La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 5 settembre 2016

Le variazioni del PIL e la specificità della nostra crisi

di Sergio Ferrari
Le attese nei mesi scorsi per conoscere le variazioni trimestrali del Pil nazionale avevano certamente dei buoni motivi, visto la condizione molto critica del nostro sviluppo; una condizione per la verità non esclusiva per il nostro paese dal momento che si parlava di una crisi strutturale internazionale. Il dibattito acceso intorno allo zero della nostra crescita era, tuttavia, il segno di un nervosismo acuto, anche perché non erano comunque questi i dati che avrebbero potuto o meno motivare l’esistenza di una nostra uscita dalla crisi. Questa osservazione vale anche per i dati presentati ai primi di settembre dall’Istat, al quale va riconosciuto una tenuta professionale rispetto alle sollecitazioni immaginabili.
Intanto sarebbe stato corretto ricordare, allora come ora, che noi avevamo due crisi dalle quali uscire; la prima che nasceva negli anni ‘80, mentre la seconda era la crisi internazionale che iniziata nel 2007/2008, aveva colpito tutti i paesi sviluppati, compreso il nostro.
In queste condizioni parlare di un’uscita dalla crisi in conseguenza del fatto che dopo vari trimestri di variazioni in negativo del Pil si era arrivati ad una variazione che si discetta se essere stata dello 0,7% piuttosto che dello 0,8%, dà subito l’idea della qualità di quel dibattito, con l’evidente mancanza di una qualche portata, anche logica. Che la questione si fosse fermata a questo livello, conferma quel giudizio sulla nostra situazione politico-culturale molto preoccupante, che sovente e in circostanze molto diverse, si ripresenta e che, poiché chiama in causa tutta la classe dirigente del paese, meriterebbe una analisi specifica.
Non deve meravigliare, quindi se, oltre a questo livello del dibattito non si sia sviluppata un’analisi per verificare se quell’inversione di tendenza dell’andamento del nostro Pil sia il frutto degli effetti del superamento della crisi internazionale – che quindi si dovrebbe ritrovare anche nell’andamento del Pil dei Paesi partner – o se sia l’effetto di un superamento anche della nostra crisi “storica” come effetto congiunto, quindi, delle politiche internazionali e di quelle attuate sul piano interno.
E’ evidente che una risposta, magari anche solo indiziaria a questo interrogativo, può venire solo dal confronto tra gli andamenti del nostro Pil e quello dei paesi con i quali ci misuriamo. Un confronto che, tuttavia, è inspiegabilmente mancato.
In altre parole se dai tempi d’inizio del superamento della crisi internazionale le variazioni del nostro Pil avessero avuto un andamento parallelo a quello di paesi di riferimento, vorrebbe dire che anche la nostra economia aveva fruito e fruiva degli stessi effetti positivi indotti dagli interventi ben noti e dei quali tutti hanno fruito – la riduzione del prezzo del petrolio, l’ampia disponibilità di risorse finanziarie, la crescente competitività dell’euro. Diversi andamenti devono corrispondere, evidentemente, a diverse interpretazioni sul superamento o meno vuoi della crisi internazionale, vuoi anche del nostro specifico declino. Nel caso di una ulteriore divergenza, sarebbe, ad esempio, motivabile l’ipotesi della mancanza del superamento da parte del nostro paese, sia della propria crisi economica sia di quella internazionale. Solo nel caso di una convergenza nel ritmo di variazione del Pil si potrebbe ritenere che il nostro paese sia uscito o stia per uscire dalla propria crisi storica. Naturalmente i confronti con singoli paesi possono sempre indurre delle perplessità dal momento che ogni economia può fruire dei vantaggi economici accennati ma in maniera differente. Poiché tuttavia sono disponibili dati statistici relativi all’andamento del Pil oltre che specificatamente per il nostro paese, anche come sintesi dei 15 paesi dell’Unione Europea, è sufficiente riferirsi a queste statistiche (o allorquando si presentano vincoli statistici, anche una qualche diversa aggregazione dei Paesi dell’UE) per ridurre le possibili deformazioni nei relativi confronti.
Per poi identificare i diversi periodi storici entro i quali si sono realizzati i differenti andamenti del Pil, si è separato il periodo totale in esame – dai primi anni ’70 al 2015 – in quattro sottoperiodi: dai primi anni ’70 ai primi anni ’80 durante i quali l’Italia ha conservato un buon andamento relativo della propria crescita con andamenti positivi di oltre 3 decimi di punto percentuale all’anno, rispetto ai paesi dell’area Euro; dai primi anni ‘80 al 1996 durante i quali si è avviata e poi sviluppata una permanente difficoltà della nostra economia sino ad arrivare al cosiddetto declino con una perdita media di 0,22 punti percentuali all’anno; dal 1997 al 2007 durante i quali si è sviluppata l’intera fase della speculazioneeconomico-finanziaria internazionale e dal 2008 al 2014 durante il quale si sono manifestate le tendenze – seppur ancora deboli – al superamento di quella crisi internazionale, con l’aumento, tuttavia, del divario negativo da parte della nostra economia.
Nella Tabella 1 e nel Grafico 1 sono riportati gli andamenti del Pil come medie annuali nei diversi periodi presi in considerazione e come differenze tra i valori del Pil del nostro Paese e quello medio dei paesi dell’UE 15.

