tutta l’autonomia ed il potere decisionale, nel nome della massima efficienza. La democrazia, nell’accezione preferita della destra, e nella rappresentazione oramai introiettata dai cittadini a seguito di questa operazione, perfettamente riuscita, di egemonizzazione culturale, inizia e finisce con la competizione per la “leadership”. Si compete per i posti di comando (il sindaco, il capo del governo, il segretario del partito...), e una volta che l'incarico è assegnato non è previsto alcuno spazio di partecipazione decisionale né l’esistenza di minoranze ed opposizioni, fino alla prossima competizione.
Una logica affine a quella della selezione del capobranco tra gli animali ma molto lontana dalle riflessioni sulla democrazia sviluppate negli ultimi secoli tra gli homo sapiens.
Questa dinamica è percepibile con il modificarsi dei rapporti tra poteri esecutivi e poteri legislativi o direttivi ai diversi livelli, con i secondi che vengono svuotati di potere che sono trasferiti ai primi, così come nella ricostruzione delle architetture istituzionali. Il dibattito sulla qualità delle leggi elettorali si volge tutto intorno alla capacità del meccanismo scelto di selezionare una rappresentanza il più possibile omogenea e rispondente al gruppo maggioritario e di escludere le minoranze, di determinare un un risultato il più possibile omogeneo indipendentemente dalla composizione delle opinioni politiche degli elettori.
La partecipazione dei cittadini: corpi intermedi, partiti, disintermediazione
La retorica dell'uomo solo al comando, nelle sue varie versioni, ha investito tutti gli ambiti della vita democratica del paese, portando avanti un'operazione di compressione degli spazi democratici che ha colpito per primi i partiti.
Mentre sulla scena politica si affacciavano partiti proprietari, il cui fondatore e finanziatore principale era anche il detentore di tutto il potere decisionale, i partiti storici subivano successive trasformazioni che mentre ne riorientavano la linea politica, contemporaneamente ne ridescrivevano le modalità organizzative trasformandoli in comitati elettorali e cancellandone il ruolo primo: quello di spazi di partecipazione politica diffusa. La svolta a destra del PD si è completata in parallelo con il consolidamento del ruolo organizzativo delle primarie che hanno svuotato gli organi direttivi del loro ruolo ed hanno affidato al plebiscitarismo (usando la narrazione tossica della disintermediazione) l'elezione del capo assoluto.
Alla trasformazione dell'ultimo partito di massa di sinistra (almeno per tradizione storica) in un comitato elettorale all'americana ha fatto seguito un'aggressione ai corpi intermedi variamente intesi, con maggiore aggressività nei confronti di quelli che sono portatori di reale conflitto. Se è stata facile la corruzione dall'interno di un sistema politico facilmente disponibile alla corruzione, movimenti e sindacati si sono dimostrati più duri da abbattere. Lo scontro si è consumato in campo aperto, costruito in parte con la comunicazione (e quindi la costruzione di false narrazioni delle dinamiche sociali in cui movimenti, sindacati e associazioni sono coinvolti), in parte con la chiusura al confronto, con il tentativo di costringere all'irrilevanza i soggetti portatori di conflitto precludendogli il dialogo con le istituzioni, occupate militarmente.
Anche in questo caso la storia della “riforma” della scuola è paradigmatica.
La falsa narrazione della “riforma” è stata accompagnata da un durissimo attacco ai sindacati e dall’azzeramento del confronto con gli operatori del settore, da essi rappresentati; ma la totale chiusura al dialogo è stata camuffata con la costruzione di luoghi di partecipazione “falsi” con l’intento di mascherare l’arroganza autoritaria con cui la riforma veniva imposta con processi “innovativi” di partecipazione “disintermediata”.
Il sondaggio on-line è stata una potente arma di distrazione che ha sostituito spazi di partecipazione reali (perfettamente funzionanti, come le organizzazioni sindacali o le associazioni professionali) con uno strumento totalmente irrilevante dal punto di vista della costruzione di partecipazione ma funzionale alla narrazione del “nuovo” rispetto al “vecchio”. Fenomeni del genere non sono rari in giro per il paese: mentre i comuni costruiscono e promuovono spazi di partecipazione pubblica fortemente presidiati e controllati su temi marginali, quando sono i cittadini ad organizzarsi e a confliggere con le scelte del decisore unico la partecipazione spontanea ed autorganizzata non trova spazi di confronto e viene marginalizzata. Anche in questo caso un esempio che riguarda la scuola: il referendum sui finanziamenti alle scuole paritarie del comune di Bologna, percorso partecipato ma non gradito, è finito con un grande risultato di partecipazione e la totale chiusura del comune verso le istanze dei cittadini.
Perché la scuola
La scuola è, evidentemente, il territorio più interessante per portare avanti questa battaglia ideologica, perché non solo è un luogo in cui fino ad oggi l’organizzazione è stata fortemente orizzontale e partecipata, naturalmente ostile all'autoritarismo, ma è anche luogo dove si istruiscono i futuri cittadini, e di conseguenza è luogo in cui certe pratiche possono essere disseminate negli adulti del futuro.
Il modello organizzativo della scuola, l’esistenza o meno di spazi di collegialità, di partecipazione, di decisione comune, influenza il modo in cui gli elettori del futuro, che a scuola vengono educati alla vita democratica, formano la loro coscienza politica.

Fonte: Il Becco

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