La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 maggio 2016

Schengen, l'austerità e la crisi europea delle migrazioni

di Domenico Mario Nuti
L’Area di Schengen. Il 14 giugno 1985 Francia, Germania e Benelux firmavano il Trattato di Schengen, abolendo controlli di frontiera e trattando l’intera Area come un singolo paese. Inizialmente il Trattato non era parte delle strutture della Comunità, mancando il consenso degli altri cinque membri, ma veniva incorporato nelle leggi dell’Unione col Trattato di Amsterdam (1997). Gradualmente vi aderivano altri 21 paesi, compresi 4 membri dell’EFTA che non appartengono all’UE: oggi l’Area Schengen ha una popolazione di oltre 400 milioni di persone.
In linea di principio si trattava di un’ottima iniziativa, visto il risparmio di tempo e di costo dei trasporti per passeggeri e merci. Uno studio recente della Bertelsmann Stiftung stima il costo che seguirebbe la disintegrazione dell’Area Schengen da €470md a €1400md nel prossimo decennio (circa il 10% del PIL annuale dei 28 paesi dell’UE) dovuto all’aumento dei prezzi di importazione da 1% a 3%.
Queste stime potrebbero essere esagerate ma senza dubbio il collasso di Schengen nelle condizioni attuali di ristagno economico avrebbe un impatto recessivo sullo sviluppo dell’Unione, con ripercussioni globali.
Le regole di Schengen prevedono controlli di confine temporanei in casi di urgenza, per un periodo da 2 a 6 mesi, e una sospensione del Trattato per un periodo fino a 2 anni per motivi di ordine pubblico. A partire dall’estate 2015 diversi membri dell’Area di Schengen, soggetti a crescenti pressioni migratorie senza precedenti, sono ricorsi unilateralmente alla reintroduzione di controlli, muri e barriere e vari gradi di mezzi repressivi.
La crescente pressione migratoria. Nel mezzo secolo 1960-2010 i migranti internazionali, definiti come i residenti in un paese diverso da quello di nascita, rappresentavano una proporzione relativamente stabile della popolazione mondiale intorno al 3%. In quel periodo la globalizzazione aveva nel 1970 fatto risalire la quota delle esportazioni mondiali sul PIL globale all’8% (come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale), e poi lo faceva crescere ininterrottamente al 24% nel 2000 per raggiungere oggi, nonostante lievi flessioni intermedie, circa il 30% del PIL globale. Permanevano invece ostacoli significativi al movimento internazionale dei lavoratori, soprattutto se poco qualificati; in questo la globalizzazione corrente differiva radicalmente dal quella degli anni 1850-1914, quando le migrazioni internazionali, praticamente non soggette a restrizioni, raggiungevano punte del 10% della popolazione mondiale con una quota delle esportazioni sul PIL globale molto inferiori ai valori odierni (anche perché si trattava di una immigrazione di conquistatori e di lavoratori al loro servizio, senza la possibilità di opposizione ai nuovi venuti da parte delle popolazioni autoctone).
Già verso la fine degli anni 2000 si riscontrava una leggera tendenza delle migrazioni ad accelerare, molto piu’ marcata per le migrazioni dal Sud al Nord. Nei paesi dell’OCSE la quota degli immigrati internazionali saliva dal 4,6% della popolazione nel 1960 al 10,9% nel 2010, quasi interamente per l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo. Successivamente questa accelerazione si accentuava. Nel 2015 i migranti provenienti in Europa principalmente dal Medio Oriente e dall’Africa superavano i flussi migratori dell’ultimo dopoguerra. Secondo i dati di Frontex, l’agenzia europea che dal 2004 assiste i membri di Schengen a monitorare i loro confini esterni, nei primi undici mesi del 2015 1550mila persone tentavano di varcare irregolarmente le frontiere esterne dell’UE, un record storico rispetto ai 282mila emigrati entrati in Europa nel corso dell’intero 2014. Secondo i dati IOM (International Organisation for Migration)/UNICEF il 20% circa della totalità dei migranti che arrivavano via mare era costituito da minori non accompagnati. Secondo l’EASO (European Asylum Support Office, bollettino novembre-dicembre 2015, nei primi dieci mesi del 2015 sono state presentate nell’UE oltre 1 milione di domande di protezione internazionale, con numeri in costante incremento da aprile. Secondo l’IOMnel 2015 sono arrivati in Europa 177 207 migranti via mare, e oltre 3771 persone sono state segnalate come morte o disperse nel Mediterraneo; nel 2016 al 20 aprile si stima che siano arrivati in Italia, Grecia, Cipro e Spagna 180,245 migranti compresi i rifugiati, mentre morti e dispersi si stimano a 1232 nello stesso periodo.