TAB. 1 Variazione media annua del Pil nei periodi predefiniti e differenze tra l’Italia e l’UE 15


Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Come si vede è nel primo periodo – dall’1971 al 1982 – che il nostro Pil cresce di oltre mezzo punto percentuale all’anno in più di quello medio dei 15 paesi dell’Unione. Una crescita che porta il valore totale del nostro Pil, misurato in termini di Pil pro capite, a livello di quello dei paesi del’Unione più sviluppati. E’ dunque dai primi anni ’80 che s’inverte questo andamento positivo con un andamento del nostro Pil crescentemente inferiore a quello dei 15 paesi dell’Unione. Questa differenza sale a oltre un punto percentuale all’anno con lo sviluppo dell’econonomia finanziaria e delle relative speculazioni sino allo scoppio della crisi internazionale del 2007, mentre dal 2008 la variazione del Pil annuale scende a livelli medi negativi del -1,26 % all’anno per il nostro paese mentre si aggira intorno allo 0 per i paesi dell’Unione, come “segnali” dell’esistenza della crisi economica internazionale la cui natura e la cui entità vanno ricercate in quelle “forme di spericolato avventurismo finanziario” già segnalato sin dal 1981, da Federico Caffè. Nel periodo dal 2011 al 2015 si manifestano i primi pur deboli segnali di un superamento della crisi internazionale, con una ricaduta, tuttavia, nel 2013 e con incertezze negli anni successivi e, in conclusione, con un aumento ulteriore delle differenze delle variazioni del nostro Pil, sino a oltre 1,3 punti percentuali all’anno inferiore di quello dei Paesi UE 15.
Come si è accennato, per valutare se gli andamenti del nostro Pil possono indicare un superamento da parte nostra della crisi internazionale, insieme al superamento anche della nostra crisi specifica, si dovrebbe verificare una convergenza con gli andamenti del Pil dell’UE 15; andamenti tendenzialmente paralleli indicherebbero un superamento, analogo a quello dei Paesi dell’UE 15, della crisi internazionale, ma non della specifica crisi nazionale, mentre un andamento divergente rappresenta l’indicazione di una crisi complessiva comprendente sia una componente internazionale sia una permanenza della componente nazionale.
Dal Grafico 1 emerge come sino alla fine del 2015 la variazione del nostro Pil espresse in termini di valore prodotto per ora lavorata, non solo è inferiore a quello dei paesi dell’UE 19, ma come questa differenza tenda ad aumentare nel tempo. Anche i dati trimestrali per i primi due trimestri per il 2016 confermano queste tendenze.
Occorre segnalare che la progressiva perdita di spinta per lo sviluppo, misurato in termini di Pil pro capite, ha già comportato per i cittadini italiani una perdita, rispetto ai cittadini europei, di quasi 4000 euro pro capite in dieci anni. La cattiva distribuzione di queste perdite di reddito individuale fa parte di un andamento generale sul quale si dovrebbe intervenire se non altro dal momento che è pressoché unanime il parere circa la negatività, ai fini dello sviluppo, della cattiva distribuzione della ricchezza. Interventi in questa direzione dovrebbero essere presenti nella prossima legge di bilancio, al di là di ogni altro provvedimento.

