di Alfonso Gianni
In una recente intervista a la Repubblica, Heinz-Christian Strache, l’uomo forte e potente della destra austriaca, erede di Joerg Haider, che a capo della FPO tira la volata a Norbert Hofer tra non molti giorni in ballottaggio per la presidenza della repubblica, ha addirittura definito la Merkel e Renzi “scafisti di stato”, perché colpevoli, secondo lui, di una politica di accoglienza degli immigrati. Cosa abbiano fatto la cancelliera tedesca e il nostrano presidente del consiglio per meritarsi un’accusa così pesante non ci risulta chiaro. Soprattutto non si è vista tutta questa benevolenza da parte del governo tedesco e neppure di quello italiano. Ma proprio la sproporzione tra fatti, comportamenti e giudizi rileva ancora una volta come la questione dei migranti sia il punto focale della politica europea.
La mina su cui l’Europa può esplodere e su cui le piccole patrie di matrice apertamente xenofoba, razzista e fascista possono tornare a prosperare. Almeno nelle loro intenzioni. La sospensione di Schengen e l’invio delle truppe al Brennero non ne sono che la fosca avvisaglia.
La mina su cui l’Europa può esplodere e su cui le piccole patrie di matrice apertamente xenofoba, razzista e fascista possono tornare a prosperare. Almeno nelle loro intenzioni. La sospensione di Schengen e l’invio delle truppe al Brennero non ne sono che la fosca avvisaglia.
Sarebbe sciocco prendere sotto gamba simili dichiarazioni, per quanto ci appaiono deliranti. L’Europa ha già conosciuto la tragedia reale del fascismo e del nazismo – il peggio è nato qui, nel nostro civilissimo continente -, anche se i discorsi di Mussolini e di Hitler potevano anche allora apparire tanto tronfi quanto ridicoli. Nello stesso tempo un conto sono Strache o l’ungherese Orban e un altro, malgrado tutto, la Merkel e lo stesso Renzi; ma è soprattutto vero che l’orientamento complessivo della Ue sul fronte delle migrazioni sta rapidamente volgendo al peggio, come dimostra l’accordo sulla deportazione dei migranti con la Turchia.
Ma se gettiamo un occhio su quanto avviene nella campagna presidenziale americana, con la cavalcata, fin qui vincente in ambito repubblicano – e speriamo che non tracimi da lì -, di Donald Trump e al senso comune che questi esprime ed esalta, ci rendiamo facilmente conto che la questione delle migrazioni domina la politica mondiale, non solo quella del vecchio continente. E lo farà ancora per molti anni a venire, diventando uno dei principali spartiacque che dividono le forze politiche e sociali, lungo una linea che spazza le tradizionali separazioni fra destra e sinistra, così come le abbiamo conosciute, penetra dentro di queste e ridisegna quindi il quadro e le geografie politiche.
Le cause sono profonde e diverse, ma tutte riconducibili agli effetti della globalizzazione capitalistica che ha dominato il mondo negli ultimi decenni. La vertiginosa crescita delle diseguaglianze sociali – mai conosciuta nella storia dell’umanità in simili proporzioni – è una delle conseguenze principali del moderno processo di globalizzazione. Come si sa il fenomeno è stato studiato molto approfonditamente. Non si può certo dire che manchi a livello diffuso la consapevolezza del problema. Ciò che manca è la volontà politica di invertire la rotta.
Il successo mondiale di un libro come quello di Thomas Picketty, lo sta a dimostrare in modo eloquente. Il rapporto di Oxfam (Working for the few: Political capture and economic Inequality, 2014) ci dice che quasi metà della ricchezza mondiale sta nelle mani dell’1% della popolazione (ha ragione lo slogan di Occupy Wall Street), ammonta a 110 trilioni di dollari, pari a 65 volte la ricchezza totale della metà più povera della popolazione del pianeta. Sette persone su dieci vivono in paesi entro i quali la disparità economica è aumentata negli ultimi 30 anni. Negli States, ad esempio, il 95% della crescita successiva alla crisi finanziaria scoppiata nel 2007, è andato a favore di quell’1% più ricco, mentre circa il 90% della popolazione si è sensibilmente impoverita. In Europa la concentrazione dei redditi sta galoppando; il 10% delle famiglie detiene il 60% della ricchezza del continente. Il grande compromesso sociale basato sul welfare state europeo è stato abbattuto. Le diseguaglianze si sono quindi allargate a dismisura tanto tra i paesi più ricchi e quelli più poveri, quanto all’interno in particolare dei primi.