È vero che nel 2015 e fino a metà febbraio 2016 un numero ancora maggiore di soli siriani avevano trovato accoglienza, secondo la Bertelsmann Stiftung, in Giordania (640,000), Libano (oltre 1 milione) e Turchia (2,6 milioni); mentre il Pakistan e l’Iran avevano accolto diverse centinaia di migliaia di migranti rispettivamente dall’Afganistan e dall’Iraq. Ma questo non riduce il problema europeo, tanto piu’ che le cattive condizioni degli emigrati in questi paesi di prima accoglienza e il loro deterioramento prima o poi finiscono col contribuire alla pressione migratoria sull’Europa.
Questa intensificazione delle pressioni migratorie in Europa alla metà del decennio in corso ha una pluralità di cause. I rifugiati richiedenti asilo sono aumentati a causa dell-avvio e continuazione di conflitti e persecuzioni: in Iraq e in Siria soprattutto, ma anche in Afghanistan, in Libia, in Eritrea e in Somalia, e in altri paesi del Nord Africa. Fino al 2014 si stimava che i rifugiati rappresentassero all’incirca il 15-20% dei migranti internazionali, ma a partire dal 2014 fino ad oggi essi sono aumentati rapidamente, a livelli superiori agli spostamenti di popolazione avvenuti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. I flussi di rifugiati sono stati aggravati da errori politici dell’Unione Europea, che Branko Milanovic (in un post su Social Europe, maggio 2015) attribuisce a una combinazione di incompetenza e di arroganza, quali il rovesciamento del regime di Gheddafi, l’ultimatum al precedente governo dell’Ucraina, e la gestione della crisi greca.
I migranti economici, a loro volta, sono andati aumentando per la maggiore possibilità di emigrare, prima impedita da regimi autoritari nel blocco sovietico e da dittature nord-africane ed asiatiche; il divario elevato e crescente fra il reddito nei paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, soprattutto se ponderato per la probabilità di occupazione (approssimata da 1 meno il tasso di disoccupazione), che nella teoria tradizionale delle migrazioni (esemplificata dal modello di Harris-Todaro) è il movente principale delle migrazioni. Inoltre c’è stata una crescente e sempre piu’ rapida diffusione di informazioni circa la misura di tale divario elevato e crescente, o addirittura la percezione esagerata di tale divario di reddito da parte di migranti potenziali che hanno una vision troppo ottimistica delle opportunità di occupazione e di reddito che si aprono per loro e i loro figli nel paese di immigrazione. A questo si aggiunge il divario, effettivo o percepito, nei benefici netti offerti nei paesi di destinazione dallo stato del benessere, e la sovrastima della sua sostenibilità a fronte di migrazione di massa; le tendenze demografiche amplificano l’impatto del divario di reddito, ad esempio con la popolazione sub-Sahariana destinata a crescere di quasi sei volte al 2100.
Per di piu’ gli immigrati ottengono l’accesso automatico e gratuito al capitale sociale nel suo senso piu’ largo (comunque sia definito, come vedremo piu’ avanti). Il semplice passare del tempo consente ai migranti potenziali di risparmiare per finanziare il costo del viaggio di emigrazione anche con un reddito stagnante o addirittura in declino. La graduale riduzione dei costi di trasporto, e la fornitura di mezzi di trasporto relativamente poco costosi anche se rischiosi e insicuri, da parte di scafisti e trasportatori illegali, contribuisce alla pressione migratoria. Ancora piu’ forte è l’effetto della diaspora di migrazioni precedenti, per cui i migranti potenziali contano sul supporto di parenti ed amici già emigrati con successo; questi processi a catena riducono il costo e il rischio delle migrazioni. Ultimo, ma non meno importante, è proprio l’allentamento dei controlli di confine in seguito alla crescente integrazione all’interno dell’Unione Europea (appunto col Trattato di Schengen, 1985), e il basso rischio di scoperta e di penalizzazione nel caso di migranti non autorizzati una volta che siano arrivati a destinazione.