Grafico 1 – Andamento del PIL

(Fonte: elaborazioni su dati Eurostat)


Resta la riflessione da sviluppare circa le riforme necessarie per correggere questo nostro divario negativo dal momento che le riforme introdotte danno segnali precisi di un non avvenuto superamento delle cause della nostra crisi interna.
Tornando, quindi, alla questione delle cause di questa nostra crescente debolezza economica, la letteratura viene certamente in soccorso, incominciando da Kaldor a Verdoorn che da tempo avevano posto l’attenzione alle correlazioni che legavano l’andamento del Pil con quelle del settore manifatturiero e in particolare con la sua capacità competitiva. Una correlazione che era ed è, peraltro, comprensibile dato il peso diretto e indiretto che ha questo settore nell’economia di un paese.
Senza escludere altre connessioni, incominciamo a verificare se nel caso del nostro paese esiste e di che natura è questa correlazione. A questo fine è possibile ricorrere a diverse verifiche, ponendo attenzione alle vicende internazionali che dovrebbero essere alla base del nostro diverso comportamento e che non devono essere di natura contingente.
Se si analizza l’andamento delle quote del commercio internazionale da parte dell’UE19 e dell’Italia, da un certo periodo in poi – intorno agli anni fine decennio ’80 – entrambi questi attori economici vedono ridurre i valori delle rispettive quote. Il che, tenendo presente l’emergere dei Paesi in via di sviluppo, appare del tutto logico e corretto. Ma nel caso dell’Italia si nota una riduzione maggiore della propria quota anche rispetto a quella complessiva dell’UE 19. In sostanza i processi che hanno messo alla prova la competitività del sistema produttivo dei paesi europei, hanno avuto un maggiore rilievo nel caso italiano.
A questo punto è opportuno ricordare le vicende che si sono verificate in quei decenni: è del 1971 la fine della convertibilità in oro del dollaro; è del 1973 – e poi all’inizio degli anni ’80 – la moltiplicazione del prezzo internazionale dei prodotti petroliferi. Occorre aggiungere un fenomeno già accennato e che ha trovato un punto di accelerazione con la fine della guerra fredda e il crollo del muro di Berlino: l’allargamento degli orizzonti delle relazioni internazionali era una conseguenza evidente. Nel contempo la percentuale degli scambi commerciali di prodotti ad alta tecnologia è cresciuta di circa dieci punti contro i circa tre del commercio nel suo complesso, evidenziando una accentuazione straordinaria del ricorso all’innovazione tecnologica e agli investimenti nel Sistema Ricerca e Innovazione. Le relazioni e le interdipendenze tra questi vari fenomeni economici sono evidenti e non è questa la sede per sviluppare tutte le conseguenti riflessioni. Sembra sufficiente constatare come le politiche economiche elaborate nei vari paesi, se volevano far fronte a trasformazioni che ponevano delle sfide e delle alternative pressanti, o progettavano una qualche strategia, delle risposte che adeguassero il proprio sistema economico e produttivo ad una competitività che aveva cambiato molte carte in tavola o altrimenti occorreva mettere nel conto una più o meno rapida retrocessione nella scala economica e sociale internazionale.
Nel nostro Paese sulla base del successo ottenuto nei decenni precedenti il mondo politico, economico ed imprenditoriale ritenne di poter continuare sulla strada precedente, la strada “del piccolo è bello”, della forza dei distretti industriali, di una competitività che aveva bisogno solo di tenere e bada il costo del lavoro e le pretese sindacali, di una cultura microeconomica applicata anche ai livelli macro, di una dimensione culturale del ceto imprenditoriale che non a caso aveva, tra i paesi avanzati, la più bassa percentuale di dirigenti laureati, ecc., ecc.