In un quadro di questo genere, tenendo anche conto dell’incremento demografico nei paesi poveri e del fenomeno contrario in quelli più ricchi, il fenomeno migratorio è destinato a segnare la storia del pianeta per i prossimi decenni. Il problema è come governarlo sul piano del soddisfacimento dei diritti, non come combatterlo con muri, filo spinato o flotte armate.
A questo quadro si aggiungono le devastazioni ambientali e le guerre, anch’esse frutto dello stesso sistema. Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa ha conosciuto un lungo periodo di pace, almeno nei confini della Ue. Ma la “pace perpetua” che sognava Kant rimane un’utopia irrealizzata. Infatti, come scrisse uno storico americano, James J. Sheenan, quei confini sarebbero stati presto minacciati, anche a causa di politiche di miope e egoistica austerità, da minacce e insidie che si accumulavano alle frontiere della Ue, lungo le quali “ricchezza e povertà, diritto e violenza, pace e guerra si incontrano continuamente”. Né ci si può salvare spostando in avanti, verso il Mediterraneo, quei confini, con i pattugliamenti marini, o arretrandoli, rimpicciolendo l’Europa. Tantomeno dando vita a una sorta di politica concentrazionaria globale, finanziando e sorvegliando militarmente lager nei paesi africani-mediterranei, di cui gli hotspot in Grecia o in Italia, cioè nei paesi della sponda Nord del Mare Nostrum sarebbero solo le anticamere.
Insomma “Fortezza Europa” è un’opzione che non sta in piedi da nessun punto di vista. “Chi ferma chi?” si è chiesto giustamente Etienne Balibar. “Chi è, per l’altro, la sua guardia di frontiera?” Così, oltre che con il ricatto sul debito, stanno strangolando la Grecia. In realtà le vecchie “naturali” frontiere non esistono più. Anche questo è un effetto della globalizzazione. L’Europa stessa può essere considerata non più la “capitale del mondo”, ma una zona in cui viene tentata una impossibile demarcazione fra Nord e Sud del mondo. Una linea di separazione che è contraddetta continuamente e quotidianamente dai flussi multidirezionali dei capitali per un verso e per un altro ridisegnata nel rapporto fra paesi creditori e paesi debitori che non rispecchia la vecchia geografia.
Per questo appare difficile – a differenza di quanto disse il Presidente Mattarella nel suo scialbo primo messaggio di fine anno - una distinzione tassonomica fra le diverse categorie di migranti. Certo, chi fugge da una guerra guerreggiata nel proprio paese ha più urgenze e bisogni basici e immediati di chi migra per ragioni di lavoro. Ma tutti hanno lo stesso diritto, basato sul principio della libera circolazione delle persone, che la globalizzazione vorrebbe circoscrivere ai capitali e alle armi. La politica delle piccole patrie; il richiamo alle vecchie forme di sovranità; lo stato di eccezione proclamato utilizzando la paura del terrorismo non fanno che aggravare il problema, rendendolo umanamente e socialmente più esplosivo e ingovernabile.
Che la vecchia Europa abbia bisogno di nuove menti e nuove braccia anche per la sua economia è una constatazione che qualunque economista serio e demografo scrupoloso non può negare. Oltre che il diritto delle persone a circolare e a scegliere dove vivere, vi è anche la convenienza ad accoglierle, se solo si guardasse la questione con razionalità. Non di stati d’eccezione, come quello proclamato in Francia, avremmo bisogno, ma, per dirla sempre con Balibar, di uno “stato di urgenza umanitario” allargato alla dimensione europea. Bloccare militarmente l’immigrazione è il suicidio dell’Europa. Nello stesso tempo il fenomeno è talmente grande che nessun paese può risolverlo da solo. Quindi, fosse solo per questo, di Europa c’è bisogno. Ma certo non di questa Europa, ancora tenacemente avvinghiata a politiche neoliberiste il cui fallimento è oramai conclamato, squassata da rigurgiti di nazionalismo e sciovinismo, percorsa da oscure paure che covano il peggio, pronta a privare un’intera generazione di un futuro. Dove lo Strache di turno può permettersi di ergersi a guardiano di frontiere immaginarie.
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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