La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 settembre 2016

Quei diritti rimpatriati in Sudan

di Duccio Facchini
Il 24 agosto scorso, l’Italia ha condotto le operazioni di rimpatrio di 48 cittadini sudanesi prelevati a Ventimiglia e poi collettivamente imbarcati su un aereo destinato alla capitale del Sudan, Khartum. L’iniziativa avrebbe tratto origine da un memorandumsottoscritto ad inizio agosto dai rispettivi capi della Polizia dei due Paesi e centrato su frontiere e “gestione dei fenomeni migratori”. Questo, oltre a non esser stato sottoposto al vaglio e all’approvazione del Parlamento, non è stato nemmeno reso consultabile dall’opinione pubblica e dalla stampa.
“Non ce l’abbiamo, non riusciamo a fornirlo, il documento non è pubblico e il contenuto è quello del comunicato stampa”, ha fatto sapere ad Altreconomia l’ufficio delle relazioni esterne della Polizia di Stato. Sulla stessa onda si ritrova l’ambasciata del Sudan in Italia, la quale, relativamente al merito dell’accordo, si è limitata a un’etichetta generica: “Il memorandum riguarda aspetti di cooperazione tra le polizie dei due Paesi”. La relazione tra migranti sudanesi e il nostro Paese non è secondaria, tenuto conto del fatto, come riporta l’UNHCR, che ogni 100 migranti giunti in Italia dal Mediterraneo dall’inizio del 2016, 7 provengono dal Sudan. Non solo. Nell’ultimo quaderno statistico, la Commissione nazionale asilo ha classificato gli esiti delle richieste di protezione. Lo scorso anno, su 259 richieste esaminate, avanzate da altrettanti sudanesi, oltre il 64% aveva registrato un riscontro positivo in termini di protezione internazionale (la media complessiva era del 41%). Ciò significa che una “questione umanitaria” per i cittadini del Sudan esiste eccome.
Non essendo pubblico il testo del memorandum tocca rifarsi alla breve nota diffusa in estate dalle polizie dei due Paesi, dalla quale emerge che “L’accordo si iscrive nel più ampio quadro di cooperazione tra Sudan e Unione Europea sui temi migratori, con particolare riferimento al Processo di Khartoum (lanciato in Italia nell’autunno del 2014) e al Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione Europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa (lanciato nel novembre 2015 al Summit di La Valletta, Malta)”.
Sta di fatto che in queste settimane, oltre al collettivo “No Borders” e il presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, Luigi Manconi, diverse organizzazioni per i diritti umani -Amnesty International, su tutte- hanno criticato la condotta del Governo italiano, rivendicata invece dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, evidenziando come il cosiddetto “Piano Gabrielli” -dal nome del successore di Alessandro Pansa- determini deportazioni collettive di migranti potenzialmente meritevoli di protezione internazionale. Condotta che il nostro Paese ha già portato avanti in passato e che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già sanzionato attraverso la storica sentenza del 23 febbraio 2012 contro i respingimenti in mare effettuati a partire dal maggio 2009 (Governo Berlusconi, ministro dell’Interno Roberto Maroni).
“Questa condotta si inserisce in un quadro illegittimo di politiche europee -commenta ad Ae l’avvocato Salvatore Fachile, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), a proposito dell’accordo con il Sudan-. Ultimamente i Paesi europei stanno intensificando i rimpatri in Paesi in cui non è affatto assicurato il divieto di tortura. E questa politica è portata avanti anche dall’Italia, nonostante la normativa europea e italiana la vietino. Infatti -prosegue Fachile- è illegittimo rimpatriare forzatamente verso un Paese dove non vengono rispettati i diritti fondamentali e dove la persona rischia di subire trattamenti inumani come sancisce l’articolo 19 del Testo unico sull’immigrazione e più in generale la Convenzione europea dei diritti dell’uomo al suo articolo 3”.
Peraltro, come aggiunge l’avvocato Dario Belluccio di ASGI, collega di Fachile, “In un solo giorno ciascuno dei 48 è stato attinto da un decreto di espulsione e decreto di allontanamento, senza che ogni singola posizione venisse esaminata in maniera individuale prima di procedere all’espulsione”.
A ordinarlo è stato un giudice di pace, come prevede la legge. “Premesso che non conosco il giudice di pace in questione -ragiona Belluccio- dubito dell’opportunità che un giudice non togato possa occuparsi della libertà personale di un individuo, ‘privilegio’ in negativo che spetta solamente agli immigrati. Si tratta di un’aporia del nostro sistema che meriterebbe una riforma radicale. Inoltre, le convalide di queste misure di allontanamento avvengono dall’oggi al domani, dove nel caso di specie il giudice è chiamato a convalidare 48 provvedimenti sottoscritti da un prefetto, identici tra loro; mi chiedo che cosa possa valutare oltre alla ‘forma’ dell’atto”.
Il console della Repubblica del Sudan in Italia, Eltayeb Algadir, ha precisato adAltreconomia che il rimpatrio è stata una decisione italiana e che l’Ambasciata, pur coinvolta nelle operazioni di identificazione, “non ha chiesto e mai chiederà il rimpatrio di alcun cittadino sudanese”. Salvo aggiungere che “se questi immigrati non hanno trovato una vita migliore di quella che avevano a casa, è meglio che tornino indietro: molti di loro erano sorpresi dalla scoperta che venire in Europa è solo un’illusione”. Alla domanda se alcuni dei rimpatriati del 24 agosto avessero mai manifestato l’intenzione di avviare le procedure per il riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale, il console ha risposto “no, nessuno”. Qualcuno ha manifestato l’intenzione di ricorrere contro l’espulsione? “Rispetto ai 47 no. Ma molti altri sono alla ricerca di rimpatrio attraverso l’Ambasciata”. Dinamica che pare essere smentita dagli arrivi e dagli esiti delle domande di protezione.

Fonte: Altreconomia.it 

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