Tutto questo accrebbe le deformazioni nella specializzazione produttiva e nella struttura dimensionale delle imprese. Un dato che può sintetizzare questa condizione è rappresentato dal numero di ricercatori operanti nel sistema delle imprese: come si nota dal Grafico 2, il divario con i paesi avanzati è tale da non poter essere colmato se non in tempi storici o progettando degli interventi di carattere del tutto straordinario. La Confindustria chiede degli incentivi per la spesa in Ricerca e, stante al suo Vice Presidente, dei super ammortamenti per agli acquisti di macchinari.
Per gli incentivi alla spesa in ricerca già vari interventi precedenti hanno indicato, con indagini specifiche sul campo, svolte anche dalla Banca d’Italia, la loro totale inutilità. Se poi si pensa di recuperare capacità innovativa attraverso l’acquisto di macchinari, si tratta della via scelta da tempo e che, oltre a portare il sistema ad un livello comune con i concorrenti, rischia di danneggiare poprio quei settori delle macchine che dovrebbe concorrere alla nostra competitività tecnologica; così come l’ipotesi avanzata di intervenire sui beni dell’Industria 4.0 “per diffondere l’innovazione tra le imprese “ presuppone che ci sia qualcuno che questa innovazione sia in grado di produrla, che è, per la verità, il punto negativo della nostra situazione, come si evidenzia anche dai dati riportati nel Grafico 2, nonché da una bilancia commerciale relativa ai prodotti ad alta e medio-alta tecnologia da sempre caratterizzata da un andamento crescentemente in negativo, senza nemmeno la capacità di cogliere le straordinarie occasioni che pur si sono presentate. E’ il caso, ad esempio, degli impianti per la produzione di energia fotovoltaica elettrica: come è noto, il costo del kwh è dato dalla somma del costo capitale – gli impianti per produrre l’energia elettrica – e il costo del combustibilile che per il nostro paese è essenzialmente un voce importante delle nostre importazioni e, quindi, con ricadute negative sul Pil. L’adozione e lo sviluppo nell’utilizzo della fonte fotovoltaica poteva essere molto evidentemente una straordinaria occasione per superare il vincolo energetico oltre che per corrispondere alle sfide ambientali. L’attenzione per le fonti rinnovabile ha prodotto da noi la solita politica degli incentivi – mai una politica industriale vera che nel caso specifico del nostro paese avrebbe costituito una occasione storica proprio per coniugare qualità e quantità dello sviluppo. Ma poiché si è operato agevolando l’acquisto all’estero del capitale – che nel caso del fotovoltaico rappresenta pressoché la totalità del costo del kwh – si sono caricate sugli utenti le relative agevolazioni con oneri sulle bollette e che ai cittadini sono costati in dieci anni circa 30 miliardi di euro, peggiorando la nostra bilancia energetica e perdendo nel contempo le opportunità occupazionali. Tutto questo mentre erano disponibili all’interno del Paese le conoscenze scientifiche-tecnologiche per avviare un percorso di qualificazione economica-ambientale-sociale del nostro sistema produttivo nel settore delle produzione delle fonti energetiche rinnovabili; ma si è rinunciato a quel percorso senza che nessuno – o quasi – abbia sentito la necessità di esprimere una critica o almeno di cercare di capire la logica di un provvedimento approvato dal Governo e ampiamente apprezzato, ambientalisti compresi. Il difetto stava nel manico, nel senso che queste conoscenze non appartenevano al sistema delle nostre imprese, delle quali erano ben noti i limiti strutturali in materia di ricerca e sviluppo, ma erano disponibili presso le strutture di ricerca pubblica con il rischio di “interferenze” in politiche che dovevano essere decise e attuate solo da interessi privati in quanto espressioni del “mercato”.
Il richiamo a questa vicenda serve per riprendere il percorso centrale di questo intevento che intende individuare le cause della difficoltà del nostro sviluppo economico, difficoltà che, come si è visto, hanno almeno una componente di origine para-ideologica ma, in effetti, di ottusità microeconomica.