La progressiva sospensione di Schengen. Sotto la spinta dei queste pressioni migratorie vari paesi dell’Area di Schengen re-introducevano controlli, barriere e misure di repressione, forzando i paesi contigui a introdurle a loro volta per evitare l’accumulazione di migranti nel loro territorio.
Nell’estate del 2015 l’Ungheria chiudeva i suoi confini con Serbia, Romania e Croazia. La Slovenia introduceva barriere al confine con la Croazia. Alla fine di agosto 2015 Angela Merkel unilateralmente adottava una politica di “confini aperti” verso i rifugiati siriani, invitandoli in Germania indipendentemente dal primo paese dell’UE da cui fossero entrati. Successivi ripensamenti non facevano altro che accelerare le migrazioni per timore di ulteriori restrizioni.
La Danimarca ristabiliva controlli ai passaporti al confine con la Germania, con la Svezia che quindi stabiliva gli stessi controlli a chi proveniva dalla Danimarca. La Francia chiudeva il campo dei migranti di Calais, la cosiddetta giungla in cui piu’ di 5000 residenti aspettavano di potersi recare nel Regno Unito per ferry, o attraverso il Chunnel in camions, treni o perfino a piedi; la chiusura veniva resistita con violenza. Il Belgio reintroduceva controlli al confine con la Francia per impedire ai migranti cacciati da Calais di spostarsi sulla sua costa. L’Austria costruiva un muro alla frontiera con la Slovenia, e fissava un tetto massimo di 80 richiedenti asilo al giorno. Nel 2015 gli emigranti che dalla Turchia attraversavano il mare per la Grecia aumentavano di 20 volte rispetto al 2014. Venivano rinforzati i confini fra Macedonia e Grecia, poi sbarrati del tutto, trasformando la Grecia in un enorme campo di rifugiati, a “warehouse of souls” (Tsipras).
L’UE prometteva alla Grecia €700 milioni in 3 anni (di cui 300mn nel 2016 per assistenza di emergenza ai migranti); proposte alternative di cancellazione parziale del debito greco in cambio di assistenza agli emigrati venivano respinte, anche se ragionevoli, per paura di un possibile rischio di azzardo morale. Nel novembre 2015 l’UE aveva assegnato €3md alla Turchia per indurla a trattenere i migranti almeno temporaneamente, ma tre mesi dopo 2000 migranti al giorno ancora passavano in Europa; il 20 marzo 2016 l’UE e la Turchia si accordavano perchè dal 4 aprile la Turchia riprendesse dalla Grecia gli emigranti che non facevano domanda di asilo o la cui domanda era respinta, a condizione che i membri dell’UE riprendessero altrettanti siriani dalla Turchia; gli aiuti UE salivano a €6 miliardi con l’aggiunta di altri benefici quali l’accesso di cittadini turchi all’UE senza bisogno di visti (che a sua volta genererà un afflusso di curdi turchi in Europa). Può darsi che questo accordo contravvenga le norme delle Nazioni Unite, ma l’UE è abbastanza potente da non curarsene purchè possa godere dell’acquiescenza dei suoi giudici (Rowthorn 2016). L’accordo potrebbe diventare la base di accordi futuri per controllare i flussi migratori e i rimpatri. La chiusura della via balcanica naturalmente riattivava la rotta mediterranea per l’Italia (attraverso l’Albania o il Mediterraneo meridionale) Cipro e la Spagna, spingendo l’Austria a chiudere la frontiera del Brennero con l’Italia oltre che con l’Ungheria. Per ulteriori informazioni si rimanda versione inglese precedente di questo post.
Secondo una think-tank tedesca il flusso di rifugiati in Europa nel 2016 viene stimato fra 1,8 e 6,4 milioni, quest’ultimo il caso peggiore comprendente numeri elevati dal Nord Africa. Un recente sondaggio Gallup indica che il 32% dell’intera popolazione dell’Africa Sub-Sahariana, equivalente in termini assoluti a 308 milioni di persone nel 2015, proiettati a 685 milioni al 2050, emigrerebbero permanentemente in Europa se ne avessero l’opportunità. Senza contare gli immigrati potenziali dal Medio Oriente e dal Sud-Est Asiatico.
Le barriere recentemente introdotte scadono il 13 maggio 2016, e potranno essere prorogate per altri 18 mesi, dopo di che Schengen sarà ufficialmente finite.

Fonte: eticaeconomia.it

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