di Matteo Moca
Sono da poco passate le celebrazioni per il 25 aprile, l’anniversario della liberazione d’Italia e della Resistenza, e non pochi hanno risfogliato la fondamentale raccolta einaudiana curata da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli che raccoglie le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Un libro tanto importante quanto doloroso, in cui affiora la semplicità di uomini comuni che, al contrario di quelli di cui parla Browning nel suo famoso saggio, decisero di donare la propria vita per la libertà e, come riporta una di queste lettere, per «l’idea comune» (un bel libro sulla semplicità di questi uomini e sui motivi delle loro scelte è il recente Eravamo come voi. Storie di ragazzi che scelsero di resistere, edito da Laterza, dello storico Marco Rovelli).
Un libro che per certi versi è simile a quello curato da Malvezzi e Pirelli, ma dall’altro, per ovvi motivi, assai differente, è Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, di Leo Spitzer, recentemente ristampato da Il Saggiatore in una pregevole edizione che mantiene la splendida traduzione di Renato Solmi, e, oltre alle note e agli apparati accuratissimi dei curatori, riporta anche un interessante apparato iconografico e un indice dei nomi di coloro che scrissero le lettere, sciogliendo così le iniziali dei nomi utilizzate da Spitzer.
Le differenze, è evidente, sono molte, ma è indubbio che le due raccolte intrattengano tra loro anche un rapporto di “parentela” per diversi motivi: innanzitutto perché nate in situazioni critiche di guerra, inoltre perché entrambe spinsero all’utilizzo della penna e del foglio tutti gli strati della popolazione, in un’urgenza comunicativa senza pari (non a caso, parlando dell’opera di Spitzer, lo storico Mario Isneghi ha sottolineato come «la cultura orale facesse un immenso sforzo collettivo per diventare cultura scritta»).
Non si era mai scritto tanto, fa notare Lorenzo Renzi nella sua presentazione, e infatti secondo le Poste nell’Italia della guerra furono scambiate quattro miliardi di lettere e cartoline. Ma se, e qui sta la grande differenza, la situazione dei partigiani è estrema perché adiacente alla morte, le lettere dei prigionieri di guerra italiani raccolta da Spitzer sono in primo luogo di soldati fatti prigionieri (e quindi reietti, disertori e traditori) e inoltre non sempre espressione di situazioni estremamente terrificanti come quelle dei partigiani.
Al di là della grande importanza per lo sviluppo degli studi filologici, l’opera di Spitzer può anche essere letta come una raccolta di lettere che testimoniano di una situazione e di un periodo storico e sociologico così differenti dal nostro. Facendo questo si seguirà il carattere più letterario dell’opera, quello che fece inserire ad Edoardo Sanguineti le Lettere di prigionieri di guerra italiani tra le opere più significative del Novecento, accanto a capolavori della letteratura.
La genesi dell’opera è abbastanza famosa: nel 1915 il filologo Leo Spitzer venne nominato censore della posta militare italiana a Vienna, con lo scopo di individuare, vagliando migliaia e migliaia di lettere, le notizie o le espressioni che l’Austria non voleva arrivassero dai campi di lavoro. Nel corso di due mesi, nel poco tempo libero che gli rimaneva, Spitzer ha ricopiato centinaia di citazioni dalle lettere, ordinandone il contenuto, e le ha utilizzate, oltre che per questa opera, anche per le Perifrasi per esprimere la fame.
Spitzer raccoglie i momenti meno drammatici della prigionia, i momenti di pausa e di ricreazione, che nascondono però sempre un afflato di tristezza e di caducità facilmente comprensibile. Oltre che in questa ottica “dal basso”, come si dice, della guerra e nel grande interesse scaturito dall’utilizzo di un italiano popolare, la portata maggiore del lavoro di Spitzer risiede soprattutto nel desiderio di mettere le voci dei soldati semplici e della gente comune, le loro parole e i loro dialoghi, al centro della ricostruzione dell’evento.
Quello che più interessava era dare una narrazione della guerra che non seguisse i binari mistificati dei governi, ma che invece la guerra diventasse scrittura nelle mani di uomini e donne testimoni di una catastrofe immane. E non è di poco conto neanche ricordare come lo spirito di Spitzer fosse uno spirito estremamente pacifista, anche militante, antimonarchico e amichevole verso gli italiani, e che quindi tutta l’opera, proprio perché mossa anche da un desiderio di dare la voce a chi la guerra la viveva, assume un carattere a suo modo profetico visti gli orrori e i fantasmi che pochi decenni dopo attraverseranno l’Europa e il mondo intero.
Raccogliendo le lettere, Spitzer colse immediatamente l’importanza della conservazione e dello studio dei materiali nati da una «necessità della scrittura»; questi testi sono la testimonianza di un momento di cambiamento che portava uomini abituati ad impugnare gli strumenti agricoli ad impugnare una penna. Le lettere sono allora testimonianze dirette di un’umanità contadina che sta, pian piano, scomparendo, e di come essa ha vissuto la gravità e anche la novità di un momento storico tanto straordinario.