Grafico 2 – Numero di ricercatori ogni mille occupati nel sistema industriale

(Fonte: elaborazioni su dati Ocse)


Nel Grafico 2 sono riportati gli andamenti del numero di ricercatori ogni mille addetti nel sistema industriale italiano e come media nei paesi dell’UE 15.
La prima osservazione sta negli andamenti di queste curve, che appaioni del tutto coerenti rispetto a quelli relativi agli andamenti del nostro Pil a fronte di quello dei paesi della UE. La cosa non è casuale dal momento che gli andamenti del Pil sono gli effetti la cui causa stà, in maniera non esclusiva ma certamente rilevante, nei dati espressi nel Grafico 2. Il fatto che come conseguenza di questa carenza del nostro sistema produttivo si verifichi un eccesso nella “produzione” di laureati per cui ne possiamo esportare, viene affrontato dall’attuale “sistema” politico come una necessità di limitare o privatizzare l’azione del sistema universitario, riducendone, tra l’altro gli oneri, quindi con un effetto finale, secondo questa “scuola”, fortemente positivo dal momento che si potrebbe così ridurre la spesa pubblica.
Questi scenari insieme alla mancanza di segnali circa il superamento della nostra crisi, pongono una questione apparentemente molto semplice ma, di fatto, molto complessa. La componente apparentemente semplice sta nella evidente necessità di mettere in discussione rapidamente le politiche economiche e industriali sin qui adottate e che hanno portato a questi esiti. Poichè questo non è avenuto e non ci sono, almeno per ora, segnali di un qualche cambiamento, quanto piutosto si rilevano frequenti indicazioni di conferma, evidentemente le complessità di una tale decisione sono a tutt’oggi nettamente prevalenti rispetto alla apparente semplictà. E’ bene precisare che le responsabilità vanno ben oltre a quelle dell’attuale governo, per il quale occorre solamente rilevare come le sue azioni di riforma possano confondersi con delle azioni di controriforma dal momento che non è semplice – per motivi culturali – saper cogliere le differenze nella nomenclatura adottata. Questa situazione è, peraltro, una conferme della battuta secondo la quale tra destra e sinistra non ci sono più differenze.
Ma poiché per uscire da questa nostra crisi occorre cambiare quelle scelte economiche attuate sino ad ora, ne consegue che occorre modificare quelle politiche “comuni”, o, meglio, quella cultura che ha inventato l’identità tra destra e sinistra. Ed è a questo punto che si esalta la complessità della nostra situazione poiché all’evidenza del fallimento di quelle scelte non corrisponde ancora, neanche a sinistra, ad una concreta proposta alternativa, nemmeno sugli aspetti analitici che dovrebbero almeno indicare le cause della nostra specifica crisi, senza le quali non è pensabile di elaborare delle terapie corrette.
Le previsioni sull’andamento del PIL 2016 – in attesa degli aggiornamenti contenuti nel prossimo DPF e del confronto con i dati degli altri paesi – per ora rappresentano una conferma del giudizio critico sulle politiche economiche e sociali di questo Governo, facendo emergere, visti i consensi di esponenti dell’accademia, della Confindustria e di buona parte dell’informazione, l’esistenza di una crisi dell’intera classe dirigente di questo paese.
Questa crisi, se non consente di immaginarne il superamento a breve, chiama in causa anche le politiche dell’Unione verso la quale si cerca di scaricarne le responsabilità, mentre le sue origini sono tutte interne.
Si apre a questo punto la necessità di una analisi e di una riflessione che deve aprirsi anche a questi orizzonti europei e internazionali. Una questione che deve essere affrontata ma non senza aver prima chiarito, tuttavia, la natura dei vincoli interni, se non altro per evitare di sperperare eventuali “concessioni” dell’Unione.
