La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 27 febbraio 2017

Lo Stato non c’è più: diario di un terremoto già dimenticato

di Mattia Bertin
Lo Stato non c’è più. Emergenza finita. In quello che fino a venti giorni fa sembrava l’ombelico operativo delle forze di protezione civile, l’orgoglio di una capacità di mobilitazione che non conosce costi o situazioni metereologiche, che parte per il soccorso e scava nella neve per giorni, la smobilitazione è terminata. O meglio, sono rimasti solo alcuni corpi di presidio tecnico, come i vigili del fuoco o l’esercito, ma per tutte le associazioni, i corpi, i gruppi, l’emergenza è terminata, tutti a casa. Se ogni emergenza è differente, per come il disastro si manifesta, per le caratteristiche del territorio, per la cultura e le relazioni delle comunità colpite, la gestione di questa serie di terremoti è stata molto differente da quelle a cui siamo stati abituati negli ultimi trent’anni in Italia.
Abbiamo visto un’emergenza quasi senza tende, escluse quelle per i volontari e qualche enorme pneumatica di comunità per alcune frazioni particolarmente colpite. Abbiamo visto attivare forme di gestione dell’emergenza con strumenti innovativi, come il gemellaggio tra un’associazione nazionale di protezione civile e una frazione, invece della solita divisione di compiti tra associazioni con formazioni e specialità diverse. Abbiamo visto una mano della Protezione Civile leggera, capace di interrogare i Comuni e di coinvolgere la cittadinanza nelle prime decisioni, elemento molto positivo perché ha consegnato a chi ha subito il terremoto la possibilità di ripensarsi non come vittima ma come protagonista di un cambiamento. Abbiamo visto delle linee guida interessanti, con una decisione chiara: riaprire i posti di lavoro e le scuole prima possibile per permettere al numero maggiore possibile di cittadini di restare nel loro territorio. E poi non abbiamo visto più niente.
In un confuso malinteso, appena consegnati i moduli-alveare con cui sostituire le tende, il Governo ha dichiarato conclusa la fase dell’emergenza per cui era utile una presenza capillare di assistenza, ha chiuso le cucine da campo ed ha congedato i volontari. È stato un doppio errore grave, che ora sta minando pesantemente il clima dei territori colpiti in diversi modi.
Il primo gravissimo errore di questo atteggiamento è credere che un’emergenza sia un fatto materiale, di edifici da ricostruire, di costruzioni da rendere agibili. Un’emergenza è innanzitutto la scoperta che il luogo in cui vivi non è accogliente come credevi, che può farti del male, che può distruggere quello che hai costruito in una vita e minacciare le persone a cui vuoi bene. Mandare a casa i volontari che si occupano di prendersi cura delle comunità colpite dopo così poco tempo significa togliere quel poco sostegno che c’era, negare l’umanità di un contatto fondamentale.
La percezione che si ha oggi andando sui luoghi del terremoto è quella di un abbandono. Si tratta di un abbandono subdolo però: ho parlato a lungo nelle settimane scorse con chi vive nelle zone del terremoto, lamenta stanchezza, difficoltà, ma difficilmente ne coglie la causa. Molte persone che erano un riferimento per la comunità si sentono smarrite, incapaci di gestire una visione di futuro che non sanno dove cercare. Il Governo ha saputo convincere che ora tutto il meccanismo di protezione civile non è più necessario perché l’emergenza è passata, lasciando la certezza di un precario letto in un container, di due pasti caldi al giorno, di una minima riapertura dei servizi scolastici, la presenza visibile di alcune squadre di Vigili del Fuoco e soldati. L’effetto di questo scivolamento fuori è stato ben congeniato, ha evitato proteste e scontri, ma ha lasciato dietro di sé una terra confusa.
Al contempo, la soluzione dei moduli-alveare, ha determinato un secondo gravissimo errore: la struttura di questi spazi bianchi, asettici, individuali, è tale per cui ogni persona che ci vive all’interno è sempre sotto osservazione da parte degli altri, senza mai poter essere in collettività. Le camere, ovviamente prive di bagni, non sono in nessun modo isolate, e quindi si è sempre nella sensazione di non poter vivere la propria intimità, d’altra parte però l’unico spazio collettivo di dimensione decente, la mensa, è tenuta chiusa lontano dagli orari dei pasti, impedendo una reale condivisione.
Non c’è un luogo dove organizzarsi, dove continuare quel processo di condivisione che aveva permesso alle frazioni di reggere e di sostenersi. Inoltre i pasti sono forniti da un catering, che arriva, porta il pasto e se ne va, negando qualsiasi dimestichezza con chi prepara il cibo con cui nutrirsi. La sensazione è quella di essere in un reparto di ospedale, irritante, ansiogeno, asettico e repulsivo.
L’effetto di questi due errori è stato l’esplosione delle frazioni, delle contrade, dei paesi, così capaci di organizzarsi da soli all’inizio di questa storia, così forti nella loro identità fino a qualche mese fa, ed oggi abbattute, negate, in guerra al loro interno per il logoramento di questo abbandono e di questa individualizzazione. Negare tutti quei progetti di costruzione di comunità già pronti e normalmente utilizzati significa negare agli abitanti delle zone colpite la possibilità di rialzarsi davvero, di potersi riconoscere nel loro rapporto con le loro terre, di aprirsi una strada nuova.
Siamo ancora in tempo, è possibile intervenire, ma è necessario cambiare immediatamente rotta, attivare progetti di comunità, garantire sostegno qualificato non solo ai singoli che non ce la fanno più, ma all’intero territorio, aprire spazi pubblici questi sì fisici, coinvolgere la popolazione delle frazioni nelle decisioni e nella lettura di quanto accaduto. Riconoscere che un terremoto è soprattutto un fatto sociale. Ma è necessario fare presto prima che questo silenzio assordante si trasformi nella più triste delle storie post-emergenziali del nostro Paese.

Fonte: L'Espresso 

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