L’interesse di Spitzer si muove allora verso lo studio delle classi popolari italiane, della loro mentalità, dalla storia della loro partecipazione alle vicende dello stato nazionale. A questo tipo di analisi di interesse storico, si aggiunge anche lo studio del linguista che indaga proprio l’identità di questi uomini attraverso il rapporto, spesso drammatico ed irrisolto, tra dialetto contadino, dialetto cittadino e italiano.
L’estrema cura filologica del testo esemplificata nella divisione dei capitoli, ognuno dedicato ad uno dei temi trattati nelle lettera (dallo studio delle formule di apertura e di chiusura alle scuse per la cattiva scrittura, dalle formule di saluto alla gioia di ricevere una lettera) rende semplice anche la sola consultazione che, al di là di una possibile incompletezza, è assai utile a chi si avvicini al testo per consultare un impressionante campionario di umanità.
Tra le notazioni tecniche di Spitzer, che per esempio sottolinea come «i meridionali tendano a scrivere sotto l’impressione fonetica immediata del loro dialetto nativo, mentre gli italiani del centro o del settentrione siano piuttosto influenzati dalla convenzione locale», si avverte il carattere unitario e coeso della raccolta soprattutto per lo sforzo comune dei soldati, al fronte di purificare il loro dialetto, di appiattire le stranezze lessicali per creare, inconsciamente, un italiano scritto comune.
E debitore a questo sforzo, e anche apporto importante all’unitarietà dell’opera, è l’utilizzo di forme stereotipate tipiche della lettera, forme strattonate, ricche di errori e mal scritte (non a caso una sezione della raccolta si intitola Le scuse per la cattiva scrittura e ci si trova lettere come questa: «Scusi del mal scritto che ho freddo» oppure «Mi trema la mano sono ubbriaco dalla fame»), rintracciabili nelle forme di chiusura e di apertura, luoghi in cui più si avverte il desiderio di comunicare e dire tutto («Carissimi genitori, me stò benissimo, così spero il simile di voialtri tutti» oppure «Carissima Moglie Tisgrivo questa lettera per farti sapere che io stò bene e cosi spero di tè» oppure «Cara moglie vengo con queste poche righe per darti mie notizie io ti diro che io sto bene Come spero che sara di te e dei bambini»).
Tra le pagine più emotivamente forti ci sono senza dubbio quelle raccolte nel capitolo La gioia di ricevere una lettera («mia Carissima Maria quando ricevete questa Letterina di tua Sorella L. lapro e vidi dentro Latua calegrafia nonpoi inmaginarti lamia contetteza dopo quattro Messi che non sapeva nessuno nova niente date»), quelle in cui si avverte il sentimento di attesa per la pace («Sappi mia cara che cui siamo molto contenti perche si sente da tutti che dentro di pochi giorni fanno la pace. Ah… mia cara che gioia sara per noi cuel caro giorno che avremo la fortuna di potersi stringer la mano») oppure ancora quelle che lamentano la sofferenza del ricordo («Io o rivolto il mio amore soltanto verso a te e tu sarai sempre il mio idolo e non ti dimentichero mai e non mi stancherò di scriverti fino a quando saro a vicino saro sempre il tuo Torio come che sono statto adesso sempre fedele cosi lontano da te»).
E ci sono infine delle lettere in cui si avverte la violenza che la Storia sta perpetrando verso uomini semplici che non fanno che pensare al loro ritorno a casa («Spera Cara Molie che vada terminata questa guerra micidiale che invece di diminuire, va allargandosi sempre più e fa piangere Madri, Padri Molie. Figli. Fratelli e Sorelle di tutto quelli che si ritrovano in detta guerra») o si abbandonano alla rassegnazione e all’esasperazione («Penzo tante volte che sarebbe stato molto meglio che invece di prendermi prigioniero mi avrebbero amazzato, cosi almeno si avrebbe terminato di tribolare, Quano penso ai momenti trascorsi al fronte Italiano mi vengono le lacrime agli occhi e griderei viva l’Italia ma inghiotisco tutto e spero che presto venga il giorno della nostra libertà»).
Le lettere raccolte sono tantissime, ma ce ne sono alcune in cui si sente più che in altre il carattere peculiare di cui parla Spitzer: si tratta di quelle più comuni, quelle in cui si reclama la mancanza da casa e il dolore della lontananza e l’unico modo per trovare soddisfazione è scrivere: e a scrivere sono semi-analfabeti che nella loro lingua esprimono il sentimento più intimo di nostalgia e sofferenza: «Caro figglio non puoi maginarti quando ricevo il tuo foglio dico questo foglio è stato in mano del mio figlio. Eloricopro di bacci e lo scringo fra le mie manni come tenaglie».
Fonte: minimaetmoralia.it
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