Se esiste un accordo nel ritenere che l’attuale politica industriale – abbandonata come è alle scelte e alla gestione degli stessi imprenditori, confondendo così la microeconomia con la macroeconomia – non è in grado di recuperare la perdita di competitività internazionale che da molto tempo la distingue e debba essere corretta recuperando una moderna presenza industriale, questa non può poi identificarsi con il recupero di vecchie specializzazioni – come alle volte emerge anche a sinistra – se non altro perchè lo scenario competitivo interrnazionale non lo consentirebbe nemmeno sulla carta. Ma anche la riduzione dei problemi competitivi alla questione della scarsa spesa in ricerca da parte pubblica e privata, con conseguenti sollecitazione da parte industriale per ricevere degli incentivi in materia, confonde l’innovazione tecnologica con la ricerca scientifica, essendo quest’ultima la necessaria premessa – oltre che una dimensione della qualità culturale e sociale della società – ma non certo l’insieme di un Sistema Nazionale dell’Innovazione. Non a caso analisi varie, comprese quelle condotte dalla BdI, oltre alla logica, hanno confermato l’inutilità di questo intervento pubblico a favore degli incentivi alla spesa in ricerca da parte delle imprese, mentre sarebbe stato molto più intelligente sollecitare e agevolare l’intervento del sistema della ricerca pubblica, invece di tendere di fatto alla sua eliminazione. Quindi anche affidare l’elaborazione di una alternativa agli stessi operatori che hanno condotto la nostra società a questo punto, appare, a dir poco, molto discutibile.
Volendo, quindi, entrare nel merito di una elaborazione progettuale alternativa l’unica questione che può e deve essere anticipata riguarda la precisazione dei valori che è necessario tenere presenti anche in materia di politica economica e sociale; la crisi ha generato ambiguità e confusioni anche in questo campo: occorre precisare che i valori da assumere sono quelli del socialismo riformatore e cioè l’eguaglianza e la libertà. Si tratta di scelte che prescindono e precedono la pur importante questione delle forme che deve o può assumere la democrazia.
Altri potranno assumere altri valori ma almeno si saprà che vengono assunti valori diversi da quelli riformatori e si saprà anche che senza quei valori della sinistra, il nostro declino non avrà alternative.
Con questa premessa è possibile poi riprendere le indicazioni di merito espresse – ancorchè sino ad ora inascoltate – in un dibattito rimasto estraneo alle responsabilità di Governo. In questo caso la sintesi offerta, ad esempio da Paolo Leon (P. Leon: I Poteri Ignoranti – pag 62), può rappresentare un ottimo riferimento: “E’ evidente che sarebbe necessario l’intervento pubblico. Ma il problema è complesso perché occorrerebbe, nei paesi ricchi, una riforma della finanza e delle banche, un redistribuzione di reddito e ricchezza, una riduzione del grado di monopolio, un aumento della spesa e proprietà pubblica, un rafforzamento legislativo del sindacato per aumentare la domanda effettiva e il reddito nazionale, e tutto ciò senza vendere titoli di Stato sul mercato, ma obbligando la Banca Centrale ad acquistarli, riducendone l’indipendenza . “ Poichè nel frattempo si è aggiunta la disgraziata concomitanza della sequenza di terremoti, anche questa situazione deve finalmente essere affrontata con una approccio “all’economia della manutenzione” indicata da R. Lombardi sin dagli anni ’60. Il tempo trascorso negativamente è di oltre mezzo secolo ma, come si vede, non è ancora un approcio superato. Non così si potrà dire tra cinquant’anni per la politica economica e sociale che ha condotto il Paese al declino ormai pluridecennale che conosciamo.
A questo punto non ci resta che preparare una nuova classe dirigente.

Fonte: syloslabini.info 

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